La globalizzazione distrugge i diritti

 

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«I diritti sono diventati un lusso? L’età dei diritti è al tramonto?» Si poneva queste inquiete domande Stefano Rodotà, su Repubblica del 20 dicembre, a proposito della messa in discussione dell’articolo 18 da parte del ministro Fornero, di Confindustria e vari altri esponenti del mondo politico italiano.

Non sono domande né retoriche, né allarmistiche, come si tende di norma a far credere, minimizzando l’oltranza che intanto si fa strada. L’idea di far crescere l’occupazione rendendo più agevole il licenziamento dei lavoratori, ancorché empiricamente infondata, è una testata d’ariete contro uno dei

pochi diritti del lavoro che rimangono ancora in piedi nel nostro paese. Per comprendere sia l’inefficacia pratica e controproducente della misura invocata, che il carattere sostanzialmente devastatore di diritti fondamentali della persona, è sufficiente un breve sguardo storico.

Basta osservare quanto è accaduto al mondo del lavoro nei paesi di antica industrializzazione negli ultimi 30 anni per capire che le misure a cui esortano i “modernizzatori” sono un altro passo verso una costituzione materiale che riduce la democrazia a una casa vuota.

L’attuale situazione del mercato del lavoro, in cui si invocano nuove facilitazioni al capitale perché esso investa, e crei nuova occupazione, è

infatti figlia di una storia che si tende a dimenticare. Pochi, infatti, ricordano, che essa stessa è il risultato storico della inedita, straordinaria facilità con cui le imprese hanno potuto disporre della forza lavoro negli ultimi decenni. Se al termine globalizzazione si toglie la crosta di retorica che lo nobilita, si

vede facilmente che essa è consistita in questa gigantesca operazione: i circa 960 milioni di lavoratori attivi nei paesi sviluppati e in alcune enclave del Brasile e di pochi altri stati, nei giro di due tre decenni sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di portatori di forza lavoro  disponibili in Cina e India e negli altri paesi in via di sviluppo.

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Le delocalizzazioni di Usa, Europa, Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando i salari da fame di vaste popolazioni rurali, spesso devastando il loro ambiente senza tutele. Questo è ben noto. Il loro fine è stato e continua ad essere anche quello di immettere la classe operaia sindacalizzata in questo nuovo e immenso serbatoio mondiale di forza lavoro, bloccando le sue rivendicazioni, costringendola in forme di subordinazione sempre più stringenti e socialmente frantumate. È questa l’anima più travolgente della globalizzazione:

la formazione di un mercato del lavoro di oltre tre miliardi di persone, il più vasto della storia, nel quale gli operai appena arrivati costituiscono, per il capitale occidentale, lo standard vantaggioso in cui trascinare tutti gli altri.

Oggi queste analisi sono proposte, significativamente, da studiosi e commentatori liberal americani, che possono ormai osservare con qualche distacco le cause profonde della presente crisi. Studiosi come Walman e Colamosca, con con largo anticipo, e poi Paul Mason e Luo Dobbs, il quale ultimo ha intitolato un suo recente libro, senza mezzi termini, War On The Middle Class, (guerra ai ceti medi e popolari) insieme a tanti altri mostrano nitidamente in quale sontuosa cucina è stato preparato il pranzo che sta squassando il mondo.

L’impoverimento degli strati popolari in Usa è infatti all’origine di tutto. Se questo grande paese doveva continuare ad essere la locomotiva dei consumi, e trascinare così la crescita mondiale, come si poteva quadrare il cerchio se le manifatture emigravano in Cina, i salari operai ristagnavano? Chi continuava a riempire di stuff, di mercanzie inutili il carrello del supermercato? Gli stessi lavoratori e il ceto impiegatizio, naturalmente. Un miracolo tecnologico? Niente affatto! Una trovata del capitale finanziario, un passo in avanti verso la modernità direbbero tanti nostri commentatori, vale a dire l’indebitamento di massa delle famiglie americane. Le quali hanno continuato a comprare, non solo stuff, naturalmente, ma anche case a buon mercato, con mutui ben congegnati, per la gloria universale dello sviluppo.

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Quel che è accaduto dopo, con l’esplosione della bolla finanziaria, è storia nota. Meno nota, o comunque meno connessa agli svolgimenti appena accennati, è la politica degli stati industrializzati, compreso ovviamente il nostro, di fronte alle spinte che venivano dal nuovo mercato mondiale del lavoro.

Quali sono state le politiche che i governi, tanto di destra che di sinistra, hanno adottato per fronteggiare una situazione così inedita, che travolgeva in tempi rapidi assetti lungamente consolidati? Essi, più o meno all’unisono, si sono adoperati per rendere più agevoli le condizioni competitive dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo spazio mondiale. E lo hanno fatto con vecchie e nuove politiche: tramite la riduzione del peso fiscale alle imprese, riducendo gli spazi del welfare, ricorrendo alle “riforme del mercato del lavoro”, che la cosiddetta Europa continua a invocare a gran voce. La flessibilità, eccola l’altra lucente parola della modernità. Questa è stata individuata come la carta vincente per sostenere la competizione conCina e India.

Vale a dire la riduzione dei lavoratori a uno dei tanti fattori inerti della produzione, simile alle materie prime e ai macchinari, che vengono utilizzati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino. Che grande passo in avanti per promuovere la crescita! Quale salto di civiltà ci fa compiere il capitalismo dei nostri anni, che mai aveva avuto così tanti volenterosi apologeti in tutta la sua storia!

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Ma chi si è ricordato del fatto che gli imprenditori bisognosi di essere aiutati nella competizione erano e sono spesso gli stessi che avevano delocalizzato in Cina o in Romania? Chi comprende questo passaggio storico decisivo, che si è consumato sotto i nostri occhi? Sono le imprese, americane o europee, quelle stesse che si sono create, a loro esclusivo vantaggio, le condizioni della competizione mondiale, a chiedere al ceto politico di poterla fronteggiare con l’ ormai definitivo servaggio della forza lavoro. Vale a dire accrescendo le condizioni delle loro convenienze di partenza e acuendo le disuguaglianze che stanno trascinando il mondo in una crisi senza sbocco.

Questo è l’andamento del corso storico degli ultimi 30 anni, che oggi si vuol far passare come una realtà naturale, uno stato di necessità a cui non si può resistere, da assecondare, naturalmente con le riforme. Riforme, ecco le consunte parole con cui una intera generazione del ceto politico mondiale

maschera la propria ormai inoccultabile impotenza. Rendere più agevole al capitale l’uso della forza lavoro non solo non è la soluzione, ma la causa prima del presente disordine mondiale, poggiante su un sovrastante dominio di classe. Se ne persuada il ministro Fornero, e tutti gli zelanti salvatori dell’Italia, i nuovi posti non nasceranno rendendo più facili i licenziamenti dei lavoratori.

A frenare gli investimenti non sono certo le condizioni del mercato del lavoro, come mostrano del resto recenti ricognizioni presso le imprese.

L’abolizione dell’articolo 18, inutile allo scopo, costituirebbe un altro piccolo passo verso la barbarie: condizione a cui si perviene, ovviamente, con la giusta gradualità, perché gli uomini hanno bisogno di un po di tempo, ma poi si adattano a qualunque abiezione.

Se anche nell’animo dei cristiani i dogmi neoliberali sono diventati articoli di fede, occorrerà rifondare qualche nuova religione, o l’umanità è perduta.

Di  Piero Bevilacqua

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