I Comuni del Parco: Papasidero

 

CENNI STORICI

Di Papasidero si ha notizia per la prima volta in documenti Normanno-Svevi intorno al 1200

Esso è descritto come centro abitato cinto da mura e difeso da un castello.

ll castello, con una sola torre semicircolare, si erge su uno sperone roccioso a strapiombo sul fiume Lao; costituisce il punto di raccordo di un’ampia cinta muraria , per lunghi tratti ancora visibile, nella quale si aprivano delle porte. Di probabile origine Longobarda, il castello costituiva un baluardo contro le scorrerie saracene molto frequenti tra il 994 e il 1044 a.C.

Il nucleo originario del paese si formò, dunque, sotto i Longobardi, intorno all’anno Mille, dopo il declino dell’Impero Romano, nel clima di ripopolamento delle campagne, favorito dalla colonizzazione del monachesimo greco, i cui asceteri  ormai da tempo punteggiavano tutta l’area del Mercurion, e dalle signorie immigrate dai territori Longobardi di Salerno.

Ma più che i Longobardi, furono i nuclei monastici a coniugare egregiamente l’inserimento nel territorio con lo sviluppo del tessuto ecomomico, sociale e demografico.

A partire dal XI sec. il borgo si sviluppò, specie sul fianco ovest ampliando, così, l’originaria aggregazione attorno al castello.

Fino al XV secolo la popolazione superò di poco le 200 unità.

Nel 1648 gli abitanti raggiunsero la cifra di 1148; poi, a causa di crisi agricole ed epidemiche, la popolazione si dimezzò.

Nel 1744 gli abitanti erano 540, ma già nel 1801, Papasidero registrò un notevole incremento demografico, raggiungendo le 1845 unità, che divennero 2062 nel 1816.

A seguito di una violentissima epidemia di colera che imperversò in tutto il Regno delle due Sicilie tra il 1835 e 1837, la popolazione diminuì; ma poi riprese a crescere e, nel 1852, il paese raggiunse il numero di 2300 abitanti, per passare al suo massimo storico nel 1871 con 2988 abitanti.

Il fenomeno dell’emigrazione verso i paesi dell’America Latina, ma specie verso la Francia, la Germania, la Svizzera e le regioni del Nord Italia, ha decimato la popolazione del paese che ora supera di poco i mille abitanti.

Salvo la parentesi di appartenenza ai Sanseverino (1354) e ad Accursio Pappacoda di Napoli (1414), dal XVI e fino al 1722 il paese appartenne sempre alla famiglia Alitto , scesa al seguito di Roberto il Guiscardo durante il periodo Normanno.

Ritornato in beneficio alla Regia Corte, il feudo di Papasidero fu acquistato dagli Spinelli di Scalea che lo tennero dal 16 Novembre 1724, all’eversione della feudalità nel 1806.

Controversa è l’origine del nome.

Oreste Dito lo fa derivare da “Papàs Skidros” antica Scidro che , assieme a Laos, era stata fondata dai Sibariti sul versante tirrenico della Calabria; il Rolhfs, invece, fa riferimento ad un igùmeno presente nella comunità basiliana del luogo e lo deriva da “Papas Isidoros”, prete Isidoro. Lo storico Enzo Papa osserva giustamente che un personaggio  che avrebbe dato il nome ad una comunità, non sarebbe svanito nel nulla, ma avrebbe lasciato maggiori segni di sè, e avanza questa ulteriore ipotesi: “ Io ritengo, con buona pace di Rohfs e dei suoi epigoni, che Papasidero derivi dal bizantino Hapa-siderion, in cui il primo termine è il greco Hapas-hapantos (tutto), e il secondo è una glossa greca, acquisita al latino da Plinio, con il significato di Verbena. Dunque: “Luogo tutto di verbena” . La pianta un tempo era diffusissima in Calabria e pertanto ha dato il nome a questo luogo.”

Le tracce del monachesimo basiliano

Dopo la caduta dell’Impero Romano (476 d.C.), la Calabria passò sotto il dominio dell’Imperatore d’Oriente e vi rimase per tutta la seconda metà del primo millennio.

L’influsso bizantino è ancora documentabile nei residui culturali della popolazione, ma anche nelle testimonianze artistiche.

L’uso delle immagini per i monaci bizantini rivestiva un valore didattico-didascalico. Per le icone essi furono disposti a subire la persecuzione iconoclasta dell’ VIII secolo e a fuggire nell’Italia meridionale dove fondarono i più importanti centri di vita monastica.

Uno di questi grandi centri basiliani fu la valle del Mercurion, come era allora chiamato il fiume Lao.

In tutto il territorio di Papasidero sono molto numerose  le vestigia di questa antica presenza: dal nome dei luoghi, alle derivazioni linguistiche di molte parole dialettali, all’affresco del Santuario della Madonna di Costantinopoli,  a quelli ben conservati nella Cappella di S. Sofia, a quello che si può ammirare nella cappella di S. Anna al Cimitero e a quelli che  ancora si possono incontrare, riprodotti sulla roccia, lungo un  sentiero che costeggia il fiume Lao.

Il santuario della Madonna di Costantinopoli

Al XVII secolo è ascrivibile l’attuale impianto del Santuario della Madonna di Costantinopoli,addossato alla roccia che precipita sulla riva destra del fiume Lao, in un incantevole scenario naturale.

Papasidero – Santuario Madonna di Costantinopoli

La pianta è a T, a tre navate e tre campate scandite da archi a tutto sesto, poggiati su pilastri quadrati.

A destra dell’edificio svetta un tozzo campanile a base quadrata e cuspide a piramide.

La chiesa si raggiunge attraverso un ponte, fatto costruire nel 1904 da Nicola Dario, sopra la campata, ancora visibile, di quello medioevale. Nell’interno si conserva un affresco di circa 2×3 metri che rimanda ad uno standardizzato filone iconografico della pittura controriformista meridionale.

La cappella di S. Sofia

Altri affreschi del periodo bizantino si possono ammirare nella cappella di Santa Sofia: una costruzione a pianta leggermente trapezoidale, di 5 metri quadrati di superficie, che si trova incastonata tra le antiche case dell’abitato.

Il minuscolo locale conserva un altare settecentesco e un ciclo di affreschi, probabilmente di autori locali, che utilizzano canoni assai vicini al gotico cortese e alla pittura toscana del Trecento.  Sulla parete centrale è raffigurata la Pietà con a sinistra S. Apollinare e a destra le Ss. Caterina e Lucia; sulla parete sinistra S. Sofia e i Ss. Pietro e Paolo: sulla parete destra i Ss. Biagio e Rocco e la Vergine di Costantinopoli in trono.

Un bel video realizzato dallo storico Mormannese Luigi Paternostro mette bene  in evidenza il patrimonio d’Arte Sacra che si conserva nel Santuario della Modonna di Costantinopoli, nella chiesa parrocchiale di S. Costantino e nella Cappella di S. Sofia a Papasidero:

Affresco della Cappella di S.Anna

L’affresco conservato nella Cappella di Sant’Anna sita all’interno del recinto murario del Cimitero di Papasidero è rimasto per decenni totalmente sconosciuto nella sua reale dimensione e e nel suoeffettivo contenuto

L’occasionale sterro del pavimento per lavori dirifacimento ha permesso di mettere in luce un dipintoracchiuso in un’ampia lunetta scavata nella paretecentrale della cappella e divisibile in due distintipiani pittorici e narrativi.

A sinistra è raffigurata una partoriente distesa su un letto a baldacchino drappeggiato e a destra (particolare riprodotto a lato)tre donne che si occupano del neonato.

Il gruppo attorno al neonato si rivela di fattura decisameente elevata rispetto all’altra parte del dipinto decisamente meno dettagliata forse perché ritenuta di secondaria inportanza narrativa.

Il dipinto pare risalire al 1705 ed è contenuto in un edificio certamente prreesistente alla costruzione della cappella attuale che è parte integrante dell’impianto cimiteriale fatto costruire nel 1908 dal benefattore papasiderese Nicola Dario.

Storia del Santuario della Madonna di Costantinopoli

Il Santuario della Madonna di Costantinopoli risale al  XVII secolo ed è ubicato  sulla riva destra del fiume Lao, nei pressi di Papasidero, in uno scenario naturale di particolare suggestione e bellezza.

Ha pianta a T con tre navate e tre campate scandite da archi a tutto sesto poggianti su pilastri quadrati. Tre finestroni tribolati per parte si susseguono sui due lati più lunghi; a destra dell’edificio svetta un tozzo campanile a base quadrata e cuspide a piramide, dietro il quale resistono schegge di un antico affresco di modeste dimensioni.

La chiesa si raggiunge attraversando un ponte fatto costruire da Nicola Dario  nel 1904 sopra la campata ancora visibile di quello medievale anticamente denominato della Rognosa.

L’antico nome del ponte  porta ad ipotizzare la preesistenza nell’area dove ora sorge il Santuario, di una spoglia chiesetta tardomedioevale di cui è riprodotto l’impianto nell’affresco della Vergine omonima custodito nella cappella di S. Sofia, dove compare un edificio a navata unica e campaniletto a vela, che, durante l’epidemia del 1656 che dimezzò gli abitanti del paese, venne  utilizzata come lazzaretto, grazie alla sua ubicazione fuori dal perimetro urbano.

Il termine Rognosa, infatti, può essere benissimo associato alla pestilenza che afflisse l’abitato.

La calamità del 1656 indusse, inoltre, i Papasideresi a conferire alla Vergine di Costantinopoli, mediante un’assemblea popolare svoltasi il 26 maggio 1665, il patronato cittadino al posto di San Rocco, a cui fu conferito  il titolo di conpatrono.

Fu in conseguenza dell’elevazione della Madonna a patrona di Papasidero che il primitivo edificio venne ampliato.

Dal 1679 si istituì la festività di precetto nel primo martedì dopo Pentecoste e venne attuato un primo ingrandimento della fabbrica con una notevole elevazione del piano di navata rispetto al letto del fiume, cui seguirono, a definizione della odierna fisionomia con impianto a tre navate, altri rimaneggiamenti sul declinare del Settecento e nella prima parte dell’Ottocento.

Nell’interno si conserva un affresco di circa mt. 2×3 sulla parete rocciosa di fronte all’altare  che Biagio Cappelli, in un saggio del 1936, assegnò erroneamente al XIV secolo, mentre oggi si può senz’altro affermare, a seguito dei restauri operati dopo il terremoto del 1981, che va datato alla seconda metà del XVII secolo.

Nell’esecuzione dell’Opera si possono riconoscere tre fasi:

La prima fase ha visto l’esecuzione della Vergine in trono col Bambino sul ginocchio sinistro e l’Arcangelo Michele  vestito di corazza nell’ atto di trafiggere con la lancia il diavolo emergente dalle fiamme ( queste due ultime figure sono emerse con i restauri del 1983).

La seconda fase, di poco posteriore o forse contemporanea alla precedente, ma opera di altra mano, probabilmente di aiutante poco esperto, comprende il Vescovo genuflesso a destra della Vergine.

Il terzo momento, relativo a due angeli porta corona sovrastanti un grande arco ogivale coevo alla prima fase e racchiudente tutto il gruppo, è di fattura ottocentesca.

Le figure affrescate rimandano a uno standardizzato filone iconografico della pittura controriformista meridionale che associava alla Madonna di Costantinopoli, il cui culto si propagò enormemente dopo la peste del 1656, l’Arcangelo Michele quale espressione “della teologia del controllo del cielo su Satana” e il Vescovo “ simbolo del potere e della gloria del sacerdozio gerarchico”.

Nondimeno, l’iconografia si rivela ricca di evocazioni della religiosità bizantina, il cui lascito  trapassò  nella cultura controriformistica.

La Madonna in trono col Bambino, infatti, già della grafia emula stilemi bizantini di antiche raffigurazioni mariane, in particolare quelle delle Madonne “nere” o “brune”, spesso note come Madonne di Costantinopoli e il cui culto decollò un po’ ovunque nel Regno di Napoli proprio a seguito della peste del 1656. A Papasidero, dietro sollecitazione della gerarchia ecclesiastica, la scelta e la primazia di questa Madonna furono legittimate attraverso una pubblica assemblea, trovandovi peraltro facile innesto grazie ad un terreno fertilizzato nei secoli altomedioevali dagli umori religiosi e culturali del monachesimo brasiliano.

La Vergine di Costantinopoli, che proponeva in definitiva l’Odigitria ( colei che guida), viene recuperata nel frangente epidemico anche come “portatrice di vittoria” , a riconoscimento della sua capacità di fronteggiare gli “assedi”. Una metafora dei flagelli pestilenziali e delle minacce anticristiane esorcizzati, peraltro, dalla figura di San Michele: un personaggio caro alla liturgia bizantina, ma impetrato pure come terapeuta dei mali pestiferi. E’ interessante constatare come il compito affidato alla Madonna di “vincere” la peste sia stato del tutto analogo a quello che le era stato riconosciuto con la vittoria dell’Occidente cattolico sui Turchi nella battaglia di Lepanto del 1571.

Nel nostro caso, inoltre, l’Odigitria è proposta nella tipologia della basilissa (regina) e dell’aghiosoritissa (intercettrice) col Bambino a destra. Egli con una mano tiene un libro chiuso (il Vangelo o il libro con i peccati dell’umanità), mentre con l’altra indica la Vergine. Canoni iconografici passatisti, ma ripresi in un clima artistico che nel XVI secolo aveva ravvivato un “neo-bizantinismo” pittorico largheggiante in Calabria in virtù di una presenza religiosa di rito greco.

Oltre al dipinto descritto, e alle statue in gesso della Madonna e di S. Emidio,  si può osservare  di fronte all’altare, addossato alla parete posteriore della navata principale, un soppalco in legno che sostiene un organo antico che  mostra con evidenza l’usura del tempo intorno a cui si radunava il coro  in occasione della celebrazione delle messe solenni.

Notizie tratte da:

– Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata. S. Napolitano Il basilianesimo in età bassomedioevale e moderna nella regione monastica del Mercurion.

– S. Napolitano e Giuseppina Grisolia: Il Paese grigio, Magarò Editore- Bordighera.

Le icone lungo il sentiero che conduce a Orsomarso

In un luogo aspro, protetto da un riparo roccioso, lungo un viottolo che costeggia il fiume Lao, si può ammirare un dipinto del X-XI secolo:

Proseguendo lungo il sentiero, a volte impervio, ma sempre affiancato da paesaggi cangianti e suggestivi, si possono incontrare altre manifestazioni della fede popolare, come l’effigie che segue, opera di qualche antico artista del luogo.

La Grotta del Romito

L’importantissima scoperta, avvenuta nel 1961 in territorio di Papasidero, ha gettato una straordinaria luce sulle vicende preistoriche della Calabria settentrionale, dimostrando che essa era abitata da almeno 20.000 anni fa.

Papasidero – Grotta del Romito

L’uomo del Romito era della razza cro-magnon, non sapeva allevare gli animali e non conosceva l’agricoltura e la lavorazione della ceramica.

La grotta è divisa in due parti ben distinte:

– quella vera e propria, profonda circa venti metri, che si addentra nella formazione calcarea con un cunicolo stretto e oscuro e il riparo che si estende per circa 34 metri in direzione est-ovest.

Per il neolitico l’analisi del carbonio 14 ha dato 4.470 a.C. mentre, per gli strati del paleolitico superiore, il più antico finora databile, risale a circa 16.800 anni a.C.

L’homo sapiens ha abitato molto intensamente la grotta lasciando innumerevoli testimonianze del suo passaggio in strumenti litici e ossei, nello stupendo graffito e nei resti dei propri scheletri.

La figura di toro, lunga circa 1,20 metri,  è incisa su un masso di circa 2,30 metri di lunghezza e inclinato di 45°.

Papasidero – Grotta del Romito: Bos Primigenius

Il disegno, di proporzioni perfette, è eseguito con tratto sicuro.

Le corna, viste ambedue di lato, sono proiettate in avanti e hanno il profilo chiuso. Sono rappresentate con cura alcuni particolari come le narici, la bocca, l’occhio appena accennato, l’orecchio.

In grande evidenza le pieghe cutanee del collo e assai accuratamente descritti i piedi fessurati.

Un segmento attraversa la figura dell’animale in corrispondenza delle reni.

Al di sotto della grande figura di toro vi è incisa, molto più sottilmente, un’altra figura di bovide di cui sono eseguiti soltanto il petto, la testa e una parte della schiena.

Di fronte al masso con il bovide ve ne è un altro di circa 3,50 metri di lunghezza, con segni lineari incisi di significato apparentemente incomprensibile.

La frequentazione neolitica della grotta del Romito è documentata dal rinvenimento di una cinquantina di cocci di ceramica che rivelano l’esistenza del transito del commercio della ossidiana proveniente dalle isole Eolie.

Nella grotta, visitata da molti turisti, è possibile osservare, nel luogo del loro rinvenimento, delle riproduzioni di sepoltura datate all’incirca 9.200 anni a.C. , contenenti ciascuno una coppia di individui disposti secondo un rituale ben definito.

Una di queste coppie di sepoltura è stata rinvenuta nella grotta e due altre coppie nel riparo, poco distanti dal masso con la figura del toro.

Di queste coppie di scheletri, la prima è conservata nel museo nazionale di Reggio Calabria, la seconda si trova nel museo fiorentino di Preistoria, insieme alle schegge litiche (circa 300) trovate nei vari strati esaminati nel riparo e nella grotta, la terza è ancora oggetto di studio da parte dell’Istituto di Preistoria di Firenze.

Il video che segue contiene importanti considerazioni del Prof. Fabio Martini del Dipartimento di Paleotnologia dell’Università di Firenze,succeduto al Prof. Paolo Graziosi, della stessa Università, che e iniziò gli scavi nella Grotta del Romito nel lontano 1961.

Recenti scavi hanno portato alla luce i resti di una quarta sepoltura ancora più antica delle precedenti.

Essa, infatti, risale a ben 16.000 anni fa e riveste un’importanza molto particolare perché va a colmare un vuoto di reperti preistorici nell’arco di tempo: 20.000- 12.000 anni fa.  Così il Tg3 della RAI annunziava l’importante rinvenimento:

Sul n° 146 della rivista “ARCHEOLOGIA VIVA” ( Marzo/Aprile 2011), a cura di Fabio Martini  e Domenico Lo Vetro,con testi di Lapo Baglioni, André Colonese, Vincenzo De Troia, Zelia Si Giuseppe, Pier Francesco Fabbri, Domenico Lo Vetro, Paolo Machetti, Francesco Mallegni, Fabio Martini, Lorenzo Nannini, Olga Rickards e Francesco Trenti e foto tratte dall’Archivio di Paletnologia- Università di Firenze, Archivio Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, è stato pubblicato un resoconto di cinquant’anni di ricerca e di scavi nel sito archeologico di Papasidero dal titolo:

MESSAGGI DAL PALEOLITICO

Grotta del Romito

UN MONUMENTO DELLA PREISTORIA EUROPEA

In ben 12 pagine della rivista viene spiegata l’importanza, a livello europeo, del deposito paleolitico del Romito che, con l’abbondanza dei suoi reperti  che vanno dal primo insediamento intorno a 23.000 anni fa, fino al termine del Paleolitico superiore intorno a 10.000 anni fa, ha permesso, con l’utilizzo del laser scanner 3D e le  informazioni ricavate dallo studio del DNA Antico, la ricostruzione dell’ambiente, della vita sociale, delle abitudini alimentari dell’homo sapiens.

Il Prof. Martini termina la serie di articoli affermando che:

“Ricordiamo che ricorre quest’anno il cinquantenario dell’avvio delle ricerche alla Grotta del Romito.

La consistenza e la continuità della serie stratigrafica, la rilevanza dei reperti, la presenza di un alto numero di inumazioni e dei due massi con incisioni fanno di questo sito archeologico calabrese uno dei giacimenti guida per la conoscenza  delle culture preistoriche  dell’Italia meridionale nell’ultima parte del Paleolitico. Per l’occasione sono state avviate diverse iniziative di valorizzazione miranti ad inserire il Romito nei circuiti culturali e turistici.

La grotta , del resto, è già stata musealizzata e da anni è in funzione un percorso attrezzato con servizio di visite guidate.

L’Amministrazione comunale di Papasidero prevede anche l’ampliamento del locale Antiquarium nei pressi dell’antro.”

Sulle iniziative intraprese in occasione del cinquantenario degli scavi daremo, quanto prima, ampio riscontro.

Archeologia: nuove scoperte a Papasidero

Nella grotta del Romito scavi studiosi universita’ di Firenze

19 luglio 2012

(ANSA) – PAPASIDERO (COSENZA), 19 LUG – Nuovi dati e preziose informazioni storiche sono emerse dalla campagna di scavi condotta dagli archeologi dell’Università di Firenze nel sito archeologico Grotta del Romito di Papasidero.

Le ricerche guidate dal prof. Fabio Martini hanno permesso di acquisire inedite notizie su un periodo compreso tra 10-8 mila anni fa, una fase culturale detta Mesolitico sino ad oggi priva di informazioni per la Calabria.

Da papasidero.info

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