Il Papa viene da Marte e la Curia da Venere?

Sacro e profano

La Chiesa Romana Cattolica e Apostolica vive in virtù di un dualismo interno, quello fra religioso e secolare, sacro e profano. Questo dualismo si esprime anche in termini strettamente ecclesiastici: la Chiesa è sia “cattolica” sia “romana”, sia universale sia particolare. Perché la rinuncia al soglio pontificio di Ratzinger non scioglie la tensione fra universalità e particolarità all’interno della Chiesa.

 

In un libro ampiamente discusso sulla natura delle relazioni tra uomo e donna, la metafora dell’origine planetaria è stata usata per illustrare la profonda alterità che gli uomini e le donne sperimentano nella loro umanità, sia come fonte di piacere che di difficoltà. Per secoli, la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica ha vissuto un’ostilità/separazione interna: non come in una sana relazione di alterità complementare tra due partner, ma come una schizofrenia interna al corpo. Si deve pensare alla schizofrenia nel senso strettamente etimologico del termine: una “divisione della mente”. Questo sdoppiamento della ragione sacra della Chiesa fonda le proprie radici in un dualismo metafisico che è stato alla base della teologia e del modo di essere della chiesa per più di un millennio. La Chiesa Romana non sarebbe quella che è senza la propria visione manichea del mondo e senza le proprie divisioni tra religioso e secolare, eterno e temporale, sacro e profano, celibe e non celibe, anima e corpo.

Questo dualismo viene espresso anche ecclesiasticamente. Un’unica ragionesacra, ma due nature. La Chiesa è “Cattolica” ed è “Romana”. In altre parole, è “universale” ma si identifica con “una cultura- quella Romana”. In termini filosofici, è totalmente universale, ma è anche in tutto e per tutto particolare. Come può un corpo sperimentare sia un’universalità che una particolarità in termini assoluti? Non sono forze in competizione destinate a un conflitto eterno e irrisolvibile? La Chiesa Cattolica Romana è orgogliosa della propria natura et-et. Secondo l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, l’aspetto migliore della vita cattolica risiede proprio nell’abilità di essere “sia-sia” (et-et) e non “o-o” (aut-aut).

Il lato universale della Chiesa trova la propria espressione in una cattolicità che enfatizza l’unità della chiesa. Essa è la stessa in tutto il mondo. Ci sono “una sola fede, un solo Signore, un solo battesimo”, secondo le parole dell’apostolo Paolo. L’allora cardinale Josef Ratzinger ha personalmente espresso questa universalità quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nella dichiarazione Dominus Iesus, nella quale ha sottolineato il dogma dell’Extra ecclesiam nulla salus: non vi è salvezza al di fuori della chiesa universale. Questo lato cattolico-universale della chiesa è stato supportato dalla globalizzazione dell’ultimo decennio, così che il fedele, anche nei paesi in via di sviluppo, si identifica profondamente con questo lato universale della natura dualistica della chiesa.

La natura particolaristica della Chiesa è quella culturale Romana. Non è quindi la Chiesa Cattolica di Londra e, di certo, non è nemmeno la Chiesa Cattolica di New York, ma trattasi della Chiesa Cattolica di Roma: dal suo punto di vista, New York è libera di globalizzare la propria cultura secolare, ma l’unica cultura sacra globale voluta da Dio è quella Romana. Anche se la Chiesa riconosce come valide le espressioni culturali indigene della spiritualità, esse sono tuttavia realtà culturali secondarie a quella romana. Così, la Chiesa mantiene una natura totalmente Romana: è definita dalla legge canonica romana, è governata dalla Curia Romana, il latino è la sua lingua ufficiale e il vescovo di Roma gode di una posizione suprema.

Data questa natura particolaristica della Chiesa, non è difficile comprendere quella relazione di conflitto di lunga data che ha caratterizzato i rapporti con Gerusalemme. Di certo Gesù non era romano; la sua unica relazione con Roma, contatto che ha evitato fino alla fine del suo pubblico ministero, lo ha portato a una morte brutale su una croce romana. E anche Paolo, cittadino romano, ha avuto grosse difficoltà nel tentativo di spiegare le questioni della cultura greco-romana relative all’umanità e al significato della vita a partire dalle scritture ebraiche. Anch’egli, alla fine, ha sentito il peso della cultura legale romana come prigioniero a Roma.

Nelle scorse settimane il Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Universale ha rassegnato le proprie dimissioni. E la questione che sorge è: questa è stata un’espressione della natura Romana o di quella Cattolica della Chiesa? Qualunque siano le specificità delle ragioni interne, il Pontefice non è stato in grado di portare avanti il proprio mandato divino come Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Universale. In apparenza, avrebbe potuto continuare a esercitare il ruolo di Vescovo di Roma, nonostante la salute precaria, ma la legge canonica non permette questa particolare espressione, perché il Vescovo di Roma è, lui solo, espressione universale della sacralità. La spiritualità universale romana domina sulle espressioni indigene della Cristianità, questo vale anche per il papato. In tal senso, il volto romano della chiesa è una forza colonizzatrice della e nella Cristianità. A nessuna cultura viene chiesto se preferisce diventare romana nella propria espressione della fede. La natura romana particolaristica della chiesa non è negoziabile: la gerarchia romana, la liturgia romana, il magistero romano e la legge canonica di Roma impongono, ovunque, la cultura romana a tutti i fedeli.

Questo perpetuo conflitto interno dell’et-et tra due nature assolute – una universale e una particolare – all’interno della Chiesa, si è palesata al mondo in modo drammatico. Parafrasando la canzone di Bobby Fuller, “Ho combattuto la legge e la legge ha vinto”, per Papa Benedetto si potrebbe affermare “Ho combattuto Roma e Roma ha vinto”. Joseph Ratzinger è un Papa tedesco, quindi proveniente da una moderna cultura riformata che, negli ultimi cinque secoli, da quando ha contrastato le forze della Controriforma, ha convissuto con il pluralismo religioso. Nel periodo del dopoguerra egli ha vissuto in un sistema fatto di trasparenza, checks and balances, etica pubblica, facendo propria la capacità di riconoscere un forte senso di pericolo nei confronti di un potere politico senza controllo. Ed è logico che tutto questo sia penetrato nella sua psiche. Egli ha portato questa parte della propria umanità di fronte al Santo Vescovato, rappresentando, in tal senso, la natura universale della Chiesa, qualcosa che è al di fuori di Roma.

Il suo mandato da Pontefice, come dichiarato dallo stesso Benedetto XVI, avrebbe dovuto concentrarsi sulla purificazione della chiesa, anche se ciò avrebbe significato ridimensionarla, renderla cioè più piccola. Persino l’eros aveva bisogno di essere disciplinato e purificato, secondo l’enciclica Deus caritas est. Nella sua prima omelia da pontefice, nell’aprile 2005, Benedetto XVI ha chiesto di pregare per lui affinché “non fuggisse per paura dei lupi”. La necessità di purificazione era un riconoscimento della tensione tra le due nature della Chiesa e del suo desiderio di rispondervi con trasparenza. Ma la sua lettera di dimissioni rappresenta un’ammissione di sconfitta, una mancanza di energie o un’incapacità di portare avanti tale progetto? E quale interpretazione potremmo trarre da una tale scelta? Egli, in qualità di Cardinale tedesco proveniente dalla natura più universale della chiesa, non può riformarne la natura romana. Quest’ultima non è attestata da certificati di nascita conservati dai più alti prelati, la natura romana della Chiesa è lo spirito duraturo dell’istituzione; è l’espressione di un potere politico assoluto e del peso della Tradizione che sopravvive a qualsiasi pontefice, sotto il peso della quale il Papa stesso, in qualità di capo universale, sembrava vacillare fisicamente.

Cosa significa affermare che papa Benedetto XVI non è stato in grado di riformare la Curia romana? Il papato è la più alta espressione dell’assolutismo monarchico nel continente europeo. Ma neanche questi poteri papali assoluti, universali e incontestabili sono stati sufficienti a riformare la natura romana della chiesa. Sembra siano all’opera forze e poteri molto più potenti della stessa autorità pontificia. Ironicamente, la tiara papale è l’espressione cerimoniale dell’assoluta e universale autorità esecutiva, giuridica e legislativa del Papa. Egli solo detiene questi poteri nella Chiesa Cattolica Romana. Basti pensare, per esempio, al potere giuridico assoluto del Pontefice, esercitato pochi mesi fa nel concedere il perdono al proprio maggiordomo (forse un discreto riconoscimento che la preoccupazione di quest’ultimo nei confronti della corruzione della Curia era anche la propria). Il suo potere legislativo assoluto è stato visto all’opera ancor più di recente, quando ha nominato vescovo il proprio segretario personale Georg Gänswein. E la decisione del Papa di rassegnare le dimissioni dal pontificato è stato il suo atto esecutivo pubblico finale e assoluto – e non può essere contestato proprio perché egli, in qualità di papa, è un monarca assoluto.

Non tutti, però, vedono la rinuncia del Pontefice alla propria posizione come l’espressione di un irrisolvibile conflitto interno tra le due nature della Chiesa. La parte non-ecclesiastica di questa disputa si è soffermata su questa questione. La scelta del Papa è stata etichettata come “rivoluzionaria” dalla maggior parte della stampa internazionale e, da alcuni, persino “moderna”, soprattutto dalla stampa italiana. Forse perché quest’ultima vive e respira la natura romana della chiesa che, nella sua realtà contro-Riformatrice, è tagliata fuori dalla modernità.

Ma, ricorrere ai propri poteri esecutivi, legislativi e giudiziari in modo assoluto e incontestabile è stato un gesto così rivoluzionario per il Papa? Forse sì, se pensiamo a “rivoluzione” nel senso francese del termine, la cui maggiore conseguenza è stata quella di rimescolare il mazzo dei detentori del potere all’interno dello stesso quadro politico e perciò, alla fine, ha sostituito, sotto Napoleone, un potere assolutistico con un altro. Il Papa stesso non potrebbe considerare come rivoluzionaria la decisione di rinunciare alla propria carica, almeno non nel senso di introdurre qualcosa di non ancora consentito all’interno del codice canonico romano; una “rivoluzione” si può, però, esprimere attraverso una delle due nature della chiesa: quella universale. In un’intervista con Vittorio Messori, pubblicata nel 1985, l’allora Cardinale Ratzinger ha definito la chiesa come semper reformanda, chiarendo però immediatamente che il documento del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes (n.43) specifica che “la fedeltà della Sposa di Cristo” non è messa in discussione dall’infedeltà dei suoi membri. La Sposa di Cristo è romana e fedele e forse, occasionalmente, bisognosa di “modernizzazione” o di “purificazione”, ma, almeno in apparenza, non di una riforma. I suoi membri universali necessitano, comunque, di costanti correzioni. Perciò, la missione del pontefice di “purificare” la Sposa di Cristo e la sua decisione di lasciare l’ufficio secondo le prescrizioni del codice canonico romano non possono essere ritratte come rivoluzionarie.

Sarebbe difficile definire la scelta del Papa di rinunciare al proprio trono come qualcosa di diverso da un’espressione della sua autorità esecutiva assoluta, già riconosciuta all’interno del codice canonico romano. Cosa c’è di moderno o di rivoluzionario in tutto questo? Certamente può essere considerata come una scelta raramente adottata, ma non di certo moderna. Il papa ha semplicemente concretizzato un diritto legale che gli viene garantito all’interno della struttura della Chiesa Romana; questo difficilmente può essere descritto come rivoluzionario. Non introduce niente di nuovo nell’equazione. Intendere rivoluzionario, nel senso di riformatore, equivarrebbe a rinunciare all’insieme delle realtà (greco-)romane che hanno sopraffatto il Vangelo e lo hanno quasi soffocato. Vorrebbe dire relativizzare l’espressione assolutistica della natura romana della chiesa e ascoltare le voci del lato universale che richiedono cambiamenti in molte materie: l’infallibilità del papa; la monarchia assoluta come la più sacra espressione della leadership della chiesa; lo status di inferiorità delle donne; la mancanza di autorità della chiesa locale nel scegliere i preti; il celibato obbligatorio come unica forma di espressione sessuale nel ministero pastorale; il dualismo metafisico sacro-secolare come base della spiritualità umana; e l’accumulo di ricchezze e di potere politico a Roma, tanto per citarne qualcuna. Queste realtà sono il frutto di secoli di romanizzazione della chiesa universale. Nessuna di queste trae origine dalle radici culturali ebraiche di Gesù riscontrabili nella Torah e nei suoi comandamenti fondamentali di amare Dio e il prossimo.

Nel tentativo di etichettare la scelta del Papa come “rivoluzionaria”,  il mondo, con il suo occhio sempre all’erta, sta probabilmente cercando di capire le dinamiche in gioco tra le due nature della Chiesa e il dualismo metafisico sul quale è fondata. La sua decisione ha rivelato l’irrisolvibile natura del dualismo metafisico al pubblico internazionale. Dato che il soggiacente dualismo dipende dall’autorità del papato, le dimissioni hanno dato adito a nuove domande. L’uso da parte del Papa della propria fragilità fisica come pretesto per rassegnare le dimissioni è una forte negazione di questo dualismo, sul quale la Chiesa si fonda intellettualmente. In altre parole, la metà superiore del Papa, la sua anima eterna e immateriale, dominata dalla ragione purificata, dovrebbe essere in grado di guidare la metà inferiore della sua umanità, la sua fragilità fisica, per adempiere al proprio mandato fino alla morte. Questo è ciò che, secondo il Cardinale Dziwisz, ha fatto Papa Giovanni Paolo II quando ha agito come Gesù, rifiutando di scendere dalla croce. Egli non ha voluto piegarsi alle pressioni esterne della modernità né riconoscere una concezione più olistica, integra e scientifica dell’umanità. Questo è il motivo per cui ci sono state invocazioni di “santo subito” dopo la sua morte. Papa Giovanni Paolo II è stato il più grande testimone vivente del dualismo metafisico che regge l’intero modo di essere della Chiesa Cattolica Romana.

Nella sua lettera di dimissioni, comunque, Papa Benedetto XVI ha espresso un’anomalia ed è questo l’aspetto rivoluzionario del suo atto, cioè il suo essere estrinseco al dogma della Chiesa. Non è l’atto stesso di aver dato le dimissioni, ma l’avere espresso una visione integra della propria umanità, nella quale l’elemento fisico e quello spirituale sono completamente integri e soggetti alle forze esterne della cultura e del tempo. Questa testimonianza di umanità non-sacra da parte di un custode romano della sacralità universale deve certamente preoccupare la gerarchia della chiesa, perché mette in discussione tutto il suo fondamento metafisico: il dualismo sacro-profano. Una visione integra dell’umanità è un’implicita ammissione dell’inabilità del sacro, anche nella sua più elevata espressione del pontificato, di mostrarsi superiore al lato secolare e fisico. Questa può essere una delle ragioni dell’ammissione del Papa della propria consapevolezza in relazione alla “serietà di un tale atto”. Dopo la morte di Ratzinger non ci saranno invocazioni di “santo subito”, almeno non immediatamente dopo. Con l’esposizione delle ragioni per le proprie dimissioni, questo Papa ha posto le esigenze antropologiche sullo stesso piano, se non al di sopra, di quelle ecclesiastico-istituzionali.

Quindi, tornando al problema originario: la scelta del Papa è stata un’espressione della natura Cattolica della Chiesa o di quella Romana? La questione, ovviamente, scaturisce dall’interno del pensiero dualistico tipico della chiesa. Per rispondere alla domanda, è necessario considerare la visione del potere politico dell’antica Grecia come opposizione del centro-periferia, che è stata adottata dai romani e, in seguito, anche dallo stesso sistema di governo ecclesiastico romano. Essa pone le proprie radici nel pensiero della legge naturale, il quale sostiene che, quando questa legge governa il mondo, se indisturbata, porterà all’emergere di relazioni di potere naturali in ogni sistema di governo; questo riflette una vera aristocrazia del migliore e del più brillante, come ordine naturale delle cose, con il potere al centro. Ma il sistema di governo della chiesa romana è anche espressione del sistema di governo faraonico dell’antico Egitto, simboleggiato dalla piramide e gerarchico nella struttura, con il potere in cima. La struttura di governo faraonica con il Papa all’apice è la natura universale del sistema di governo della Chiesa, mentre la visione greca del centro-periferia rappresenta la natura romana, dove la Curia e il pontificato sono in costante tensione.

In qualità di Papa della chiesa universale, Benedetto XVI ha rappresentato l’apice della piramide di potere; ritrovandosi allo stesso tempo ad avere costantemente a che fare  con la periferia del potere della Curia romana, che contrasta e si pone in competizione con il centro dal momento che essa rimane anche dopo il passaggio di qualsiasi capo della chiesa. Perciò, sembrerebbe che, ancora una volta, il lato romano abbia soppresso il lato universale della Chiesa. In questa lettura, ciò che vi è di così drammatico e senza precedenti è che il lato culturale romano della Chiesa ha colpito anche la sua stessa guida.  L’espressione della legge naturale e organica della struttura di governo ha sconfitto l’aspetto faraonico gerarchico.

A complicare ulteriormente la situazione dell’ufficio stampa del Vaticano nel suo tentativo di “spiegare” la complicata saga al pubblico, il Papa ha risposto a questa struttura gerarchica interna e schizofrenica della chiesa con una vera e propria rivendicazione nominalista della propria libertà, in qualità di essere umano, di andare alla ricerca di una vita migliore di quella del pontificato! La sua scelta libera non emana una “fragranza di sacralità”, ma una spiritualità integra e terrena che non mostra preferenze nei confronti di una nozione astratta del sacro che considera secondario il corpo umano. Questo non è molto romano. La scelta del Papa è anche un chiaro riconoscimento di una particolare realtà personale che ha avuto la precedenza sulla sua chiamata come capo della chiesa universale. Nella sua scelta, il particolare ha definito l’universale e non viceversa. Questo non è molto cattolico. Benedetto XVI è certamente consapevole che la sua scelta come Papa rischia di essere intesa come un aperto rimprovero al fondamento dualistico sia romano che cattolico-universale della chiesa. Sembra però che non abbia avuto altra scelta. E questo è la ragione per cui la situazione è tanto drammatica. Le sue dimissioni sono un esplicito riconoscimento dell’irrisolvibile conflitto interno al sistema. Nemmeno il potere sacro e assoluto può risolvere la disputa per la supremazia tra la natura romana e quella universale della Chiesa. La scelta del prossimo Papa e le sue priorità come pontefice riveleranno l’entità del danno che il Collegio dei Cardinali e la Curia credono sia stato arrecato alla Chiesa da questo atto decisamente non-Romano e non-universale compiuto dal capo della Chiesa Cattolica Romana.

di PERRY S. HUESMANN

Perry S. Huesmann è ricercatore presso la Vrije Universiteit di Amsterdam ed è docente presso l’Università degli Studi di Milano. È autore di Covenant as Ethical Commonwealth. Possibilities for Trust in a Age of Western Individualism and Disintegration (IPOC, 2010).

Da micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

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