“MENO CHE NULLA SON IO” – Il senso religioso nella poesia di Carlo Betocchi

Carlo Betocchi


Carlo Betocchi nacque a Torino il 23 maggio 1899, da padre ferrarese e madre toscana, e scomparve a Bordighera (IM) il 25 maggio 1986. Traferitosi a Firenze da bambino, visse poi a Trieste, Roma, Bologna, Venezia, ma può esser considerato poeta toscano (anche se Caproni aggiunse: “…Piú che toscano, italiano all’antico modo romanico”); be’: poeta toscano dicevamo, anche perché lí, al di là della mera anagrafe, egli iniziò la sua attività letteraria, costantemente riferita al – o almeno sottintendente il – Dio cattolico.

Carlo Betocchi, il poeta dell’allegria per sua stessa definizione, prese – come Ungaretti – a scrivere poesie non da giovanissimo (il suo esordio è del 1932, con la notissima raccolta Realtà vince il sogno: aveva 33 anni. Ungaretti, ricordiamo, pubblicò sulla rivista ”Lacerba” i suoi primi versi all’età di 27). Comunque, se ben poco ha in comune il Nostro con l’autore dell’Allegria di naufragi (eccetto forse che entrambi andarono volontari in guerra – Betocchi in Libia e Ungaretti sul Carso – e che entrambi avevano qualcosa a che fare con la Toscana: Ungaretti era figlio di lucchesi), molto egli invece condivise con l’ambiente letterario, toscano e non solo: a partire dall’amicizia con Piero Bargellini e Nicola Lisi (con i quali collaborò, prima alla rivista strapaesana ”Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari”, poi alla fiorentina ”Il Frontespizio”), continuando con la frequentazione dei poeti Diego Valeri, Mario Luzi, Giovanni Raboni (che venne scoperto proprio dal Betocchi) e del critico Carlo Bo.

Le altre figure passate attraverso ”Il Frontespizio”, inoltre, le conosciamo: portano i nomi di Gatto, Sinisgalli, Sereni, Vigorelli, Parronchi, Macrí, Traverso… una bella fetta della poesia italiana nata durante il Ventennio e proseguita nel Secondo Dopoguerra. In principio la culla, quella preziosa rivista nata nel ’29 e chiusasi nel ’40, di due scuole di letterati d’ispirazione cristiana: quella diremmo radicale di Papini e altri – legati alla Scolastica e a san Tommaso – e l’altra agostiniana e pascaliana di Parronchi, Bo ed altri fra i quali il Nostro. Parlarono e parlano di lui i numi tutelari della critica e della poesia italiana: Pasolini, Caproni, Zanzotto, Baldacci, Anceschi, Cecchi e Sapegno, Albisani, De Robertis e numerosi altri. Fra le collaborazioni, vogliamo ricordare quelle con le riviste ”L’Orto”, ”Il Selvaggio”, ”Primato”, ”Campo di Marte”, ”Letteratura”, ”La Chimera” (di cui fu fondatore), ”La Fiera Letteraria” e ”L’Approdo Letterario”. Parlando della poesia religiosa italiana contemporanea, nella loro illustre Storia della Letteratura Italiana, Cecchi e Sapegno lo subordinano per grandezza soltanto a Clemente Rebora.

Ma non ho tirato in mezzo Ungaretti, l’ermetico per eccellenza, a caso: il critico Titta Rosa, negli anni ’50, scrisse del Nostro che “L’ermetismo pur vivendo a Firenze tra il ’28 e il ’38, lo sfiorò appena, senza turbare la sua schietta e umana vena che s’incanta a un richiamo immediato della natura come a voci segrete che gli giungono da un’assorta contemplazione interiore.” Poi, Mario Luzi – il piú noto rappresentante dell’ermetismo d’impronta cristiana – gli dedicò dei versi proprio polemicamente incentrati sulla religione: “Abiura io? chi può dirlo / qual è il giusto compimento / di una fede – e poi che fede era? / era solo il mio allegro / quotidiano innamoramento – quale / allora illegittimo suggello / perderla sostengo, negarsi il privilegio / d’averla, non lei forse, / la sua sufficienza, la sua teologale ultra superbia (…)”. Va precisato che Betocchi stava ormai alla fine del suo percorso vitale: “Anni di dubbi, di sofferenza e di solitudine, egli arrivò a temere di averla persa, la fede, quella sua gioiosa e spavalda comunione teologale con tutte le creature” (Leandro Piantini). Dunque i versi dell’amico Luzi tentarono, mi sembrerebbe, di giustificare i dubbi religiosi che verosimilmente colsero il Nostro sugli ultimi gradini prima dell’arrivo, il sospirato arrivo celeste. Luzi appunto dice chiaramente che se di perdita di fede si trattava, era solo che Betocchi stava perdendo la sua fiducia nella Chiesa fatta dagli uomini, ben dotata di “teologale ultra superbia”.

D’altronde, il rapporto di Betocchi con la fede non è sempre troppo distante dalle ansie ermetiche, ossia dalla contorta e spesso irrisolta maniera novecentesca di problematizzare la relazione fra la carnale presenza umana e le entità metafisiche (o che dir si voglia: supreme, astrali), come dimostrerà il paragone fra l’ombra di una albatrella (che è una pianta e non un uccello) antropomorficamente semidormiente in campagna e le ingannevoli ombre umane. La poesia s’intitola Dell’ombra e ben chiarisce la meditazione di fondo dell’autore: gli uomini vivono esistenze umbratili, cariche d’ansia e di false irrequietudini; l’albatrella, invece, porta il messaggio di un’ombra pacificata con Dio e con lo scorrere dei giorni che Dio ha fatto e fa ad uso dell’uomo.

DELL’OMBRA

 

Un giorno di primavera vidi l’ombra di

un’albatrella addormentata sulla

brughiera come una timida agnella.

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Era lontano il suo cuore e stava sospeso

nel cielo; nel mezzo del raggiante sole

bruno, dentro un bruno velo.

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Ella si godeva il vento; solitaria si

rimuoveva per far quell’albero contento

di fiammelle, qua e là, ardeva.

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Non aveva fretta o pena; altro che di

sentir mattino, poi il suo meriggio, poi la

sera con il suo fioco camino.

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Fra tante ombre che vanno

continuamente, all’ombra eterna, e

copron la terra d’inganno adoravo

quest’ombra ferma.

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Cosí, talvolta, tra noi scende questa mite

apparenza, che giace, e sembra che si

annoi nell’erba e nella pazienza.

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Echi ermetici insieme a dinamiche pascoliane, invece (anche il De Robertis parlò di Pascoli a proposito di Betocchi), son presenti nella prossima lettura, estratta da Altre poesie del 1939: Il dormente. Questa magnifica lirica, direi di gusto elegiaco, mette in contemporaneità temporale la memoria personale di un sonno vissuto lungo un fiumiciattolo con la medesima esperienza vista dall’alto, da altri ignoti occhi. Dunque non sappiamo se egli fosse al momento sveglio o vegliante. Il poeta, insomma, vede se stesso addormentato dall’esterno, attorniato anzi avvolto dalla vita cosmica, nella quale infine si sciolgon le sue forme corporee. E anche qui, notiamo, è costante la presenza simbolica delle tenebre come pace eterna e logica conclusione – sentita con soave naturalezza. L’ombra in Betocchi non si disgiunge mai dalla sua istintiva radiosità.

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IL DORMENTE

 

Io mi destai con un profondo ricordo del mio sonno.

Dalla mia veglia guardavo il mio corpo dormiente, era

giorno, era un chiaro giorno silente.

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Quando le sere d’estate esalan profumate tenebre

sul fiume, un uomo giace sopra la riva addormentato

dal suono dell’onda viva.

 

Passano sopra il suo viso l’ombre del paradiso lunare,

tra i flessuosi salici e il lieve vento; celano gridi

amorosi l’erbe d’argento.

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Vento e prati fluttuando muoiono con un blando

fiotto e là, presso il suo corpo, come a un’isola viva da

un mare languido e smorto il flutto arriva.

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Presso il suo corpo si rompe quell’ineffabil fonte;

e il suo respiro leggero di creatura che dorme

scioglie nell’etereo cielo azzurre forme.

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Parlavamo di radiosità ma ancor meglio, per definire in toto la poetica betocchiana, sarebbe adottare l’opinione del De Robertis: “È un idillio scontento con solo le apparenze della felicità”. Se ciò in generale calza alla sua produzione, questo non toglie, però, la sonorità impressionistica dei seguenti versi, aventi una forma metrica particolare: sono quattro cinquine di settenari con rime ABCBC, DEFEF, eccetera. Una vera dimostrazione di buone capacità tecniche, grazie alla quale ci sentiamo liberati in un sol colpo da tutte le contorsioni intellettualistiche moderne. Qualche precisazione lessicale per coglierne meglio il senso: la ”pruína” è toscanismo per ”brina”; ”crócei” vuol dire ”color del croco”, ovvero giallini; ”dolca” sta per ”morbida”. La poesia s’intitola Pastorale.

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PASTORALE

 

Al vento alla pruina

l’acqua rovina al bosco, la bestia s’inacerba, e

s’arrovella al fosco giorno, e s’indura, l’erba:

col cuor dove già inalba come scialba lanterna

l’inverno, il pecoraro col flauto amaro sverna mandrie

dal passo avaro.

 

Ed ora andranno i prati di belati e di rosei musi

fiutanti incolmi, e neri gli olmi ai crocei albori, e

bianchi i sommi

crinali: e dove inconca la neve dolca al vento,

diran d’avere udita della smarrita al tempo

d’estate ancor, la squilla.

Si diceva poc’anzi che l’ombra, la luce (come speranza ed anelito all’Assoluto) e la forte adesione del poeta al vigore della vita – una vita fatta di sacrificio e sofferenza: il fiume della vita, diremmo, rubando al Verga una sua famosa definizione – erano le caratteristiche di base della poetica betocchiana. Ma lo sono certamente anche gli uccelli, i tetti delle case a mo’ di simbolo riassuntivo dell’operosità umana vista come derivazione divina (vedansi la famosa Dai tetti e Fraterno tetto), e lo sono pure la Luna, quasi onnipresente in quanto propaggine divina, come ancora le stagioni, sentite con animo arcaico. Bene: nel prossimo componimento, Un dolce pomeriggio d’inverno, potremo osservare un ulteriore elemento molto caro al poeta: le farfalle… o meglio la metamorfosi dei pensieri in impalpabili esserini policromi, avviluppati dalla luce di un sogno d’eternità.

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UN DOLCE POMERIGGIO D’INVERNO

 

Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce perché la luce

non era piú che una cosa immutabile, non alba né

tramonto, i miei pensieri svanirono come molte

farfalle, nei giardini pieni di rose che vivono di là,

fuori del mondo.

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Come povere farfalle, come quelle semplici di

primavera che sugli orti volano innumerevoli gialle e

bianche, ecco se ne andavan via leggiere e belle, ecco

inseguivano i miei occhi assorti, sempre piú in alto

volavano mai stanche.

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Tutte le forme diventavan farfalle intanto, non

c’era piú una cosa ferma intorno a me, una

tremolante luce d’un altro mondo invadeva quella

valle dove io fuggivo, e con la sua voce eterna

cantava l’angelo che a Te mi conduce.

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Le rondini andrebbe analizzata ed approfondita con l’ausilio di troppo tempo (anche perché proprio del tempo essa tratta) ma di tempo – ovvero di spazio – qui non ne vogliamo occupare materialmente troppo, per evitare di tediarvi. Essa costituisce, noteremo tuttavia, un esempio del Betocchi ermetico (cioè del Betocchi filosofo tra virgolette). Cosí, semplificando di molto le cose, suggeriremo che le rondini sono dei cerchi di vita inconsumata e dunque perfetta – il cerchio rappresentava per molte delle società mediterranee antiche la completezza, la perfezione della linea ininterrotta coniugante divinità, morte e vita -; le rondini sono, quindi, degli animali sacri o addirittura delle anime in senso cattolico, poiché godono del tempo assoluto, quello trascendente estraneo all’immanenza cronologica. Questi cerchi-anime, dunque, in quanto riassuntivi della vita e della ultravita, calano, guidati dal suono di campane divino, sui nostri cieli terreni e, assorbite le esperienze della vita materiale umana, tornano all’onda antica (cioè all’eternità).

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LE RONDINI

 

Le rondini, bei cerchi della vita, intatti e

non vissuti, senza che il tempo azzurro li

soverchi, son tempi in cui non vige una

misura sommersi dentro un suono di

campane che li innalza e li abbassa, che

forano e trapassano, per ritornare fertili

di vita e privi di ricordi, a l’onda antica.

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Ancora la luce riflessa della luna si appropria della visione urbana del poeta, che sente i propri pensieri sulle attese e gli eventi come diventar di vento. È un paesaggio dell’anima, questa Ora ad altre speranze, robusta e un tantino stonata pennellata ermetica dai nodi sintattici quanto meno difficili da intendere, se non propriamente irrisolvibili eccetto che intuitivamente. Comunque, per me che sono umbro (e al di là dei difetti del componimento), è troppo forte la tentazione di vedere, tramite gli occhi del poeta, gli antichi tetti delle nostre case, tanto simili a quelli toscani.

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ORA AD ALTRE SPERANZE

 

Ora ad altre speranze ecco si leva non

veduta la luna e il cieco sguardo mio di

cruna in cruna delle finestre mena

come a spente farfalle, ed alle assurde

mura trasumanate come aperta valle da

un riflesso di luna.

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E le attese e gli eventi nell’alzato mio

volto errano un poco sostando e

dubitando eguali al fioco sospirare dei venti,

e in me è tutt’uno l’animo e questo moto, incerto e bruno.

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Il verbo ”giocondare” (”giocare con giocondità”) potrebbe esprimere già di per sé la bambina sensibilità di questo poeta, che perfino Pier Paolo Pasolini definí come il possessore di una “Gioia tutta profana” coincidente con quella sacra. Questo verbo entra ad illuminare una deliziosa descrizione, in Piazza dei fanciulli la sera. Qui il labbro di pietra è l’orlo di una fontana di paese ricoperto di alghe, e il labbro dell’acqua è la superficie dello specchio acqueo della medesima. Solo che il cielo sceglie l’acqua per trasferirsi, aggiuntiva gioia, alla piazzetta festante, mentre l’ambigua luna può attendere senza turbare la serenità dei fanciulli.

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PIAZZA DEI FANCIULLI LA SERA

 

Io arrivai in una piazza colma di una cosa

sovrana, una bellissima fontana e

intorno un’allegria pazza.

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Stava tra verdi aiole: per viali di ghiaie

fini giocondavano bei bambini e donne

sedute al sole.

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Verde il labbro di pietra e il ridente

labbro dell’acqua fermo sulla riviera

stracca, in puro cielo s’invetra.

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Tutto il resto è una bruna ombra, sotto le

logge invase dal cielo rosso, l’alte case

sui tetti attendon la luna.

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Ivi sembrava l’uomo come una cosa

troppo oscura, di cui i bambini hanno

paura, belli gli chiedon perdono.

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Incredulo davanti alla guerra? Forse piú: la rondine, solitamente latrice di speranze celesti, passa nel vuoto lasciato da alcune case frantumate e questa volta porta all’uomo soltanto rassegnazione davanti alla sua stoltezza. Una rondine nel vuoto della disperazione: Rovine, del 1947.

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ROVINE

 

Non è vero che hanno distrutto le case, non è vero:

solo è vero in quel muro diruto l’avanzarsi del cielo

a piene mani, a pieno petto, dove ignoti sognarono, o

vivendo sognare credettero, quelli che son spariti…

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Ora spetta all’ombra spezzata il gioco d’altri tempi,

sopra i muri, nell’alba assolata, imitarne gli incerti…

e nel vuoto alla rondine che passa.

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Tutta la suggestione e la forza dei suoni sta nella prossima lirica, scritta nel 1932: L’ultimo carro. Per quanto riguarda il lessico, si tenga presente che l’aggettivo ”chiotto” significa ”prudente” e che il ”cavallo manritto” è quello che sta alla destra della pariglia trascinante il carro.

L’ULTIMO CARRO

 

Prima che l’alba sfarfalli, dentro un

suono di sonagliere l’ultimo carro a

cavalli passa, al grido del carrettiere.

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Terribilmente giocondo è questo suon di

sonagliere squillante nel buio mondo al

grido aiuh! del carrettiere.

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Sveglia chi deve svegliare, il can del

giardino di rose, il gallo che sa cantare,

le lavandaie, belle spose.

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Entrando nella farina sveglia il pane, fin

dentro il forno, squillasse in campi di

brina, di pane riempirebbe il mondo.

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Passando a una casa gialla che l’uomo

dice inabitata turba un’occulta farfalla

dentro un solaio addormentata.

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Va il suo cavallo mancino con una zampa

chiotta chiotta: sovra il lastrico,

argentino il cavallo manritto schiocca.

.

L’ultimo carro a cavalli passa al grido del

carrettiere, con strepitosi sonagli, avanti

l’alba, in strade nere.

.

Della solitudine a mio avviso è il manifesto, o meglio la sintesi, dell’identità versificatrice ed esistenziale di Carlo Betocchi. La lascio come ultimo esempio e, prendendo a prestito la verace definizione della critica Laura Cioni, ve la presento come un tesoretto costruito di Parole limpide.

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DELLA SOLITUDINE

 

Io non ho bisogno che di te, solitudine;

alta, solenne, immortale, dove piú nulla

è sogno.

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In questo deserto attendo l’implacabile

venuta d’un’acqua viva perché mi faccia

a me certo.

.

Se trionfa il sole o la luna impassibile il

loro lume fluisce come vuole

nel mio cuore.

.

E godo la terra bruna, e l’indistruttibile

certezza delle sue cose già nel mio

cuore si serra:

.

e intendo che vita è questa, e

profondissima luce irraggio sotto i cieli

colmi di pietà infinita.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

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Realtà vince il sogno, Edizioni del ”Frontespizio”, Firenze 1932; poi Vallecchi, Firenze 1943

Altre poesie, Vallecchi, Firenze 1939

Notizie di prosa e di poesia, Vallecchi, Firenze 1947

Poesie (1930 – 1954), Vallecchi, Firenze 1955

L’estate di San Martino, Mondadori, Milano 1961

Un passo, un altro passo, Mondadori, Milano 1967

Poesie scelte, a cura di Carlo Bo, Mondadori, Milano 1978

Tutte le poesie, a cura di Luigina Stefani, Prefazione di Govanni Raboni, Garzanti, Milano, 1996

Dal definitivo istante, a cura di G. Tavanelli, Rizzoli, Milano 1999

         

 

Da .filidaquilone.it

Foto: RETE

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