Cinocrazia. Ritratto della nuova razza padrona. Come in India ci sono le vacche sacre, nel mondo occidentale abbiamo sacralizzato i cani.

Cinocrazia

Cinocrazia

In una limpida mattina d’autunno, avvolto dalla quiete di un parco pubblico, mi sono sottoposto ad un rito d’iniziazione. Chinato a terra, la mano infilata in un sacchetto di plastica, lo sguardo a cercare consensi intorno, ho raccolto il gruzzolo di scarti fisiologici di Jackie Brown, e quasi solennemente mi sono rialzato, con l’intima certezza che con quel gesto avevo sancito il mio ingresso in un sistema di potere.

Lei, intanto, mi osservava in un perfetto silenzio. Talmente meticcia da avere persino gli occhi di colore diverso, Jackie Brown è la cagnetta della mia famiglia. Da alcuni anni mi accompagna nei parchi pedecollinari di Bologna, e in quei luoghi soffusi d’umidità e poesia ho imparato molte cose sui cani, sui padroni, e su me stesso. Ma soprattutto, Jackie Brown mi ha fatto accorgere dell’esistenza di un nuovo sistema di relazioni fra uomo e animale domestico a cui ho dato il bizzarro nome di “cinocrazia”, o, il dominio del cane sull’uomo.

Per anni ho resistito l’idea di fare parte, e tantomeno di essere un sottoposto, della cinocrazia. Pur provando gioia nell’accompagnarmi a Jackie Brown per vie campestri, ho sempre cercato di mantenere una certa gerarchia di ruoli. Le voglio bene, ma di un sentimento fondato sulla distanza che istintivamente sento esistere fra me, uomo, e lei, cane. Eppure mi accorgevo che fra i cani e i padroni che incrociavamo nelle nostre uscite c’era un rapporto particolare, una strana, quasi inquietante simbiosi, che a volte portava il padrone a mettersi in condizioni di subordinazione al proprio cane. La ribellione contro questa apparente nuova forma di sudditanza era racchiusa nel mio rifiuto – nonostante il protocollo – di raccogliere gli escrementi del mio cane.

Fino al giorno in cui ho cambiato idea, e ho compiuto il rito di passaggio sopra descritto. Non solo per senso civico, ma soprattutto perché mi sono ricordato che il modo migliore per conoscere –  e resistere a – un sistema di potere era entrarvi dentro. Compreso il potere dei cani, la cinocrazia.

Osservato dal suo interno, questo fenomeno cino-antropologico è ancora più interessante. Ad esempio, è un luogo comune che molti cani assomigliano ai loro padroni. Meno ovvio è osservare che molti padroni assomiglino sempre di più ai loro cani. Gli assomigliano nel modo in cui scrutano in lontananza l’arrivo di altri cani, e di altri padroni, come se li fiutassero. Gli assomigliano nel modo in cui seguono i ritmi e le movenze del cane, le corse, le capriole, facendoli quasi propri. Gli assomigliano nel modo che hanno di irrigidirsi o rilassarsi a seconda che intorno avvertano minacce o piaceri, entrambi vissuti vicariamente attraverso il cane.

In alcuni momenti, anche fra me e Jackie Brown ho notato crearsi una quasi totale identificazione. Se qualcuno le fa un complimento, mi sembra di riflesso di poterne godere anch’io. Se invece noto nel padrone di un altro cane un atteggiamento diffidente verso il mio, sento l’ostilità correre lungo il guinzaglio e trasmettersi anche al mio corpo. In una specularità che ribalta i ruoli, il cane è padrone, e il padrone è cane.

Ma perché l’uomo del mondo post-industriale ha eletto il cane a strumento per mediare il suo rapporto con l’ambiente?  Il massmediologo canadese Marshall McLuhan – reso celebre da un’esilarante scena di “Annie Hall” di Woody Allen – sosteneva che i media sono un’estensione dell’uomo. Si riferiva alla capacità delle tecnologie di comunicazione di costruire l’approccio dell’uomo verso la conoscenza, in tal modo plasmandone l’esperienza del reale. Anche il cane, al giorno d’oggi, è diventato un’estensione dell’uomo.

Durante le mie osservazioni etnografiche insieme a Jackie Brown, ho capito che per molti uomini il cane è un modo di porsi in relazione con il mondo, con i suoi simili, e persino con se stessi. Un po’ come l’iPhone, che per molti è diventata una delle principali interfacce sulla realtà. A differenza dell’iPhone, però, il cane è un interfaccia non tanto sulla conoscenza – la bestiola pare possa riconoscere un massimo di cento parole – ma soprattutto sugli affetti.

La sparo grossa: il cane è un medium affettivo, un veicolo per entrare in contatto con la sfera delle emozioni e dei sentimenti.  Del resto, è solo davanti alla presenza di un cane che puoi osservare persone normalmente molto composte, o quasi impettite, sbriciolarsi in atteggiamenti sdolcinati o infantili. E le moine una volta riservate agli amanti o ai bambini, sempre più di consueto si sentono dedicare a bestiole pelose dal muso schiacciato. Mi appare quindi evidente come il cane sia usato da molte persone per sfogare affetti che altrimenti non riuscirebbero ad esprimere: tenerezza, rabbia, spensieratezza, gelosia, persino amore. In una società in cui le relazioni interpersonali sono state disinfettate delle componenti emotive più profonde o destabilizzanti, il cane è quasi uno strumento terapeutico, in grado di creare benefiche situazioni regressive e unificanti, sia nei confronti degli altri esseri umani, sia verso se stessi.

Naturalmente, in questa capacità dell’amico a quattro zampe di erogare situazioni affettive risiede l’essenza del suo potere sull’uomo. Come il padrone nutre a crocchette con apporto nutritivo bilanciato il proprio cane, così il cane restituisce crocchette d’esperienza emotiva al suo padrone. Crocchette, però. Piccoli, comodi surrogati di quella che dovrebbe essere un’alimentazione ricca e sana, sia per il corpo del cane che per l’anima del padrone. Ma anche per l’anima del cane, e il corpo del padrone. Infatti, per poter avere sempre a disposizione questo gadgetemozionale, i padroni spesso relegano i cani in abitazioni innaturali e anguste, e li costringono a routine fisiologiche che contrastano con la natura animale. Ed il padrone stesso, rinchiuso all’interno del rassicurante recinto della cinocrazia, finisce per esporsi sempre meno ad esperienze fisiche ed emotive più forti e profonde, ad esempio insieme ad altri esseri umani. E questo, secondo me, è un aspetto critico della cinocrazia.

C’è poi un risvolto ancora più complesso, suggestivo, ma anche disturbante, del moderno rapporto uomo-cane. Avvicinandomi sempre di più al nucleo della cinocrazia durante le mie passeggiate da improvvisato “antropo-zoologo”, ho notato con una certa sorpresa come molti uomini abbiano elevato l’animale ad una specie di totem, di creatura dotata quasi di un alone divino. L’ho capito da come li guardano incantati, sognanti, a volte persino rapiti, con lo stesso sguardo che un devoto rivolgerebbe ad un’icona sacra. Come in India ci sono le vacche sacre, nel mondo occidentale abbiamo sacralizzato i cani. E in parte, è quasi comprensibile. Nello sguardo muto e imperscrutabile del cane sembra celarsi il segreto di una saggezza ancestrale. La sua pura corporeità, fusa ad un’intelligenza basilare eppure completa, ha un che di mistico. E l’uomo post-moderno, sempre più povero di riferimenti morali, culturali e religiosi, ne è disperatamente soggiogato. Non è solo quindi un bisogno affettivo, ma anche un inespresso bisogno spirituale, quello che i cani assolvono per gli uomini. Il cane è un conforto primordiale per una vita umana diventata sempre più crudele e brulla: se una volta si diceva “vita da cani”, adesso si può tranquillamente dire “vita da uomini”.

È forse per questo che ai cani è stata conferita una specie di assoluzione morale, come se non fosse veramente nella loro natura la possibilità di agire in modo violento? Da come molti padroni ne parlano, se un cane si comporta in modo aggressivo, c’è sempre un padrone violento alle spalle. La colpa è dell’uomo. La natura animale è pura, quella dell’uomo, corrotta. A me, spia umana infiltrata nel mondo della cinocrazia, questa appare come una palese ammissione di sconfitta della nostra civiltà. Mi sembra ovvio che la società moderna, talmente intrisa di senso di colpa per le violenze infierite su se stessa, abbia dovuto costruirsi degli idoli su cui proiettare tutto il proprio desiderio di innocenza. Ed è per questo che ho deciso di studiare e scrivere su questo strano, dilagante fenomeno. Abdicando al dialogo e alla relazione sociale, l’uomo si abbandona pericolosamente ad un sogno d’armonia con la natura che pare raggiungibile solo spogliandosi della propria umanità, e travestendosi da cane. La speranza che mi rimane è che avvicinandosi sempre di più alla natura canina, magari arrivando fino a muoversi a quattro zampe e abbaiando, l’uomo si ricordi che un tempo aveva una propria unica, speciale natura, e si rialzi. E la prossima volta che da lontano, un padrone mi chiede accorato indicando il mio cane: “È maschio o femmina?” – io risponderò – “Lei è una femmina, io sono un uomo”.

Di

LELE MUNGO

Da http://www.lundici.it

Foto web

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One Reply to “Cinocrazia. Ritratto della nuova razza padrona. Come in India ci sono le vacche sacre, nel mondo occidentale abbiamo sacralizzato i cani.”

  1. pasquina tovaglieri ha detto:

    Hai centrato le cause e gli effetti. Bravo!

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