F. Bevilacqua: “Diritto alla nostalgia Una provocazione per salvare quel che resta del Sud”

Francesco Bevilacqua al Centro Sociale di Orsomarso

Francesco Bevilacqua al Centro Sociale di Orsomarso

“Che cosa aveva […] in sé quella terra per conquistare il cuore…”. Francesco Bevilacqua – scrittore ed esperto del paesaggio calabrese – propone un manifesto che sia nello stesso tempo un elogio della stanzialità errante (o del viaggio stanziale) ed una rivendicazione del diritto alla nostalgia.

Notalgia – da nòstos = ritorno in patria (da cui i nostoi degli eroi omerici) e àlgos = dolore, tristezza – è un termine che è stato usato per la prima volta nel Settecento dal medico svizzero Johannes Hofer a proposito del sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalle loro vallate: un sentimento simile ad una malattia, da intendere come sofferenza per la sottrazione di un ambiente, di un’atmosfera, di un paesaggio così particolare come è quello delle Alpi. Quindi nostalgia tanto più sofferta quanto più profondo è il legame con i luoghi.

Quello di cui parlava Hofer per gli svizzeri non è un sentimento molto dissimile dalla nostalgia che provavano gli emigranti calabresi rispetto al proprio paese. C’è una pagina bellissima di “Emigranti” di Francesco Perri, in cui la voce narrante si chiede: “Che cosa aveva […] in sé quella terra per conquistare il cuore, per essere ricordata e rimpianta in ogni angolo del mondo, dove si trovavano errabondi i suoi figli in cerca di lavoro e di pane? Nessuno l’avrebbe saputo dire, se non forse il cuore […]. In quella terra così varia e pittoresca, piena di contrasti, apparentemente povera e intimamente ricca, saporosa, grave e soave, c’era una certa rispondenza con la vita e l’anima dei suoi abitanti” (“Emigranti”, p. 33).

E sentite cosa scrive Perri subito dopo: “Anch’essa, l’anima calabrese, è piena di contrasti. Profondamente, e quasi direi violentemente buona, ha delle singolari aridità. Tutti i buoni frutti del cuore, dell’ospitalità, della fedeltà, dalla devozione al sentimento della famiglia, dalla resistenza al dolore all’abnegazione, all’eroismo, in essa fioriscono spesso con un profumo di poesia soavissimo. Eppure la vita dei Calabresi è triste, dolorosa, angusta, come il paesaggio che, pur avendo tanti elementi di bellezza, non sembra bello, o la sua grazia vela di una profonda e dolorosa malinconia” (“Emigranti”, p. 34).

E per capire questa speciale nostalgia che lega i calabresi alla Calabria, che lega me alla Calabria, è essenziale un altro brano di un narratore, Leonida Repaci, che, nel primo volume della saga dei “Rupe”, spiega, a proposito del ritorno in patria di uno dei protagonisti: “La terra natale non fa a Tristano Rupe grandi feste nel rivederlo, ché non è del vero affetto la smanceria. Anzi, l’incontro tra lui, figliol prodigo, e la Calabria, ha sempre una cert’aria da imbarazzo, dovuta al fatto ch’egli non sa giustificare dinanzi a lei (il bisogno non basta!) la sua lontananza, ed essa non vuole confessargli di soffrire per il suo abbandono” (“I Fratelli Rupe”, p. 130).


Ma la nostalgia non è affatto un sentimento inerte, autoreferenziale, di puro compiacimento, immobilista. E’ invece un sentimento – e in quanto sentimento implica una passione, un patire le cose – etico. Perché, come avverte Eugenio Turri, la nostalgia opera sulle comunità e i loro paesaggi come un protettore fisiologico.
La nostalgia è un medicamento, una forza endogena che impedisce la messa in vendita del territorio, la cancellazione delle memorie, la trasformazione delle rovine (parlanti) in macerie (afone). La nostalgia è l’ultima forma di resistenza alla omologazione culturale.

Ecco perché propongo, per salvare quel che resta del Sud un manifesto che sia nello stesso tempo un elogio della stanzialità errante (o del viaggio stanziale) ed una rivendicazione del diritto alla nostalgia. Propongo, in particolare, l’integrazione dell’art. 9 della Costituzione con un terzo comma: dopo “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (I comma); dopo “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”(II comma), un terzo comma: “Garantisce a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di condizioni economiche, il diritto a avere nostalgia della propria terra, del proprio paese”.

Bene. Ho concluso questa breve perorazione. Sento solo il bisogno di trovare almeno un paio di prove letterarie che il mio elogio della stanzialità del viaggio, la mia rivendicazione del diritto alla nostalgia hanno un qualche fondamento. Vi propongo, dunque, due ultime citazioni, di due autori molto diversi fra loro, benché abbia scoperto, non senza sorpresa che fra i due vi fu un carteggio (raccolto in “La collana viola”, lettere tra il 1945 e il 1950). La prima è di Ernesto de Martino. E’ tratta dalla prefazione ad un libro di un altro autore del 1967. E recita così: “Coloro che non hanno radici, e sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale” (“Premessa” a A. Pierro “Appuntamento”, pp. 5/8; citato anche in Carlo Levi “Le mille patrie” p. XXI).

La seconda è di Cesare Pavese ed è tratta da “La luna e i falò” (1950): “Chi può dire di che carne son fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanza e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione. […] Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tu, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (“La luna e i Falò”, in “I capolavori”, p. 563/566).

Francesco Bevilacqua
www.francescobevilacqua.com
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