MINIMA RURALIA – -Ricorda che i tuberi e le radici vogliono la terra sciolta, i ceci la chiedono magra, la vite preferisce quella bianca o rossa…

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Se vuoi cercare le verdure, la frutta e i grani di una volta, quelli che vengono dal tempo prima degli ibridi, riprodotti di anno in anno e a volte passati da mano rugosa a mano giovane, lascia da parte internet, dimentica il telefono, non ti curare di cosa se ne dice o se ne legge. Se li vuoi cercare, bisogna che ti muovi a piedi, paese per paese, cascina per cascina; e non ti scoraggiare quando ti dicono che sono scomparsi: qualche volta sono solo “invisibili” allo sguardo e alla memoria.

Ci vuole pazienza, gusto per l’ascolto e rispetto perché chi è anziano, se ancora li conserva, accetti di mostrarteli o di mostrarne la semenza.

Di luogo in luogo, su indicazione di altri informatori, a caso o “a naso”, nel corso degli anni 1980 mi ero recato dai contadini che avevano visto l’ultima guerra, in cerca di notizie sulle vecchie qualità di un tempo. Qualche volta l’incontro avveniva per strada, qualche volta ero invitato a entrare in casa, a parlare di fronte a un caffè o a un bicchiere di vino “del nostro”. E il copione si ripeteva con buona regolarità. Nel presentarmi azzardavo “sono un ricercatore”, ma alla gente non è mai così chiaro cosa faccia un ricercatore;  sapevo che, per poco o per tanto, mi toccava essere osservato con santa diffidenza, ché neppure è facile spiegare perché t’interessi delle colture e delle piante di una volta. Poi, terminate le presentazioni, le diffidenze e le cortesie di rito, emergevano lenti i nomi delle varietà, le loro caratteristiche, i modi della semina e della raccolta, i tempi delle rotazioni, come si riproduceva la semenza e come si scambiava, ma anche qualche spiraglio sull’emigrazione, sulla guerra e sul tempo prima della guerra, giù nell’imbuto della memoria fino ai ricordi d’infanzia.

Verso la fine dell’incontro, cavavo dalle tasche cosa avevo trovato nei paesi vicini e, senza dire nulla, lo mostravo: se lo riconoscevano, riprendeva il racconto.

Così ho fatto all’inizio delle mie ricerche e di nuovo dieci e più anni dopo, quando, per un paio di inverni, tra il 1996 e il 1998, ho girato con tre patate in tasca, e alcuni fagioli, qualche spiga di grano, una pannocchia di mais, una mela e una piccola rapa.

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Ragionando sulle parole disincarnate del nuovo marketing dei prodotti e del territorio, quelle parole che qualche volta vestono il nulla, penso alle risorse spese ogni giorno per progettisti, studiosi e consulenti che, in nome dell’agricoltura locale, della biodiversità e del recupero delle terre marginali, trasformano il denaro pubblico in progetti che spesso non sono altro che esercitazioni letterarie, carta. E, pensando ai tanti progetti vuoti che ho incontrato e ai loro committenti, propongo una semplice verifica per sapere quanto quei progetti pesano sulla bilancia della realtà.

In un giorno d’inverno, nel tardo pomeriggio, all’ora del tramonto, sali in alto, in costa, dove puoi guardare  dentro una valle i suoi paesi. E quando il sole si è infilato nell’orizzonte conta le luci che si accendono una dopo l’altra, e continua a contarle fino a un’ora dopo il tramonto.

Piancasale, 14 case, una luce; Fontanafredda, 11 case, 3 luci; Lònesi, 21 case, quattro luci; Sulmolino, 13 case, nessuna luce.

La luce e il fumo dal camino tradiscono la presenza degli abitanti. Abitanti, non residenti: risiede chi è iscritto in un registro: può esserci o non esserci, e a volte ci risiede solo per pagare meno imposte o per altri inganni; ma abita chi tiene accesa la luce durante l’inverno.

Piani, progetti, interventi. Sono certo che sulla montagna negli ultimi venti anni sono stati più i consulenti dei contadini. Tutti pronti a “valorizzare”, a “promuovere” il territorio, i suoi prodotti, la sua cultura, il paesaggio, le vocazioni … forse, sopra ogni cosa, il loro interesse professionale e il credito politico di chi li sostiene e con le loro parole e le loro carte si veste in pubblico.

Poi – terminati i progetti, pagati i consulenti – risali quella costa e ricomincia a contare.

Io l’ho fatto: Piancasale, 14 case, nessuna luce; Fontanafredda, 11 case, 2 luci; Lònesi, 21 case, una luce; Sulmolino, 10 case (3 nel frattempo sono crollate), nessuna luce.

Ecco, questo potrebbe essere un metodo per misurare la validità delle proposte e delle azioni degli enti che dicono di volere “valorizzare” e “promuovere” la montagna: dopo alcuni anni, una sera d’inverno, si sale in alto e si contano le luci. Ce n’è qualcuna in più? Anche una sola?

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Impara a farti i semi e a riprodurre il tuo cibo: sarai più vicino alla terra e guadagnerai in libertà e consapevolezza.

 

Per conservare i semi, raccoglili con la Luna calante, poi falli seccare bene, ché più sono asciutti più si conservano, quindi tienili in un luogo fresco, asciutto e al buio, protetti da topi e insetti. Puoi usare bustine di carta o barattoli ermetici oppure buste per il sottovuoto: qualunque sia il contenitore, scrivici sopra i nomi di specie e varietà, e il giorno di raccolta.

Un modo sicuro per conservare a lungo i semi è quello di riporli nel congelatore: il freddo non ne pregiudicherà la germinabilità. Se non usi il congelatore, per i legumi e il mais potrai aggiungere qualche grano di pepe o foglie di alloro, ché terranno lontane càmole e tonchi.

Al di là di questi sistemi, ricorda che la conservazione dei semi più sincera, semplice e vitale è quella che si fa in terra, anno dopo anno.

Per la nostra autonomia e per quella delle nostre comunità, per avere più consapevolezza di ciò che mangiamo, e quindi di una parte importante della nostra vita, per rispetto di noi stessi e dell’ambiente che ci circonda, per costruire una buona armonia tra l’ambiente che ci circonda (e il suo clima) e le nostre necessità di

nutrirci e di mantenerci in buona salute, è bene che il nostro cibo e le nostre bevande siano prevalentemente basate su prodotti, conoscenze e – per quanto sia ragionevolmente possibile – su risorse (acqua e fonti di calore) e utensili del  luogo dove viviamo e dei suoi immediati dintorni.

Così l’alimentazione di chi vive nelle valli interne è  normale ed è semplice che sia diversa da quella di chi vive sul mare, in montagna o in pianura, perché diversi sono i prodotti che la terra offre in un luogo piuttosto che in un altro, e l’alimentazione è diversa di luogo in luogo, di clima in clima, di quota in quota. E se un luogo (e le terre che lo circondano) non dà sufficiente varietà di prodotti per avere un’alimentazione sana e nutriente … forse quel luogo non è adatto per viverci.

Allo stesso modo bisognerebbe guardare con un po’ di cautela i cibi che vengono da troppo lontano, soprattutto quelli che in sé portano l’impronta emotiva del colonialismo e ancora oggi condizionano l’economia di interi popoli (e la nostra salute).

Quali sono? Soprattutto … caffè, cioccolato, the e zucchero.

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TRA LE PIEGHE DI QUESTE VALLI

Alleva il castagno sui versanti che guardano a nord e coltiva l’orto dalla parte del mezzogiorno, se possibile a sud-est, così che il primo sole porti via la rugiada della notte.

Ricorda che i tuberi e le radici vogliono la terra sciolta, i ceci la chiedono magra, la vite preferisce quella bianca o rossa. Se hai un bosco (meglio se è di castagno), cintalo e affidalo ad animali che ci pascolino e lo mantengano pulito; pensa di lasciarci pascolare un maiale: farai poco lavoro e ne otterrai gran frutto.

Ricorda che le vacche nostrane sulle fasce ci vivono bene e sono più frugali e resistenti delle altre: la Cabannina (cercala in val d’Aveto) è adatta per produrre latte.

 

Due appunti per non concludere

Federica Riva nel libro I frutti della memoria (Pentàgora, Savona-Milano 2013), ricorda che i contadini non parlano di “varietà”, ma di “qualità”, e che quelle tramandate o in uso fin dal tempo della loro infanzia essi le chiamano “vecchie”: non “antiche”, “tradizionali” … semplicemente vecchie qualità. Ha ragione,è così.

E gli animali li chiamano “bestie”, e in questa parola, in quel mondo, non c’è nulla di spregiativo. I cereali sono “grani” o “granoni”, gli ortaggi sono “erbe”, “verdure”, piantine”, sopra la terra; sotto, “radici,”.

La parola  “ecotipo” non la conoscono, ma dicono “selvatiche” le erbe o le piante per dirle “spontanee”. Anche “cultivar” è una parola tecnica: se amassimo farci capire da tutti, potremmo dire varietà (o qualità) “commerciali”; anche se, parlando proprio delle cultivar, la traduzione “varietà” è bugiarda, perché la loro selezione è orientata all’uniformità e in esse c’è ben poco di vario.

Bisognerebbe aggiustare le parole e riscrivere parte del libro.

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Con lo sdoganamento del Fascismo che ha accompagnato gli anni 1990 è seguita una “riabilitazione” del mondo contadino (che a quel tempo della politica era stato associato). Una riabilitazione romantica, nostalgica, retorica, addolcita di sapori della nonna e di vita genuina di una volta: una vita immaginata lontana dallo stress, dai conflitti, dai tumori. Ma  sappiamo che la retorica imbalsama la vita, ne spegne la luce, come un’alchimia inversa trasforma l’oro in ottone e alla fine tutto suona come il ciocco della latta, poi trasforma i luoghi in altari, le persone in eroi, ogni cosa è capovolta nella sua caricatura e alla fine il suo racconto distorto, depurato dalle contraddizioni e dalle inopportunità, serve per la pedagogia del presente.

Così è stata addomesticata la Resistenza, così il mondo contadino.

Esteti, ecologisti, nuovi signorotti di campagna (“la città, che luogo orribile: non ci si può più vivere!”), intellettuali con la sciarpetta: pronti per un nuovo idillio, per una nuova moda, per teorizzare il ritorno alla terra di chi non c’è stato e, perciò, dalla terra non se n’è mai andato.

“Che pace, che bene, la vita in campagna!”, mi dice lui che ha tanti libri in casa, mani morbide, sguardo senza febbre. E mi fa pensare a un giorno in val d’Aveto e a una signora di città che, guardando da lontano una vecchia piegata sul campo, aveva detto amabilmente:

“Guardate, com’è poetico: la vecchietta che raccoglie l’erba!”. “No signora, faccia attenzione: quella donna non sta raccogliendo nulla, è solo piegata – avevo tuonato con un lento filo di voce – Forse è artrosi”.

Lui, come tanti, ripete un po’ assente, meccanicamente: “Bellissimo! Come vorrei abitare qui, lontano dalla città … Certo, la vita di paese è un’altra cosa!”.

Ignorando che tra i molti venti che percorrono il mondo rurale c’è anche un’aria bastarda che intride di umido e meschinità ogni campagna. Si annida ovunque, ma più facilmente la puoi respirare sui monti della miseria, nei paesi abbandonati: luoghi cupi, dove tra le case cariate ora senti solo il vento e puoi cogliere che, come un padrone solo e ostinato, ci abita ancora il lato oscuro della mente, quello popolato di dèmoni, germi di abbrutimento e malattie dell’anima. Non dimentico le storie ambigue e dense di dolore che ho sentito nell’entroterra, simili un po’ ovunque, ma che in una valle del Levante ligure ho incontrato come non ho sentito altrove.

Sì, lì ricordo belle persone, ma anche la gente torva, le figlie e i figli dell’endogamia, gli sguardi indiretti come le parole che marchiano a fuoco le persone. Ricordo chi era capace di malocchio, chi viveva nella condanna del paese, chi era stretto in lacci incestuosi. Ricordo belle persone, ma anche cuori meschini e spaventati.

Il mondo rurale è anche questo: quello raccontato in Collina, di Jean Giono, e in Casa d’altri, di Silvio d’Arzo. Non solo questo – certo! – ma anche questo: fuori da ogni caricatura e addolcimento

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Fonte: Minima ruralia

Di Massimo ANGELINI

Collana: Ruralismo

ISBN: 978-88-98187-07-2

Uscita: Novembre 2013

Prezzo: 12 euro | Acquista

Indice:

Cercare semi

Varietà tradizionali, prodotti locali

Quarantina

Dal Bugiardino

Semi rurali

Dalla terra al Cielo

Due appunti per non concludere

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