C’era una volta il PANE…

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Le società occidentali sono diventate opulente, completamente asservite al dogma dello sviluppo illimitato, e producono una montagna di rifiuti e di cibo spazzatura. Ma la cosa che mi rattrista di più sono le tonnellate di cibo che finiscono nell’immondizia, compreso, hai noi, il tanto amato pane. Un autentico schiaffo alla povertà sempre più dilagante! Quanto tempo è passato da quando lo baciavamo dopo averlo raccolto per terra! Cosa è successo alla nostra società?…

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Questa mia riflessione potrà sembrare all’apparenza viziata da una sindrome nostalgica, come di un inguaribile romantico che guarda al passato con gli occhi umidi per qualcosa che non c’è più. Personalmente sono interessato a vivere il presente, il qui e ora, e non voglio aggiungermi alla folta schiera di quanti si rifugiano nel passato convinti che sia stato migliore del presente.

Non mi sembra corretto mettere a confronto epoche storiche differenti, quasi a stilare una graduatoria, perché diverse sono le persone che hanno vissuto, diversi sono stati i contesti e gli orizzonti di riferimento, diversi sono gli atteggiamenti e le sensibilità degli osservatori che dovrebbero giudicare. Al più si possono fare solo alcune considerazioni generali.

La storia, le nostre piccole e grandi storie, è quella che ci scorre davanti e ogni uomo si confronta e continua a confrontarsi con le sfide del suo tempo, nel bene e nel male, in un intreccio i cui contorni non sempre sono così chiari ed evidenti.
Sono persuaso che, così come un albero non può vivere senza radici, così un uomo non può vivere senza memoria. E’ importante sapere da dove veniamo per avere qualche indizio che ci illumini sulla strada da percorrere, incerti e titubanti, come siamo, su non pochi aspetti del nostro vivere. Da alcuni frammenti di memoria custoditi nelle pieghe del tempo, come un fiume carsico che riaffiora alla luce, possono giungerci spunti di riflessione e saggi insegnamenti che potrebbero rivelarsi preziosi per la nostra esistenza.

La storia che vorrei narrare attinge a quell’immenso serbatoio rappresentato dalla testimonianza di mia madre Giuseppina e si protrae fino ai giorni della mia infanzia. Mia madre è nata nel 1938, ha quasi ottant’anni, e per fortuna sua e nostra ha una memoria d’elefante. I suoi ricordi mi sono molto cari, non solo perché mi fanno rivivere la mia infanzia e mi raccontano la storia dei miei nonni, a cui ero molto legato, ma perché ritengo che sia un dovere recuperarli e non lasciarli disperdere nell’oblio. Essi rappresentano un patrimonio per noi figli. Cominciamo con nonno Michele. La sua famiglia era composta dalla moglie Maria e da quattro figli, nell’ordine: Matteo, Giuseppina, Lucia e Antonio. Abitavano a Casalnuovo Monterotaro in provincia di Foggia, un paese collinare (432 metri di altezza) del sub – Appennino Dauno.

Gli anni a cavallo della seconda Guerra Mondiale erano stati duri per tutti e l’alimento principale per sfamarsi era il pane. Il nonno faceva il contadino e poteva contare sul cibo che coltivava sulla sua terra, ma molte famiglie hanno sofferto letteralmente la fame. Il pane, l’alimento più consumato al mondo, si faceva ancora in casa e pochissime erano le persone, solo i più abbienti, che potevano permettersi di acquistarlo altrove.

In quegli anni, gran parte delle giornate venivano impiegate per soddisfare i cosiddetti bisogni primari e non c’era molto tempo libero da dedicare agli hobby o per coltivare una passione. Prima di tutto, ogni famiglia in vista del lungo inverno, come le formiche, metteva da parte le provviste. Si procurava la necessaria quantità di legna per il camino e sacchi di carbonella se aveva un braciere, che sarebbero serviti per scaldarsi e per cucinare, la farina per fare pasta e pane e la carne, grazie al maiale.

Fratello porco,come era chiamato amabilmente da qualcuno, garantiva una discreta quantità di cibo sotto forma di insaccati, prosciutti, grassi e altri nutrienti preparati. Una volta al mese il nonno andava da un amico mugnaio, Francesco Castellucci, per macinare il grano. Caricava due sacchi di grano sul dorso della sua mula e percorreva venti chilometri, tra andata e ritorno, essendo il mulino ad acqua ubicato in località Sente sul fiume Fortore. Negli anni successivi l’attività di quel mulino andò gradualmente scemando e il nonno trovò più agevole far macinare il suo grano nel mulino elettrico di Francesco Petrilli che stava in paese.

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Sempre sul dorso della mula i sacchi di farina venivano trasportati a casa e custoditi in cucina, in una grande e rustica cassa di legno che poteva contenere fino a due quintali di farina. La cassa era divisa in due comparti: in una si conservava la farina di grano tenero per fare il pane e i dolci e nell’altra la farina di grano duro per fare la pasta.

Man mano che mia madre cresceva in età, sempre più doveva sostituire sua madre nei lavori domestici. Nonna Maria e zio Matteo, poco più che adolescente, dovevano aiutare il nonno in campagna, dove il lavoro era molto duro e occorreva molta forza fisica. Ricordo ancora il nonno mentre arava i campi con la mula e di tanto in tanto prendeva dalla tasca un grosso fazzoletto per asciugarsi il sudore. Così, mia madre dovette farsi carico, oltre che delle faccende domestiche, anche della cura dei fratelli minori, Lucia e Antonio. Quando nacque zia Lucia, nell’Aprile del 1947, mia madre, che all’epoca aveva nove anni e frequentava la quarta elementare, fu costretta a non andare più a scuola. Un’assenza che le fece perdere l’anno scolastico! Erano altri tempi.

Ritornando alla quotidianità, il pane si preparava in media ogni settimana, dipendeva dalle bocche da sfamare. Tutto cominciava il giorno prima quando la mamma andava dal fornaio per chiedere in prestito il lievito madre, che poi bisognava restituire, e concordava il turno dell’infornata. I ricordi di mia madre vanno ancora più indietro nel tempo, quando non c’era ancora il telefono per comunicare e il fornaio, ma più spesso la fornaia, notte tempo, era costretta a passare, casa per casa, ad avvertire le massaie che era giunto il momento di impastare. Non oso nemmeno immaginare la fatica di quelle persone, in un paese la cui illuminazione era insufficiente e la temperatura, specie in inverno, non era certo clemente. Per scaldarsi un po’ andavano in giro con un tizzone ardente in mano!

I sei forni di Casalnuovo erano alimentati con la paglia, la cui disponibilità era quasi illimitata, essendo la provincia di Foggia il granaio d’Italia. Tutti i quartieri avevano il loro forno e in ognuno di essi si facevano ben cinque infornate al giorno, una ogni due ore, fin dalla mattina. La famiglia di mia madre sceglieva quasi sempre la prima infornata, così da avere a disposizione le ore diurne per altri lavori. Alcuni fornai li ho conosciuti personalmente come Ginotto Palmieri e sua sorella Lucia.

La lunga notte del pane cominciava intorno a mezzanotte con la preparazione dell’impasto. La mamma prelevava dalla cassa di legno la farina occorrente e la versava nella madia. Con un contenitore di legno, capace di contenere fino a quattro chili, prelevava trenta chili di farina di grano tenero, cinque chili di farina di grano duro e le mischiava. Una volta mischiate, univa alle farine anche due chili di patate precedentemente lessate e ridotte in poltiglia per rendere l’impasto più soffice. Dopodiché faceva un grande buco al centro, un cratere, aggiungeva una mangiata di sale e in ultimo il prezioso lievito madre. L’impasto proseguiva con l’aggiunta graduale d’ acqua calda per favorire il giusto amalgama. Così, nel cuore della notte, mentre tutta la famiglia dormiva, le operose massaie, con un grande e ritmato lavorio di braccia, che durava almeno un paio d’orette, impastavano il pane con tanta cura, forza e passione. Terminato l’impasto, la madia veniva leggermente inclinata su un lato, in modo tale da compattare meglio la grande massa impastata e facilitare la lievitazione. Prima di chiudere la madia si copriva l’impasto con degli strofinacci puliti e delle coperte per non disperdere il calore. Quando l’ambiente, dove avveniva la panificazione, non era molto caldo si ricorreva all’accensione di un braciere perché la temperatura è fondamentale per ottenere una buona lievitazione.

Nel frattempo, senza fare troppo rumore, la mamma rassettava la casa, preparava i cesti e tutto l’occorrente per trasportare il pane al forno. Dopo circa due ore verificava lo stato di lievitazione premendo leggermente l’impasto con le dita. Se il grado di elasticità era quello giusto e l’impasto si staccava con facilità dal fondo della madia, allora era pronto per essere sistemato nei canestri. Nonna Maria aveva acquistato dei canestri di paglia da Donata Cicchetti, una maestra cestaia molto abile nell’arte dell’intreccio. I canestri di paglia, rispetto a quelli intrecciati con altri materiali, trattengono meglio il calore e agevolano il proseguo della lievitazione che avviene nei cesti. Ma ritorniamo all’impasto. La massa impastata veniva divisa in diverse porzioni, quasi tutte uguali, in media di cinque, sei chili ciascuna. Prima di essere sistemate nei cesti, c’era un altro importante passaggio da svolgere, anche se breve: le singole pezzature venivano ulteriormente lavorate. A quel punto, ogni cesto veniva coperto con una tovaglietta, che si faceva aderire all’interno, e si spolverava il fondo con una mangiata di farina grossolana.

Dal momento che in ogni turno venivano infornate le pagnotte di diverse massaie, bisogna mettere un segno distintivo in modo da riconoscere le proprie. La nonna e la mamma collocavano in fondo al cesto una mandorla. Solo dopo adagiavano l’impasto. Ancora una spolverava di farina grossolana prima di coprirlo tirando e congiungendo i bordi della tovaglia. Intanto, le ore della notte trascorrevano placidamente e al silenzio si alternavano echi lontani, l’alba era imminente e l’ora di recarsi al forno si avvicinava. Era giunto il momento di tirar fuori l’asse di legno su cui si sarebbero appoggiati i cesti. I nonni avevano due assi: uno di un metro e l’altro di un metro e mezzo di lunghezza. Con il primo si potevano trasportare cinque cesti, con il secondo, invece, ben sette.

Ma con quale mezzo si sarebbe trasportato il pane al forno? Sembra un domanda scontata, per non dire banale, se posta oggi, dove tutto o quasi è meccanizzato.
Ma allora era la massaia l’unico “mezzo di locomozione”, ovviamente ad impatto ambientale zero Così, la mamma aiutata da qualcuno sistemava la pesante tavola di legno sopra la testa, non prima, però, di coprirla con un cercine, un pezzo di stoffa arrotolata unendo le estremità a formare una ciambella.

Il cercine era importante per ammortizzare il peso sopra la testa e garantire al carico una stabilità maggiore durante il tragitto. Finalmente iniziava il viaggio del prezioso carico di circa trenta chili verso il forno. Il tragitto nella prima parte era in discesa, i nonni abitavano nella parte più alta del paese, poi diventava pianeggiante. La distanza non era eccessiva, circa quattrocento metri, ma la strada non era agevole. Era un acciottolato irregolare con qualche gradino, specie nel primo tratto, che suggeriva di procedere con estrema cautela. Dopo qualche minuto la mamma giungeva al forno di Lucia Palmieri. Entrando sistemava il pesante carico sulle mensole di legno poste ai lati e una delle prime operazioni che faceva era la restituzione del lievito madre, prestato il giorno precedente, staccando un pezzo d’impasto da uno dei cesti. Il forno era acceso da diverse ore, la fornaia continuamente alimentava il fuoco aggiungendo altra paglia e ogni tanto controllava la temperata del forno guardando l’interno e, non essendoci un termometro, era l’esperienza a guidare le sue scelte. Così quando le pareti interne diventavano bianche, il forno era pronto per la prima infornata, in genere riservata alle pizze e alle focacce, poi era il turno del pane.

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La fornaia appoggiava la lunga pala di ferro vicino alla bocca del forno e invitava le massaie a rovesciava l’impasto sopra. La mamma per non fa attaccare l’impasto alla pala spolverava quest’ultima con un po’ di farina, anche per agevolare il rilascio dell’impasto all’interno del forno. Lucia aveva il suo ben da fare, ogni infornata inghiottiva circa cinquanta pagnotte, dopodiché chiudeva la bocca del forno con un grosso coperchio di ferro. Dopo un’oretta, toglieva il coperchio e verificava il grado di cottura. Se tutto era a posto, cioè se il pane stava assumendo un bel colore, non c’era più bisogno di alimentare il fuoco. La bocca del forno non si chiudeva più e non restava che attendere. Ogni tanto l’occhio cadeva sulle pagnotte che diventavano sempre più colorite, mentre dal forno si spandeva all’esterno un profumo delizioso che saturava l’aria circostante e richiamava qualche passante. Un’ ultima occhiata all’interno del forno, finalmente il pane era cotto al punto giusto e una certa eccitazione animava gli astanti. Allora la fornaia esclamava soddisfatta e con tono deciso: “E’ cott! U putimm caccià” (E’ cotto! Si può sfornare) e con un’altra pala, questa volta di legno per non rovinare il pane, ritirava una ad una le pagnotte dal forno sotto lo sguardo attento delle massaie presenti, tutte intende a riconoscere le proprie. Con una scopetta di miglio si pulivano le pagnotte da eventuali impurità e poi venivano adagiate sull’asse di legno.

Con la cottura le pagnotte perdevano un po’ del loro peso rispetto a prima di essere infornate, circa il venti percento, ma si trattava sempre di una trentina di chili da trasportare a casa e questa volta in salita. Prima di riprendere la strada del ritorno si pagava il pattuito alla fornaia che, negli anni sessanta, era di quindici lire per ogni pagnotta infornata. Una volta arrivata a casa, la mamma sistemava il prezioso carico nella madia e la casa sembrava più ricca e profumata.
Intanto i contadini erano già al lavoro nei campi, i ragazzi erano a scuola, gli artigiani nelle loro botteghe e la vita in paese riprendeva il suo ritmo lento e senza frenesia, scandito dal rintocco delle campane. Ma al forno non si portava solo il pane.

Durante i mesi autunnali, dopo il raccolto del granturco, si cucinavano anche le pannocchie che venivano trasportate in un contenitore di coccio la sera tardi, dopo l’ultima infornata di pane, quando il forno era ancora caldo. A volte si portavano anche le patate. Dopo questa minuziosa ricostruzione di tutti o quasi i passaggi della panificazione, semplici e cadenzati gesti che appartengono alle donne da migliaia di anni, vorrei ricordare alcuni episodi significativi. Tra quelli che la mamma ama ricordare ce n’è uno in particolare che merita di essere narrato.

All’inizio di Luglio del 1951 i nonni stavano in campagna, era giunto il momento di mietere e trebbiare il grano. La squadra dei lavoratori era numerosa, composta da nove operai, di cui tre che legavano i covoni. Con i membri della famiglia del nonno, il numero saliva a undici, dodici e bisognava preparare da mangiare per una decina di giorni. La mamma aveva solo tredici anni e toccava a lei cucinare e preparare una grande quantità di pane. Per quella occasione preparò ben tredici pagnotte, oltre settanta chili di pane! Una faticaccia!

Ed ora vorrei narrare brevemente qualche ricordo personale in ordine sparso. Siamo alla fine degli anni sessanta e il boom economico, con la presenza sempre più ingombrante e pervasiva della televisione, giungeva anche nei piccoli paesi di provincia. Noi bambini, però, guardavamo poco la televisione preferendo giocare all’aria aperta costruendoci spesso anche i giocattoli. Quando tornavo da scuola a casa mi accorgevo subito che la mamma aveva fatto il pane.

C’era un profumo inconfondibile in cucina, il pane era ancora caldo. Allora mi avvicinavo furtivamente alla madia e sbocconcellavo un po’ di crosta. In diverse circostanze mi piaceva andare con lei al forno, in particolare al forno di Gino Palmieri, ubicato presso il quartiere Le croci. Il fornaio era sempre rosso in viso e a mezze maniche per via del gran calore che si sviluppava intorno al forno. Ricordo il chiacchiericcio tra le massaie in attesa della cottura e alcune conversazioni che si instauravano tra il fornaio e le massaie, specie quando le dimensioni di alcune pagnotte, risultando eccessive, potevano mettere a rischio il numero delle pagnotte da infornare. Ma alla fine, quasi per magia, il fornaio le faceva entrare tutte!

Tra i miei ricordi, di sicuro il più nitido e frequente, riguarda nonno Michele che amava sedersi a capotavola durante i pasti tagliando personalmente il pane. Non avendo un tagliere su cui poggiare la grossa pagnotta, con le sue grosse mani callose prendeva il pane e lo stringeva orizzontalmente al petto con la mano sinistra, mentre con l’altra afferrava un enorme coltello e tagliava con precisione le fette. Era un piacere vedere quelle fette lunghe e compatte arricchire la tavola e il nonno era felice come una Pasqua nel veder la famiglia riunita a tavola.

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A me piaceva mangiare il pane anche da solo, senza companatico, oppure prima del pranzo inzuppandolo nel sugo che era particolarmente saporito. Era difficile resistere al suo profumo! Cercavo di intingere il pane lontano dagli occhi severi di mia madre perché temeva che ingozzandomi di pane poi non mangiassi il pranzo.
Invece a merenda la mamma mi preparava pane, zucchero e olio, un pasto semplice, nutriente ed essenziale. Ma la lezione di vita che ricordo volentieri, era quando cadeva accidentalmente qualche pezzo di pane per terra. Ovviamente non si buttava. Guai! Subito veniva raccolto, si guardava dov’era lo sporco ed eventualmente si puliva soffiando sulla parte sporca. Alla fine si baciava. Che bella lezione! Una poesia, un gesto, quasi sacro, che restituiva al pane la sua vitale importanza e al tempo stesso era un segno di rispetto verso tutti coloro che avevano lavorato non senza fatica per portarlo a tavola.

Non sempre il quantitativo di pane che si preparava settimanalmente era sufficiente alla bisogna delle famiglie, spesso si chiedeva in prestito ai vicini di casa. Anche questa costumanza ci informa di una solidarietà concreta che si praticava tra le famiglie a dimostrazione che il buon vicinato garantisce più coesione sociale. A volte, invece, il pane eccedeva e man mano che trascorrevano i giorni diventava sempre più duro. Anche in quei casi nulla veniva perso. Si ammollava e si spremeva sopra un pomodoro, un po’ come si fa, oggi, con le friselle pugliesi, oppure veniva utilizzato per fare nutrienti pancotti.

Una delle ricorrenze più belle è legato alla festa di S. Antonio da Padova, che si festeggia ogni anno il tredici di Giugno, quando nel mio paese natale c’era l’usanza di portare dei piccoli pani in chiesa per farli benedire dal prete. Era un’autentica festa per noi bambini. Quanto pane abbiamo mangiato per strada! Non era un fatto inusuale durante la mia infanzia.

Infine, un ricordo recente, che risale a pochi anni fa, legato alla mia attività di organizzatore di eventi eco – conviviali. Insieme ad altri amici e amiche, il dieci Giugno del 2007 organizzammo a Moscufo in provincia di Pescara un evento denominato “Pane in festa”, un’intera giornata dedicata al pane. In mattinata visitammo il mulino di Vincenzo Cappelli e da mezzogiorno fino alla sera tardi la manifestazione si svolse presso la Comunità de “I Ricostruttori” in contrada Colle S. Angelo.
Fu una giornata bella e calda, indimenticabile, a cui parteciparono oltre cento persone, e soprattutto un evento ricco di iniziative culturali, esperienziali e culinarie: dall’impasto del pane che coinvolse diverse persone, tra adulti e bambini, alla narrazione di racconti intorno al pane, dalla cottura di una pagnotta in un forno solare alle pizze cotte al forno al legna, dalla festa serale svoltasi sull’aia allo splendido tramonto della Bella Addormentata.

Prima di concludere questa lunga narrazione mi chiedo: “Cosa è rimasto, oggi, di quelle costumanze paesane?” L’evidenza è sotto gli occhi di tutti e la risposta è fin troppo scontata: “Poco o nulla”.

I forni a paglia nel mio paese natale non ci sono più dalla metà degli anni settanta ed è rimasto un solo forno elettrico che vende il pane. Quell’umanità colorita ed operosa, quel caotico chiacchiericcio delle massaie, quell’andirivieni per le strade, sono solo un lontano ricordo. Ormai il pane si acquista solo ed esclusivamente nei negozi o nei supermercati, dove si trova di diverse forme e di vari cereali, anche per i celiaci, per coloro che sono intolleranti al glutine. Non è più essenziale come lo è stato per millenni, se ne mangia poco e i bambini gli preferiscono le merendine.

Le società occidentali sono diventate opulente, completamente asservite al dogma dello sviluppo illimitato, e producono una montagna di rifiuti e di cibo spazzatura. Ma la cosa che mi rattrista di più sono le tonnellate di cibo che finiscono nell’immondizia, compreso, hai noi, il tanto amato pane.

Un autentico schiaffo alla povertà sempre più dilagante! Quanto tempo è passato da quando lo baciavamo dopo averlo raccolto per terra! Cosa è successo alla nostra società? Questa metamorfosi è emblematica di una civiltà fortemente segnata da un consumismo sfrenato, oltre ogni ragionevole bisogno, che ci ha arricchiti di oggetti, ma ci ha impoveriti di umanità!

L’innegabile per quanto ineguale ben – essere raggiunto, ma forse sarebbe più corretto chiamarlo ben – avere, si coniuga quasi esclusivamente al singolare. Aver confinato il pane tra gli scaffali di un supermercato e scisso fino a mutilare il legame con le sue molteplici relazioni, in un processo che ho cercato immodestamente di narrare, è come avergli rubato l’anima. Il pane era vita, era cultura, era bellezza, ora è diventato una merce.

Tuttavia, non pochi, oggi, stanno riscoprendo il valore delle vecchie tradizioni, di quanta conoscenza ci è stata tramandata e che merita di essere recuperata. Tra le cose più belle che si stanno  rivalutando c’è sicuramente l’autoproduzione del pane con lievito madre e grani antichi. E la cosa più confortante è che sono soprattutto i giovani a riscoprire questi valori, sottraendo parte del loro tempo alla mercificazione e alla tirannia di una società che ci vorrebbe unicamente come tubi digerenti.
E’ il tempo della lentezza e della cura si sé, è il tempo della condivisione e del piacere di fare le cose assieme. Mani che si intrecciano e creano legami di intimità, una solidarietà che vorrebbe coinvolgere tutti, uomini e donne, bambini e adulti, figli e genitori.

Quei gesti, che hanno scandito il tempo di tante massaie, di mia nonna e di mia madre, solo per fare due esempi a me noti, oggi, rivivono nell’operosità di questi giovani che insieme sognano un mondo nuovo, dove il pane è soprattutto condivisione di valori e di fatica, con il sorriso sulle labbra e tanta gioia nel cuore.

Di Michele Meomartino – [email protected]
Fonte: http://www.terranuova.it/Blog/Riconoscersi-in-cio-che-e/C-era-una-volta-il-pane
Foto RETE

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