Storie di contadini – La Strage di Melissa

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La strage di Melissa o eccidio di Fragalà fu un episodio del 29 ottobre 1949 verificatosi a Melissa nel quale persero la vita Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro

La storia

Nell’ottobre del 1949 i contadini calabresi marciarono sui latifondi per chiedere con forza il rispetto dei provvedimenti emanati nel dopoguerra dal ministro dell’Agricoltura Luigi Gullo e la concessione di parte delle terre lasciate incolte dalla maggioranza dei proprietari terrieri. Interi paesi parteciparono a questa mobilitazione che vide circa 14 mila contadini dei comuni orientali delle province di Cosenza e Catanzaro scendere in pianura. Chi a piedi, chi a cavallo, con donne e bambini e gli attrezzi da lavoro, quando giunsero sui latifondi segnarono i confini della terra e la divisero, iniziando i lavori di preparazione della semina. Irritati per questa ondata di occupazioni alcuni parlamentari calabresi della Democrazia Cristiana si recarono a Roma per chiedere un intervento della polizia al Ministro dell’Interno Mario Scelba. I reparti della Celere si recarono quindi in Calabria e uno di loro si stabilì a Melissa (oggi provincia di Crotone) presso la proprietà del possidente del luogo, barone Berlingeri, del quale i contadini avevano occupato il fondo detto Fragalà. Questo fondo era stato assegnato dalla legislazione napoleonica del 1811 per metà al Comune, ma la famiglia Berlingeri, nel tempo, lo aveva occupato abusivamente per intero. La mattina del 29 ottobre 1949 la polizia entrò della tenuta e cercò di scacciare i contadini occupanti con la forza. (wikipedia.org)

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I contadini di Melissa sono dentro il movimento di lotta per l’occupazione delle terre incolte fin dalle prime agitazioni del 1944-45, biennio in cui venne ricostruito il PSI, è fondato il PCI e fa la sua breva apparizione il Partito d’Azione. Non manca l’organizzazione sindacale il cui confine dai partiti popolari è labile come labili sono pure le differenze tra Partito socialista e partito comunista. La vita pubblica è minacciata da manifestazioni e scioperi per obiettivi minimi (costruzione di strade, fornitura dell’acqua, rimozione del collocatore comunale a degli impiegati corrotti): su tutto meglio precisato è il tema della rivendicazione delle terre demaniali e incolte. <<Nel 1946- scrive M. stella Mercurio Amoruso- solo il 18% della terra era tenuto da una caterva di minuscoli proprietari (più di 500) che disponevano fino a 5 ha; il 6% formava una cinquantina di aziende da 5 a 10 ha.; e il 10%, una trentina di aziende da 10 a 15 ha., e il 14% meno di quindici aziende da 50 a 100 ha. Ma poi il 525 della terra era in mano di soli4 proprietari con aziende di più di 100 ha., fra cui primeggiava il feudo del baroneBerlingieri, con 1.725 ha.>>. Sono soltanto circa 40 i produttori diretti, titolari di una proprietà, che non è nemica, ma compagna della libertà. I braccianti realizzano 80-100 giornate l’anno. L’alimentazione della popolazione di Melissa è composta di una minestra di fave, pane, fagioli. Carne solo nelle feste di Natale e Pasqua. Vestiti sono solo le divise militari, anzi il vestiario militare usato. Solo gli adulti portano scarpe. Ma non tutti. I bambini sono scalzi e denutriti, i loro abiti sono pieni di rattoppi e di rammendi. Più infelici ancora le donne che portano lo stesso vestito in tutte e quattro le stagioni dell’anno e camminano a piedi nudi. Le case sono catoi senza luce, senza servizi igienici sempre, di un solo vano sovente, che è camera da letto, stanza da pranzo, cucina, stalla per gli animali con i quali stanno in promiscua sporcizia. Manca l’acqua mancano i riscaldamenti, si cucina a legna, niente luce elettrica, e il mobilio è riassunto da un letto con materassi di crino, da un tavolo, da un paio di sedie, da una cassapanca in cui si stipano le lenzuola, tovaglie e vettovaglie. Contro questo ordine iniquo chiamano alla lotta la sezione del PCI, la sezione del PSI, la Federterra di cui è segretario Santo lonetti.
Il dirigente effettivo di tutto il movimento è però, Carrubba, contadino analfabeta, senza letture e senza istruzione, che sa parlare direttamente al cuore dei contadini ed è tanta parte della lotta eroica contro i grandi proprietari latifondisti e i loro servili fittuari.

Anni '70, anniversario della strage

Anni ’70, anniversario della strage


A Melissa una prima occupazione di terre era stata effettuata nel 1946 sotto la guida della Associazione dei Combattenti e si sviluppo sul feudo <<Culonuda>> in agro di Torre Melissa: la povertà della popolazione contadina non ne fu sostanzialmente alleggerita. Si guardò perciò, a Fragalà distante da Melissa 11 chilometri e da 14 anni incolta: il 29 ottobre, in una situazione in movimento in tutta la Calabria, si marciò su quel feudo perché i contadini non accettavano più di vendere le carni delle figlie, di esporle al barbarico matrimonio per procura, di deformare il loro figli nella ingrata fatica e nell’usura della campagna, di seppellire le donne nelle rughe e nella vecchiaia, di baciare la mano al padrone che li sfruttava, di portare a Natale e a Pasqua ai fratelli Polito, fittuari del feudo, regalie e primizie dei campi. Con questo sentimento della vita, i contadini, armati solo degli attrezzi della loro fatica, non ancora trasformata in lavoro,
andarono verso Fragalà: come a una festa della terra, che, chiusa in convento e sepolta nella fissazione vegetativa del feudo, può tornare presto, sotto le vanghe dei contadini, grandi e neri, a produrre, a dare grano, farina e pane al tugurio del popolo. Quella mattina, il 29 ottobre del 1949, il paese si spopolò; restarono i più vecchi. Gli altri andarono tutti a Fragalà: uomini, donne ,bambini con zappe e bidenti, a piedi e a dorso d’asino.

Naturalmente i giovani portano il più: aratri, mazze, palanchine e le bandiere. Sono tre e tutte tricolori(…). Infine i ragazzi hanno intorno ai cani che abbaiano volentieri, messi in allegria dal movimento di tanta gente. I cani sono le uniche bestie stimate degne di accompagnare la spedizione. Alcuni gatti che volevano partecipare all’anabasi contadina sono stati respinti a sassate verso il paese. Resteranno loro a guardare le casuccie vuote.
Si parte senza neppure chiudere l’uscio. Non c’è da rubare a Melissa. Se anch’egli n’è privo, gli dà un pugno di castagne. E se neppure castagne secche può offrirgli, lo farà sedere accanto al fuoco spento, dove, insieme, malediranno la fame comune e la
Malasorte.
Sull’occupazione di Fragalà, sui modi della lotta, sulle parole d’ordine da lanciare, sui comportamenti da tenere alla presenza della polizia si è discusso e dibattuto a lungo le sere precedenti il 29 ottobre del 1949 nella sede della FEDERTERRA: si raccomanda a tutti di accogliere la polizia al grido: <<Viva la polizia dell’Italia repubblicana>> e ancora: <<Vogliamo pane e lavoro>>.
Nella stessa mattina del 29 ottobre Enrico Musacchio, segretario della locale sezione del PCI, Giuseppe Squillace, sindaco socialista del comune, Santo Lonetti, segretari delle Federterre, vengono convocati in caserma e trattenuti per lunghissime ore dal commissario di P.S. dr. Rossi.
Nicodemo Mungo conferma personalmente questa circostanza: furono chiamati in caserma il sindaco, Giuseppe Squillace, il segretario del PCI. Il commissario di P.S., dr Rossi disse di invitare i contadini a ritirarsi da Fragalà e che tutta loro sarebbe stata la responsabilità di quanto poteva avvenire, permanendo l’occupazione. Giuseppe Squillace, capo L’Amministrazione comunale di Melissa, rispose che per il momento bisognava lasciare stare i contadini sul feudo occupato e che un intervento in senso opposto avrebbe provocato certamente grandi relazioni tra le masse contadine: a sera, quando i contadini sarebbero ritornati da Fragalà, il discorso avrebbe potuto essere ripreso con tranquillità. Verso le ore 14 l’animata conversazione venne interrotta dalla notizia terribile, portata fino alla caserma dei carabinieri da Vincenzo Pandullo: i <<celerini>> hanno sparato, sono caduti dei contadini, non si sa quanti, ed egli stesso ha la gola squarciata da una ferita. La notizia si propaga drammaticamente nel paese: tutti hanno qualcuno lassù, a Fragalà: o il marito o il figlio o il fratello o il cognato, o il nipote o la nuova. Si piange e c’è disperazione. Non è possibile sapere di più sulla strage, che si preannuncia grande, che è stata preordinata dalla paura della rivoluzione comunista, dall’odio dei grandi proprietari, dallo Stato Armato contro le popolazioni contadine del Mezzogiorno e della Calabria: nei giorniprecedenti il 29 ottobre <<dal Ministero degli Interni arrivano ordini precisi:
bisognava stroncare il movimento in modo particolare dove questo si dimostra più attivo>>.

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Già dal 28 ottobre i celerini, al comando del tenente Luciani, assumono atteggiamenti provocatori nei confronti della popolazione: insultano, beffeggiano, e soprattutto le donne non vengono lasciate in pace. Si mette sottosopra la sede della Federterra. Si perquisiscono le sezioni dei partiti popolari. Si rende impossibile la vita, e alle prime ombre della sera, tutti restano chiusi in casa. Dal canto loro, baroni e servi dei baroni
aizzano i <<celerini>>, dipingono a tinte fosche il carattere della gente del luogo, reclamano di essere salvati dai <<rossi>>. La mattina del 29 ottobre dalle cantine di Cirò e dai palazzi del marchese Berlingieri, i <<celerini>>, rossi di odio e di vino, salgono a Fragalà, dopo avere lasciato gli automezzi alla periferia di Melissa.  <<Ci avvertirono dell’arrivo della polizia – testimonia Vincenzo Pandullo – dopo neanche mezz’ora che aveva lasciato il paese. Dopo una breve consultazione, decidemmo di continuare il lavoro: a nessuno di noi venne in mente di preparare una qualsiasi linea di difese perchè eravamo sicuri che i poliziotti non ci avrebbero attaccati. Se volevano opporci con la forza, avremmo potuto farlo benissimo: i celerini, per arrivare a Fragalà, dovevano costeggiare, come hanno fatto, un torrente attraversando delle gole strettissime fiancheggiate da rocce a picco, da quelle rocce avremmo potuto fare una resistenza anche con il lancio di sole pietre>>.
<<Quando vedremmo, da lontano, i primi poliziotti, i nostri uomini ci dessero di raccoglierci in gruppo per battere le mani all’indirizzo dei poliziotti gridano: <<Viva la polizia del popolo>>., <<Pane e lavoro>>. Gli uomini hanno continuato a zappare, dice Lucia Cannata, contadina, che fu ferita gravemente nello scontro. I poliziotti – continua la donna – si schierano a semicerchio, udii una voce dire: <<Abbandonate le armi e lasciate le armi e lasciate la terra>>. Nessuno di noi si mosse. In quel momento il cuore sembrava uscirci dalla gola, capivamo che sarebbe accaduta una disgrazia>>.
Le donne, gli uomini, i ragazzi all’intimazione di lasciare la terra rispondono insieme: <<Evviva la polizia! Vogliamo pane e lavoro>>. La risposta è il lancio fitto di bombe lacrimogene, poi i braccianti vengono caricati. Si scappa. I poliziotti sparano: in undici minuti furono sparati oltre trecento colpi di mitra. Francesco Nigro cade per primo; ha appena 29 anni. Cade Giovanni Zito; ha 15 anni; è ferita mortalmente Angelina Mauro con la quale si apre il capitolo dell’emancipazione della donna nel Sud: morirà alcuni giorni dopo all’ospedale di Crotone. Sono seriamente feriti Lucia Cannata, Domenico Bevilacqua, Luciano Iocca, Carmine Masino, Antonio Cannata, Giuseppe Ferrari, Silvio
Rosati, Vincenzo Pandullo, Francesco Drago, Francesco Bossa, Carmine Tarlesi, Michele Drago, Carmine Sarleti: tutti alle spalle. La polizia, in effetti, punta freddamente e spara, con premeditata ferocia, sui contadini che scappano, si accanisce anche su cose e animali. Si mira anche ai muli e agli asini, si sfasciano i barili, vengono raggiunti e colpiti dai manganelli i contadini che non hanno fatto a tempo a mettersi fuori da tutta l’azione criminale. I morti giungono in paese a dorso di mulo; la polizia non osa riattraversare il paese e raggiungere Cirò Marina per altra strada. I feriti sono portati all’ospedale di Crotone: i riferiti constatano che tutti sono stati colpiti alle spalle. Non un solo poliziotto è stato ricoverato in ospedale: non ci sono feriti tra le forze dell’ordine. Per accreditare la tesi della rivolta e dell’aggressione contadina si tenta di corrompere medici e
raccogliere testimonianze compiacenti. L’episodio più saliente è quello che riguarda il medico condotto di Cirò:
Su ciò, riferendo alla Direzione nazionale del PSI, l’on. Luigi Cacciatore dice:
Partii da Roma, la sera del 31 ottobre e appena giunto a Crotone la mattina seguente, chiesi notizie dei morti e dei feriti ed ebbi modo così di constatare che nell’ospedale di Crotone nessun agente di polizia era stato ricoverato. Cercai d’ottenere informazioni più precise sugli agenti feriti e il risultato fu che qualcheduno di essi, urtando fra i roveti delle terre occupate, aveva riportato delle graffiature alle gambe ed un altro era stato lievemente ferito alla testa. Quest’ultimo agente s’era presentato al medico di Cirò, un vecchio professionista ultrasettantenne, il quale, dopo avergli prodigatato le cure del caso, gli aveva rilasciato il referto per ferita lacero – contusa da colpo contundente. Ma, il giorno seguente, un maresciallo s’era recato dal medico e gli aveva mostrato il berretto del celerino macchiato sangue, con due fori e lo aveva invitato a cambiare il referto poichè, secondo il maresciallo, quel berretto provava che l’agente era stato ferito da arma da fuoco. Il vecchio dottore aveva fatto osservare al maresciallo che i suoi cinquanta anni di servizio professionale lo ponevano bene in grado di distinguere fra una ferita provocata da colpo contundente e una ferita provocata da arma da fuoco. Il maresciallo non insistette.
Alcune ore dopo tornò dal medico in compagnia di un tenente della Celere il quale fece considerare al professionista come vivere tranquillo fosse poco conveniente porsi contro la tesi della polizia. Il medico ebbe paura; stracciò il primo referto e ne compilò un altro secondo i desideri dell’ufficiale. Egli però, che per mezzo secolo aveva compiuto scrupolosamente ed onestamente la sua missione di medico, non rimase tranquillo. Passò la notte insonne e l’indomani si confidò con un suo collega rilasciandone per iscritto una dichiarazione con la quale egli mise a posto la sua coscienza. Tale dichiarazione è oggi, assieme a regolare denuncia nelle mani del procuratore generale della Repubblica della corte d’appello di Catanzaro(…).
Non c’è dubbio alcuno che i colpi da arma da fuoco vennero da una parte sola, da parte della polizia . L’interrogativo, che ci si pone a distanza di anni, è altro. Chi fu a sparare per primo? A dare il segnale della strage?

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Le testimonianze raccolte in campo individuano alle radici dello scatenamento dell’ondata criminosa il maresciallo della Caserma dei carabinieri di Cirò Marina, certo Brezzi che covava motivi di grande rancore nei confronti della popolazione di Melissa.
Enrico Musacchio, segretario del PCI nel 1949, dice: “Cinque mesi prima dell’eccidio, la popolazione si reca al comune per protestare contro la rimozione del collocatore comunale. In quello occasione il maresciallo Brezzi, irritatissimo, disse di fronte a centinaia di persone: “Qui sembra la repubblica di Caulonia, ma io vi farò assaggiare la notte di San Bartolomeo”.
La circostanza è confermata anche da altri contadini da noi intervistati.
Più esplicitamente afferma Carmine Sirleti, che partecipò all’occupazione di Fragalà e fu ferito, come già dicemmo: “Subito dopo i fatti io andava dicendo dappertutto che a sparare per primo fu il maresciallo Brezzi e che potevo testimoniarlo dovunque. Il Partito non mi ha incoraggiato ad andare avanti in quella denuncia. Mi capitarono anche dei guai.
Fui convocato un giorno, non ricordo quale, nella casa di una guardia municipale di torre Melissa e lì, in presenza, del vicesindaco di Melissa, fui invitato del maresciallo Brezzi a ritirare tutto quello che avevo detto su suo conto. Io, invece, insistetti e mi fece fare alcuni giorni di carcere”.
Su questa vicenda una testimonianza indiretta viene dalla dichiarazione che ci rende su Francesco Nigro il padre, ottantenne, che conosce la scienza della vita: Il 29 ottobre del 1949 io mi trovavo in paese, a Fragalà non ero andato; erano andati i miei figli, Francesco e Giuseppe insieme ai loro compagni. Quella terra non era stata coltivata da moltissimi anni e non c’era da mangiare, e eran andati a prenderne per fare
un po’ di grano a giugno. Non volle il destino. Arrivarono da Cirò i carabinieri e il maresciallo, che faceva il fanatico e ci chiamava straccioni e delinquenti. Era il maresciallo Brezzi , quello che ordinò il fuoco. Mi fu portata la notizia che avevano ammazzato mio figlio. Io ero a casa e me lo portarono su un asino. Il governo a marito del morto mi regalò una tomolata di terra.
Angelina Mauro non faceva politica, era povera come tutte le altre donne . A Fragalà era vicino a mio marito, fu colpita a un rene, ma non morì subito. Scese da Fragalà su un mulo; io che avevo saputo la grande disgrazia che era caduta sulla nostra casa, ero andata verso il feudo e, quando la vidi , sentii diceva rivolta a mia suocera: “Mammazì, l’avimu patuta” (Madrezia, l’abbiamo avuto il nostro dolore): Morì all’ospedale di Crotone dopo
un paio di giorni, a 24 anni. Sua madre, povera donna, morì dopo un anno di crepacuore per questo suo giglio di figlia; suo padre è morto tre anni fa, ed era ormai quasi cieco.
Nessuno più la piange o porta fiori al cimitero. I suoi fratelli sono tutti fuori Melissa. Giovanni Zito, il giovinetto di 15 anni, la testimonianza è più indiretta. Dopo il fatto luttuoso la madre scivolò nella pazzia, e anche il padre non vuole più rievocare. Quel giorno, il 29 ottobre, era salito pure lui a Fragalà; era sempre in mezzo al movimento il giovanissimo Giovanni Zito la cui famiglia, se possibile, era più povera delle altre famiglie, e era sistemata in una topaia: così povera che Giovanni Zito non possedeva neppure una fotografia, che nella cultura contadina o è quella che si fa quando si è militari o quella che si fa quando si è militari o quella che si scatta, come un lusso, il giorno del matrimonio. La lapide, nel sommesso monumento di Melissa al cimitero, lo segnala col suo solo nome insieme a Francesco Nigro e ad Angelina Mauro, fotografati.
La notizia dell’eccidio si diffonde presto per tutta l’Italia, la CGIL proclama lo sciopero generale che riesce pienamente. L’Avanti! e L’Unità danno per primi la notizia della strage e fanno i nomi dei responsabili. Anche la stampa internazionale registra l’avvenimento. Le Monde scrive:

Ce n’est pas le seul point noir de l’horizont. Il faut tenir comte aussi de l’agitazion sociale, qui semble depuis quelque temps en recredescence sur l’autre versant des alpes.
Si elle ebeit surtout a des revendications de salires, elle n’en est pas moins explotée par l’extreme gauche à des fins exclusivementes politiques. A cet egarde on ne peut
emprecher de remarquer que la greve décutée per la C.G.T. italienne soidirant pour proteste contre des incidents sanglants qui viennent de se produire en Calabre, eclate juste au moment où se produit la crise ministerielle et qu’il peut-etre pas là une simple coincidence.

Il 3 novembre riporta:

La C.G.T. a decté aujoud’hui une grève generale de dix heures, de 14 a minuit, en sign de protestation, contre le rencontre qui a mis aux prises hier in Calabre des ouvries agricoles qui avaient occupé des terres et les forces de police qui tentaient de les
deleger. Il y a en deux morts et treize blessés dont quatre seraient dans un état grave.
D’auprés l’ayence Ansa les ouvries agricoles repondirent aux sommations de la police par des jets de granade e des coups de feu, et les policiens ne firent que riporter. La version
du journal romain procommuniste Le Paese è diferente et c’est elle qu’a faite sienne la C.G.I.L.

La protesta degli intellettuali progressisti si fa sentire alta: grandi pittori, come Ernesto Treccani, si recano a Melissa per studiare da vicino le condizioni di quel popolo e per fissarne nelle tele l’aspirazione a un mondo migliore. Alla Camera e al Senato forte e sdegnata è la denuncia che fanno i parlamentari di sinistra sui fatti di Melissa. Pietro Mancini, che insieme a Gennaro Miceli, Francesco Spezzano, Silvio Messinetti, Mario Alicata (nel 1952 sindaco di quel comune) è stato presente a Melissa subito dopo l’eccidio, conclude così il suo discorso che il repubblicano Conti definì “musicale”:

A nome (…) di tutto il Senato della Repubblica italiana, voli a quei tumuli lacrimati l’omaggio devoto e imperituro. Il sangue non è stato versato invano, se esso varrà a seppellire la vecchia storia ed a fogiarne una nuova. La rinascita della Calabria sarà il loro degno monumento. Soltanto allora potremo e sapremo onorarli.

Non si può dire che quell’augurio si sia realizzato. I contadini di Melissa non ebbero giustizia: il caso venne ben presto archiviato, il processo mai venne celebrato, il giovane procuratore, che aveva raccolto i primi indizi, si dimise dall’incarico dopo alcuni giorni.
Nel Mezzogiorno e in Calabria, secondo l’intuizione, qui presa nel suo significato d’indicazione, di Rosa Luxembourg, i contadini tendono a scomparire.

Fonte: http://www.centrosocialesaliano.it/melissa.htm

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