Orsomarso e il suo dialetto: ANNACARE

Chiesa di Santa Maria della Scala (Siena) - Balia culla un trovatello

Chiesa di Santa Maria della Scala (Siena) – Balia culla un trovatello

 

Annacà: cullare.

Da nache (νάκη  [-ης, ἡ])  che, di per sé, vuol dire “pelle di capra o di pecora, pelle lanosa, pelliccia”, e, nei dialetti meridionali, “culla” (cfr. naca) forse perché le più antiche culle erano fatte con una semplice pelle di pecora o di capra legata con funi e sospesa alle travi del soffitto, come un’amaca.
La “naca”, fino a qualche decennio fa comune in tutto il meridione d’Italia, era di due tipi: di tela oppure di canne (o di vimini) intrecciate. In genere era attaccata alle travi del soffitto, come nei tempi più antichi, sospesa sul letto matrimoniale. Molti ricordano, certamente, la descrizione che ne fa C. Levi (1):

 “La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre, e tutti i figliuoli. I bimbi più piccini, finché prendono il latte, cioè fino ai tre o quattro anni, sono invece tenuti in piccole culle o cestelli di vimini, appese al soffitto con delle corde, e penzolanti poco più in alto del letto. La madre per allattarli non deve scendere, ma sporge il braccio e se li porta al seno; poi li rimette nella culla, che con un solo colpo della mano fa dondolare a lungo come un pendolo, finché essi abbiano cessato di piangere”.

Facendo dondolare la “naca”, le madri cantavano dolcissime ninnananne: erano brevi stornelli in un tono dolce e

malinconico simile a quello tipico delle nenie cantate dagli Arabi. Nei tempi passati era facile sentire dovunque, nel silenzio che avvolgeva allora i paesi meridionali, queste dolci canzoni per il sonno dei bimbi.
Ora non se ne sentono più, né si ricordano più quelle che, nei tempi lontani, le mamme contadine sapevano inventare o, più comunemente, ripetevano come le avevano apprese. In ricordo di quei tempi, ecco due strofette raccolte, a Sant’Arcangelo, dai ricordi di un’anziana signora: Giulia Scardaccione. Le cantava nei suoi anni lontani, giovane madre, per addormentare i suoi figli, e potrebbe averle inventate (con tante altre che ora dice di non ricordare più) lei stessa, perché era di facile vena, vera poetessa popolare, creatrice di arguti versetti rimati, nella semplice letizia delle antiche feste contadine, e di mestissime canzoni nella ricorrenza della Madonna Addolorata. Ma ecco le due strofette:

Duorm’ o figghie mije

duorm’ alla naca,

l’angele staij’ a pede

e la Madonn ‘a capa

 

Figghie, j’ ti desider’ e vurrije

di ti vidé all’altare

e di servir ‘a Die.


In cui si sente l’antica mentalità meridionale che aveva in grandissima stima il ministero sacerdotale.
Il termine “annacà” è comune, come già si è detto, in tutta l’Italia meridionale. Ecco alcuni versi di una ninnananna siciliana:

Sutt’a un pere di nucidda
c’è una naca picciridda.
L’annacava lu Bambino
San Giuseppe e San Giuoacchino (2).

      1 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, 4a ediz., Torino, 1975, pp. 106 107.

2 E. GIGLIOLI, Natività – Sacra Famiglia e Ninne Nanne nel canto popolare di alcune regioni italiane, Firenze, 1972, pg. 12. cit. da G. RANISIO, Il Paradiso folklorico, Napoli 1981 pg. 64.

Di  Luigi Branco

Foto RETE

 

Ninna nanna calabrese

 

Dormi bella

Dormi ca jiè  l’ura,

Chi belle comi a tija

Dormunu a st’ura.

Dormi bella mia,

faccia ri rosa,

si boj dormiri la mamma si riposa.

Dormi tu, amuri ri la mamma,

ch’a tija t’ama di core

 e non t’inganna

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