L’Unione Europea è al servizio del grande capitale

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[…] Il male di fondo di cui soffre l’UE è connesso alla sua natura sociale: è fin dall’inizio un progetto dei capitali, rimasto tale fino ad oggi. È stata costruita per garantire la circolazione delle merci e del capitale – prima nella forma di unione doganale, poi come mercato interno e unione monetaria, ma senza un governo politico comune, senza riequilibrio sociale e senza reciproca responsabilità. La creazione di strutture di dominazione europea ha così seguito lo schema della formazione dello Stato unitario tedesco dopo il 1871: prima l’unione monetaria, poi il mercato interno combinato con la creazione del Reichsmark. Mentre però sotto l’impero sono stati istituiti i primi elementi di un sistema di assicurazioni sociali ed anche un’unione politica nella forma del Reichstag (che, è vero, non è diventato un’espressione completa della sovranità popolare se non dopo la rivoluzione di novembre del 1918), finora l’UE non si è costituita in unione sociale e politica, e dispone soltanto di alcuni abbozzi rudimentali di collaborazione in ambito poliziesco e militare. Dopo il carbone e l’acciaio, e poi la politica agricola comune, la politica commerciale è stata l’unico ambito divenuto comunitario. Per questo il commercio è di esclusiva competenza della Commissione europea (a differenza del settore bancario).

Le idee di fondo all’origine di una “unione sempre più stretta tra i popoli europei”, per riprendere l’espressione dei trattati di Roma, provengono da diverse fonti (la guerra fredda, il superamento dello scontro “ereditario” franco-tedesco” per l’instaurazione del controllo congiunto dell’industria del carbone e dell’acciaio. Ma la forza motrice in atto negli sviluppi allargati di questo progetto è sempre stata e continua ad essere la centralizzazione e la “multinazionalizzazione” del capitale, che dagli spazi economici con dimensioni sempre più estese è costretta a costruire strutture economiche e finanziarie transnazionali (europee) pur rimanendo legata alla sua base nazionale. È la struttura fondamentale dei rapporti di produzione capitalistici a manifestarsi in questa forma: questi si basano sulla concorrenza tra capitali distinti senza offrire alcuna possibilità di gestire risorse in un modello cooperativo che trascenda i confini.

Il concetto di concorrenza attraversa tutti i trattati europei: concorrenza sia all’interno sia fuori. La formulazione migliore è quella della strategia di Lisbona (Consiglio europeo del 23-24 marzo 2000), in cui è scritto che l’UE intende “diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo”.

Internamente, i gruppi capitalistici si avvalgono dei governi nazionali per garantirsi quote di mercato e vantaggi comparativi; esternamente, sul mercato mondiale, hanno bisogno del peso del mercato interno europeo, dell’euro e dell’intervento globale dell’UE come potenza commerciale per affrontare la concorrenza degli Stati Uniti, dell’Asia, ecc.

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È quindi logico che nell’UE a dominare non sia la Commissione, come sosteneva, sbagliando ancora una volta, la campagna del “Lexit” (uscita di sinistra dall’UE) in Gran Bretagna, ma il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo (“gli Stati membri sono i titolari dei trattati”), come ripete incessantemente la Merkel): sono questi che si vedono in primo luogo come gestori e garanti dei grandi gruppi e delle confederazioni padronali, non come gestori degli interessi delle rispettive popolazioni e neanche come gli architetti di una casa comune europea. (Si veda, ad esempio, al momento della crisi dell’euro, l’ostinato rifiuto della Germania che l’Europa si assumesse una responsabilità per i paesi particolarmente scossi dalla crisi bancaria; oppure, in senso inverso, il rifiuto da parte della maggior parte degli Stati dell’UE di assumersi in solido la responsabilità dell’accoglienza dei profughi). Sicuramente è certo che l’80% delle leggi che attualmente si adottano nei parlamenti nazionali provengono da Bruxelles e sono integralmente conformi all’agenda neoliberista del capitale europeo. Nessuno però dei progetti della Commissione si trasforma in direttiva senza l’approvazione dei governi nazionali. E i lobbisti delle imprese, nel novero dei quali si contano politici di primo piano degli Stati nazionali, lavorano già in partenza, per la maggior parte del tempo, a scrivere progetti della Commissione. Questi/e signori/e, quando suonano, lo fanno come orchestra.

A questo aggiungiamo che non esiste una legge elettorale europea: i popoli dell’UE sono compartimentati in nazioni (secondo il criterio della concorrenza). I politici sono responsabili solo di fronte alla popolazione del loro Stato nazionale, non di fronte a un sovrano europeo. Di qui il comportamento schizofrenico che li induce spesso e volentieri a vantarsi in casa propria per quello che sono riusciti a ottenere “per noi” a Bruxelles, ma a liberarsi di qualsiasi responsabilità per tutto quello che hanno approvato in quella sede. “Bruxelles”, l’UE, diventano allora gli altri, questo o quell’altro. Un esempio particolarmente eloquente, negli ultimi tempi, è stato l’atteggiamento di Cameron rispetto al referendum sull’UE: è riuscito a fare il giochino di essere insieme a favore e contro l’UE (quella di un’unione sempre più stretta tra i popoli), perché piace al suo elettorato conservatore, ma rifiutando l’uscita dall’UE perché la City londinese è furiosamente contraria – quindi a servire insieme gli interessi mondiali del capitale finanziario e il provincialismo di una frangia della destra.

In altri termini: la natura capitalista dell’UE impedisce che ne venga fuori un progetto solidale, ecologico e democratico. Al contrario: la crescente disuguaglianza sociale crea nuovi rapporti di dominazione e di dipendenza tra gli Stati dell’UE e mette così in pericolo lo stesso progetto capitalista. Quanto alla popolazione dei salariati, non ha da parte sua alcun interesse a sostenere questo progetto. L’UE non è fatta per lei. Tuttavia, non ha neanche interesse a che esista solo scomposizione senza alternative. Le numerose guerre che l’Europa ha conosciuto insegnano come non si sia riusciti se non molto raramente a trasformare le guerre in rivoluzioni. I lavoratori debbono formulare il loro proprio progetto europeo, e il tempo incalza. […]

Di Angela Klein

Fonte: http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2697:la-crisi-dellunione-europea…/

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