Un bell’articolo di Alessia Manzi: “Calabria, una terra devastata da scorie e tumori”

alessia

 

Un tramonto dalle mille sfumature pastello tinge il cielo di fine maggio. I colori del sole calante dietro l’orizzonte si riflettono su un mare limpido che piano, con le sue onde, bacia la sabbia di una spiaggia immersa nel silenzio. Sullo sfondo di questa istantanea gli ulivi secolari e le ginestre della macchia mediterranea adombrano le strade attraversate per raggiungere i borghi nati ai piedi dell’appennino calabrese. Una frase accompagna lo splendido scatto scelto dall’assessorato al turismo per promuovere le bellezze paesaggistiche della nostra regione: “Benvenuti in Calabria. Terra Meravigliosa!”.
Uno slogan che, chissà, potrebbe essere la sintetica introduzione di un libro scritto per narrare in chiave fiabesca una Calabria meno drammatica rispetto a quanto riportato dagli articoli di cronaca. Cominciando proprio così: “C’erano una volta una fabbrica tessile, il polo metallurgico più grande del meridione e un sistema sanitario perfetto. Negli anni Cinquanta in Calabria giungevano aristocratici benefattori davanti ai quali tutti si levavano il cappello e dicevano ‘grazie’. Qualcuno li chiamava ‘industriali’. Altri ‘signori’. Su queste terre arse dal sole questi “forestieri” investivano i fondi elargiti dalla DC e dalla Cassa del Mezzogiorno e risollevavano le sorti del ‘povero Sud Italia’, costruendo fabbriche che insieme a stoffe e manufatti producevano pure la felicità. Finalmente si aveva uno stipendio sicuro e un minimo di istruzione necessaria per essere assunti in fabbrica. Firmare con il proprio nome al posto della X faceva sentire tutti ‘un po’ importanti’, ma soprattutto si provava la sensazione di essere più liberi. Ognuno era convinto di aver spezzato le catene della schiavitù. Come? I contadini uscendo dal sistema della mezzadria e i pescatori non essendo costretti alle battute di pesca con il mare in tempesta. Insomma, finalmente i calabresi vivevano serenamente e morivano solo di vecchiaia. Le malattie non si conoscevano e le fatiche di chi aveva conosciuto solo l’arte dell’arrangiarsi non esistevano più”.

Peccato come le cose non siano andate così e “C’era una volta…” resti solo l’incipit di una fiaba lasciata a metà. L’incantesimo da cui è avvolto il paesaggio crepuscolare prima descritto si scioglie al sopraggiungere della globalizzazione, quando il progresso economico avviato nel secondo dopoguerra si ferma. Al capolinea scendono i bei sogni ormai infranti e la crisi si diffonde come un colera. Uomini e donne entrano nel tunnel delle ristrettezze economiche e, stritolati dalla morsa della disoccupazione, decidono di fare la valigia ed emigrare. La vita di queste comunità, più simili a una grande famiglia per i legami affettivi e parentali da cui nascono, che a vere e proprie cittadine, viene stravolta. Al posto della sveglia alle cinque del mattino per recarsi in fabbrica a timbrare il tesserino, c’è il fischio di un treno in partenza verso qualche città del nord Italia o un aereo diretto ancora più lontano. Soffia un vento di fame e miseria. I castelli di sabbia si sgretolano e dal vaso di Pandora, insieme a povertà e disoccupazione, torna libero un male sottovalutato: il cancro. Nefasta conseguenza degli smaltimenti illeciti degli scarti industriali e del traffico di rifiuti tossici gestito dalla ‘Ndrangheta.

affondamenti

La Pertusola sud

In oltre mezzo secolo di attività le industrie avviate nel Mezzogiorno, in particolare qui in Calabria, non regalano solo l’illusione del benessere. I padroni aumentano i propri profitti speculando sull’ambiente e sulla pelle di operai e operaie che privi di alternativa, nonostante ripuliscano l’aria in circolazione fra una postazione e l’altra coi propri polmoni, pur di non avere un piatto vuoto a tavola stringono i denti e vanno avanti.

Fuggi, fuggi, fuggi via da quest’onda di follia, da quest’onda impazzita che si prende la mia vita.
Fuggi, fuggi, fuggi via da quest’onda di follia. In questa fabbrica non torno ma poi passa e inizia il turno.
Aspettando, aspettando la vita che non c’è. Bevendo, bevendo, il solito caffè.

Trascorreranno anni, infatti, prima che i soprusi compiuti tra le mura dei capannoni possano essere conosciuti all’esterno: i panni sporchi si lavano in casa e niente deve minare l’apparente ricchezza economica che si è diffusa con l’industrializzazione di luoghi altrimenti poveri e abbandonati. Si resta dunque in uno strano silenzio misto a riverenza verso chi, spremendo la vita, “concede” uno stipendio. E così, come accade alla Marlane di Praia a Mare, lavoratori e lavoratrici, costretti a turni massacranti e succubi dei ricatti, sono spolpati fino all’osso. Nessuno, fra magistrature corrotte e una politica inetta e collusa, pare sappia dei fusti tossici sotterrati nelle aree adiacenti le industrie dismesse; mentre le morti bianche e l’aumento del cancro nella popolazione si diffondono a macchia d’olio anche sul litorale crotonese.
Sulla costa ionica calabrese, infatti, c’è una storia operaia che segue un copione simile a quello della Marlane: cassa integrazione e tagli al personale, e quelle tute blu, a fine giornata nere come la pece, seminano il dubbio che all’interno della fabbrica qualcosa non stia funzionando per il verso giusto. E all’atto terzo del mesto sceneggiato, sbucano fuori dagli armadi gli scheletri mal riposti.

Crotone non è solo culla della Magna Grecia e città natale di Pitagora e Milone. A partire dagli anni Venti diventa la sede del principale polo metallurgico del meridione. Alla Pertusola sud, questo il nome dell’opificio, si producono leghe e semilavorati ottenuti dallo zinco proveniente dalle miniere di Sardegna, Canada, Irlanda e Australia. Di proprietà della Montedison, verso la metà degli anni Ottanta il sito cambia paternità e passa nella mani dell’Enichem (oggi Syndal, gruppo Eni) che si occuperà della sua gestione fino al 1999, anno della sua liquidazione.
La fine della Pertusola Sud lascia centinaia di persone senza lavoro e cancella il glorioso sogno industriale di Crotone, fino a quel momento intitolata “Torino del Sud”. È il 1993. Dopo oltre settant’anni di attività, la Pertusola spegne il forno in cui si smaltivano gli scarti industriali ricavandone il cubilot (composto da sabbia silicea e loppa giunta dall’altoforno) e il C.I.C. (Conglomerato Idraulico Catalizzato). Questo insieme di scorie è riciclato “legalmente” ottenendo il pescor, un abrasivo, finché l’alto contenuto di arsenico in esso rilevato lo inserisce nella black list dei materiali nocivi per la salute.
Nel 2008 la Procura di Crotone conclude l’indagine “Black Mountains” (dal nome delle nere collinette intorno alla Pertusola nate dagli scarti accumulati) che accerta lo smaltimento illecito di 350mila tonnellate di materiale tossico come arsenico, mercurio, zinco, piombo, indio e germanio. 7mila tonnellate dell’enorme quantità di rifiuti pericolosi scoperti sono adoperate nel rifacimento del manto stradale; altre sono riciclate nella costruzione di scuole e alloggi popolari o nella realizzazione dei diciotto piazzali posti sotto sequestro dall’ufficio della Repubblica.
I danni alla popolazione hanno risvolti drammatici: sebbene la Pertusola Sud, con d. lgs. n° 468/01, sia dichiarata area Sin (Sito interesse nazionale) rendendo necessaria la bonifica dell’ex zona industriale e della costa crotonese, tutto questo non è ancora avvenuto. Nell’attesa angosciante che i terreni siano bonificati le persone, specie molti bambini, continuano ad ammalarsi e a morire.

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Quei rifiuti maledetti

Le scorie cancerogene interrate dagli operai su ordine dei propri padroni, o insabbiate sulla costa, o nella pancia dell’Aspromonte, hanno reso la Calabria simile a una discarica. Solo nella Piana di Gioia Tauro, in mezzo agli aranci e ai limoni – raccontano gli abitanti e qualche pentito –, pare sia stato seppellito un bidone tossico sotto ogni albero. Nella Locride, per esempio, “la strada dei tumori” della città di Africo è emblematica: su 170 residenti 35 persone sono sotto cura oncologica e, negli ultimi dieci anni, il cancro ha ucciso almeno 200 persone.
Risalendo sul litorale tirrenico, in provincia di Cosenza, la situazione non migliora. È il 1990 quando la motonave Jolly Rosso, legata alla triste storia di Ilaria Alpi, si arena sulla spiaggia di Amantea con il suo carico di rifiuti radioattivi che nel giro di qualche ora sparisce dalla stiva dell’imbarcazione. Non trascorre molto tempo e diversi fusti vengono rivenuti qualche decina di chilometri più su, nella Valle dell’Oliva, che si aggiudica il titolo di “capitale dei tumori”: su 12mila pazienti oncologici, il numero degli affetti da cancro in un’età compresa fra i 30 e i 34 anni è quattro volte superiore alla media nazionale (2,90% rispetto allo 0,74%).
Sempre sull’alto Tirreno cosentino invece, oltre alla Marlane, i rifiuti tossici sono stati smaltiti venendo miscelati alle acque nere (come avviene a San Sago), riversati nelle decine di discariche abusive rinvenute nel corso degli anni o gettati in quei depuratori obsoleti e mal funzionanti che hanno poi provveduto a rilasciare il carico tossico direttamente in mare. Una situazione critica, in cui enti preposti alla tutela dell’ambiente, tipo l’Arpacal, almeno tre volte e mezza su quattro negano la contaminazione di acque e terreni. Verità nascoste, che unite a un registro tumori (istituito solo quest’anno) non ancora accreditato dall’Airtum, non permettono di denunciare ufficialmente la correlazione tra l’aumento del cancro e l’inquinamento ambientale.

Terra di poveri cristi e croci da trascinare. Terra di tarantella, ‘Ndrangheta e manifestanti. Terra di giovani muli con sogni di rivoluzione. Terra pazza, terra pazza, io ti lascio sta canzone.

Se nei decenni passati si doveva curare la malaria, oggi gli 80.300 casi di cancro indicano una nuova epidemia da debellare. Eppure non sarebbe complicato migliorare la situazione. Basterebbe riaprire le strutture ospedaliere, evitando ai malati e alle loro famiglie di emigrare per curarsi altrove. Sarebbe sufficiente potenziare gli strumenti di prevenzione, come screening oncologici e indagini epidemiologiche per migliorare le condizioni di vita. Chi resta qui, però, nonostante tiri a campare come può e si scontri ogni giorno con i mulini a vento rappresentati da istituzioni molte volte conniventi al malaffare, non si ferma e va avanti. E questa volta non saranno più i calabresi a scontare la pena.

 

A. Manzi

Fonte: http://www.communianet.org/ambiente/calabria-una-terra-devastata-da-scorie-e-tumori

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