L’Italia muore di fame. Ma i Savoia e Crispi sognano l’impero. Avranno Adua

Crispi

 

Siamo alla fine dell’Ottocento. Sono passati circa trent’anni dall’Unità d’Italia. Molte zone del nostro paese soffrono la miseria più nera. Ma per i Savoia ed i governi  questo non è una priorità. Hanno mania di grandezza, sognano l’impero.

Desolante è il modo come Crispi prepara la conquista dell’Abissinia. Il risultato? Una delle più cocenti sconfitte dell’esercito italiano in Africa

 

Senz’altro a corte non si era ben compreso che la politica africana del presidente del consiglio si stava allontanando sempre più dal realismo politico e dal comune buon senso. Nell’estate del 1894, con l’appoggio di Umberto e contro il parere dei militari, Crispi aveva dato avventatamente il suo assenso all’occupazione di Kassala, nel remoto Sudan, e non aveva capito perché questa decisione fosse stata accolta con sgomento. Parlò come se quella località fosse stata a «pochi passi» di distanza, invece che a centinaia di chilometri di terreno difficilissimo.

Lasciò credere che da parte dell’Inghilterra vi fosse un incoraggiamento a un’occupazione congiunta italo-inglese del Sudan e forse anche dell’Egitto (benché questo incoraggiamento non fosse mai stato dato). In Africa orientale Crispi aveva già un fronte di 600 chilometri da difendere con soli 8.000 soldati; un ulteriore impegno del governo italiano nel Sudan sembrò agli inglesi una provocazione e un atto di pura follia.

Poiché l’esercito italiano in Africa era composto in gran parte da mercenari abissini, era tanto più strano sentir enunciare il proposito di deporre Menelik e di incoronare Umberto imperatore d’Etiopia (in preparazione dell’evento, la Zecca stava già coniando delle monete con l’immagine di Umberto che portava in capo la corona imperiale).

Nel gennaio del 1895 furono inviati rinforzi con l’ordine di muovere cautamente all’occupazione della regione abissina del Tigre. Il ministro degli Esteri e il ministro della Guerra erano entrambi poco entusiasti di quell’avanzata e il re osservò seccamente che «Crispi avrebbe voluto occupare tutto, compresi la Cina ed il Giappone». Ai primi di aprile, il generale Baratieri insediò il comando a Adua, la capitale del Tigrè, e il mondo fu informato che 150.000 chilometri quadrati di territorio abissino erano ormai posti solidamente sotto la sovranità italiana.  Poco dopo, fu dato ordinie alle truppe di compiere un altro «passo decisivo», preferibilmente dopo il rientro in patria di una parte del corpo di spedizione, per ragioni di economia. A Baratieri venne chiesto di imporre tributi alle popolazioni locali e di imitare Napoleone che «faceva la guerra coi denari dei vinti». Come un paese così impoverito potesse fornire i fondi necessari non veniva specificato: quell’ ordine mostrava chiaramente che Crispi, dopo tanti anni, basava ancora la sua politica su una completa ignoranza della geografia economica dell’Africa orientale.

Umberto I

Quando il Parlamento finalmente si riunì, dopo quasi un anno di sospensione, Crispi ottenne nuovamente una larga maggioranza e si sentì perciò incoraggiato a portare avanti i suoi napoleonici sogni privati.

In un discorso in cui proclamava di non nutrire alcun desiderio di nuove conquiste, rivendicò tuttavia il diritto di punire gli africani «ribelli» e «traditori» che avevano scatenato quella che lui definiva un’ingiustificabile guerra di aggressione contro l’Italia. Forse parlava sinceramente. Più verosimilmente stava facendo leva sul patriottismo allo scopo di ridurre al silenzio l’opposizione. Ma forse aveva soprattutto bisogno di distogliere l’attenzione dalle difficoltà interne; difatti quelle difficoltà stavano crescendo a tal punto che il rappresentante diplomatico inglese a Roma ebbe la sorpresa di sentirsi dire che il governo italiano «era pessimista sul futuro dell’Italia unita».

Secondo Umberto, Crispi intendeva aspettare la fine di un’altra breve sessione parlamentare per poter mobilitare tranquillamente altri soldati quando nessuno avrebbe avuto la possibilità di protestare.

La chiusura della Camera era vantaggiosa anche sotto un altro profilo: i deputati che accusavano Crispi per la faccenda degli scandali bancari avrebbero perduto l’immunità parlamentare che, per legge, li proteggeva dall’arresto. Meno oppositori c’erano in giro, più Crispi era libero di preparare la vittoria dell’Italia nella guerra coloniale, una vittoria che gli avrebbe conferito quella trionfale popolarità di cui aveva bisogno per essere salutato come il più grande italiano del secolo. L’Africa, inoltre, rappresentava a suo giudizio una scuola di guerra nella quale i soldati italiani avrebbero ricevuto un utile addestramento per i futuri conflitti europei.

Ai comuni cittadini arrivavano scarsissime informazioni sui rischi che venivano assunti in loro nome. All’insaputa di molti, una stampa sussidiata dal governo creava un’«opinione pubblica» del tutto fittizia che poteva essere usata per dare l’impressione di un ampio consenso popolare alla politica governativa.

Baratieri e il suo Stato Maggiore

Per manipolare le notizie venivano impiegati vari sistemi. I giornalisti, notoriamente mal pagati, venivano regolarmente comprati; i corrispondenti stranieri vedevano i loro articoli accuratamente censurati, o se necessario venivano espulsi. Crispi era personalmente proprietario di un giornale sovvenzionato, finché egli stava al governo, con i soldi dei contribuenti, mentre interi numeri dei giornali di opposizione potevano essere bruciati e i loro direttori finire in carcere.

Per gran parte del 1895 il presidente del consiglio fu autorizzato dalla corona ad esercitare quello che veniva apertamente definito un potere dittatoriale, che poco si curava dei diritti del Parlamento e dei cittadini. Crispi era lo zar d’Italia, scriveva «La Critica Sociale»; egli si comportava come il capo di una repubblica centro-americana, osservava «II Secolo». «In-Italia», scrisse Bonghi dall’altra sponda, «un regime parlamentare non esiste, quantunque non si saprebbe dire qual altro esista in sua vece». Nel frattempo, i giudici e i revisori ufficiali dei conti, anche se avessero avuto delle riserve sull’operato del capo del governo, temevano di essere considerati antipatriottici e non avevano il coraggio di porre fine alle sue illegalità. Non un solo ministro si dimise prima del disastro finale del 1896: né Blanc, né Sonnino, né Giuseppe Saracco, quantunque tutti e tre disapprovassero la condotta personale e la politica di Crispi.

Solo il re avrebbe potuto fermarlo, e Umberto non aveva la forza d’animo e nemmeno la volontà per farlo; al contrario, concesse virtualmente i pieni poteri a un uomo notoriamente irresponsabile, propenso all’aggressione, e coinvolto in gravi fatti di corruzione.

In vista delle elezioni del maggio del 1895 i prefetti poterono prepararsi a «fare le elezioni» obbedendo alle direttive impartite dall’alto. Crispi sapeva che i governi in Italia vincevano sempre le elezioni, ma non lasciò nulla al caso. Con un pretesto o con l’altro, un quarto degli elettori fu cancellato dalle liste elettorali nazionali e locali. La pratica di trovare una sistemazione agli amici del governo era arrivata a un punto tale che ogni ufficio aveva il doppio del numero degli impiegati necessari. Lo stesso uomo che, dai banchi dell’opposizione, aveva accusato il governo di aver usato pressioni illecite e fondi segreti per influenzare le elezioni ora si serviva di qualsiasi mezzo per vincerle, arrestando gli oppositori e ricorrendo all’intimidazione e alla corruzione in misura tale che lo stesso re definiva incredibile.

I risultati di quelle elezioni, nonostante un aumento dei voti socialisti, del resto ancora scarsi, dettero al governo un’al tra larga maggioranza e videro la caduta dei radicali e dei seguaci di Giolitti e di Rudinì. Probabilmente Umberto si rese conto che, se Crispi avesse perduto le elezioni, la monarchia sarebbe stata in grave pericolo per aver dato il suo appoggio a un uomo accusato di illeciti penali. Ma la corona continuò a proteggerlo. «Crispi è un porco, ma è porco necessario”, disse il re ad uno dei suoi cortigiani.

 

Fonte: “I Savoia re d’Italia” di Denis Mack Smith, BUR (pp.151 – 153)

 

Foto RETE

 

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