GENNAIO – La Befana Madre Natura –

 

All’inizio del mese di gennaio si festeggia Madre Natura che assume le sembianze di una vecchia e benevola strega a cavallo di una scopa[…]

La Befana, che appare nella dodicesima notte dopo Natale, alla fine del periodo di transizione fra il vecchio e il nuovo anno, è un’immagine di Madre-Natura che, giunta alla fine dell’anno invecchiata e rinsecchita, assume le sembianze di una befana o di una «comare secca» da segare e bruciare. Ma prima di morire offre una cascatella di dolciumi e regalini che altro non sono se non i semi grazie ai quali riapparirà nelle vesti di giovinetta Natura: ovvero è una luna che muore, diventa nera, per rinascere falce virginea.

Una volta nel Veneto si celebrava nella dodicesima notte un rito dove si faceva un gran chiasso per scacciare dai campi e dai paesi tutte le forze malefiche. Poi si accendeva un fuoco su cui bruciava il pupazzo orrendo della Vecia: da questa usanza è nato il detto «Copar la vecia», cioè liberarsi da ogni male. Chi fosse riuscito a portare a casa i cavei, i suoi capelli, si sarebbe propiziato la fortuna per tutto l’anno. Infine la Vecia rinasceva dal fuoco purificatore come Veceta, buona fata portatrice di bene e di doni. Ancora oggi a Goito, in provincia di Mantova, si brucia un pupazzo, detto la Vecia, su grandi falò, i borìelli.

Che la Befana sia la personificazione femminile dell’anno, la Madre Natura giunta al termine del suo ciclo, ce lo conferma il Carnevale di Varallo Sesia in Piemonte, dove è chiamata la Veggia Pasquetta ed è rappresentata con un fantolino tra le braccia, simbolo dell’anno nuovo. Dopo un sommario processo è condannata al rogo mentre il fantolino è affidato a una robusta balia, impersonata da un giovane travestito. Il neonato, Marcantonio Carlavée, che diventa crescendo il re del Carnevale, sarà destinato alla fine del martedì grasso a morire sul rogo.

La Befana-Grande Madre appariva in Sicilia anche in due altre date di «capo d’anno», nella notte di Natale e in quella di San Silvestro, a confermare il suo ruolo di personificazione femminile dell’anno. Secondo una tradizione ormai spenta a Ciminna, in provincia di Palermo, la sera del 24 dicembre usciva per le vie la Vecchia di Natali, un fantoccio di vecchia grinzosa, lacera, seguita da centinaia di ragazzi che suonavano corni di bue, cerbottane e buccine di mare, battevano campanacci, picchiavano padelle e pentole oppure gridavano a squarciagola: «La Vecchia di Natalil La Vecchia di Natali!”. Quella vecchia insultata e derisa avrebbe portato i tradizionali regalini e dolciumi ai bambini.

Nella stessa notte compariva a Cefalù e Vicari col nome di Vecchia Strina: usciva dal castello, dov’era rimasta chiusa per un intero anno, e scendeva in città con un corteo di muli carichi di frutta, dolci e vestiti. Entrando nelle case si trasformava in formica per lasciare i suoi doni ai fanciulli. Val la pena di sottolineare che il nome Strina rammenta la strena, la strenna dei Romani, il dono rituale che ci si scambiava al primo dell’anno.

A Corleone, dove la si chiamava Carcavecchia, giungeva fra il 30 e il 31 dicembre: scendeva dalle rocche che circondano la cittadina ed entrava nelle case in forma di uccello a riempire le scarpe dei bimbi. A Resuttano, in provincia di Caltanissetta, la Vecchia di Capudannu appariva nella notte fra il 31 dicembre e il primo dell’anno nuovo.

Oggi è sopravvissuta in Sicilia in pochissime cittadine, come ad esempio a Gratteri. La notte del 31 dicembre un corteo, composto da uomini e donne che tengono in mano torce avente, parte dalla Grattara, una caverna nelle. vicinanze del paese. Tra suoni di campanacci di corno il corteo raggiunge il paese accompagnando la Vecchia, impersonata da una donna dal viso coperto da un lenzuolo: sarà proprio lei, tra canti popolari, a distribuire doni ai bimbi, mentre agli adulti toccheranno i turtiglioni, un particolare dolce locale.

Un altro elemento significativo è la presenza del fuso nelle mani di alcune «befane», come ad esempio la Redodesa bellunese o la Quarantana pugliese o la Pupa di Cetraro, in Calabria. Il fuso arcaicamente era l’attributo di Grandi Madri, come Ishtar, Atargatis, Artemide, Atena, che presiedevano alla vita e alla morte degli uomini.

Il  fuso simboleggia la legge dell’eterno ritorno ed è omologo alla Luna, l’altro nome della Grande Madre, così come lo erano le Moire, le figlie della necessità che cantavano facendo ruotare i fusi: Cloto, Lachesi e Atropo che regolavano l’esistenza di ogni vivente; la prima filava, la seconda arrotolava il filo che la terza infine tagliava. Sicché il fuso simboleggia la necessità che regna nel cuore del cosmo: il doppio aspetto della vita cui presiede la Grande Madre, dove si congiungono nascita e morte a rivelare l’impermanenza del manifestato, il cambiamento continuo e” universale degli esseri, dal quale procede la loro infinita varietà. In questa luce Platone ha visto nella tessitura il simbolo capace di rappresentare il mondo: un fuso il cui contrappeso, diviso in cerchi concentrici, figura i campi planetari.

Le grandi divinità orientali e mediterranee sono ormai scomparse nell’immaginario collettivo dove sono state sostituite da figure «più familiari ai contadini come le streghe, le ninfe, la Befana o le sante cristiane» osserva Raffaello Battaglia «e queste figure assommano in sé attributi, caratteri e azioni di entità divine ed extraumane molto più antiche».

Da “LUNARIO”, di Alfredo Cattabiani, Mondadori

 

Foto RETE

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