Le radici e i pretesti della secessione del Nord

All’inizio degli anni Novanta – in un contesto mondiale e nazionale profondamente mutati (il crollo del Muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, guerre “locali”, razzismi e xenofobie che esplodono nell’ex Iugoslavia, Tangentopoli, la fine della prima Repubblica, le stragi mafiose e l’uccisone di Falcone e Borsellino) ecc.) si verifica (dopo una lunga sedimentazione) la grande affermazione politica ed elettorale della Lega lombarda. Le posizioni antimeridionali e razziste della Lega vengono allo scoperto, illustrate dai suoi maggiori esponenti politici, tradotti in slogan duri, fastidiosi, efficaci. Diverse scritte, rilevate e fotografate in quel periodo di trionfo elettorale, che evidentemente rendeva sicuri e arroganti anche quanti prima mormoravano a bassa voce, sono emblematiche per comprendere gli umori alimentati dai dirigenti leghisti.

«Negri sì Terroni no»; «Il terrone accettalo…con l’accetta»; «I meridionali in toga I nostri figli in tuta»; «Aspromonte ano d’Italia»; «Napalm sull’Aspromonte»; «Stato ladrone Stato terrone»; «Terrone usa il sapone»; «O la Mafia o La Lega»; «I Bresà en Fonderia – I Terù a L’Inps»; «Terroni go home»; «La mafia non è povertà ma una mentalità»; «State in Africa»; «Forza Etna»; «Benvenuti in Italia» (negli stadi nelle partite con il Napoli, l’Avellino, ecc.); «Giustizia terrona Giustizia cialtrona»; «Giudici lombardi in Lombardia» (su un manifesto della lega Nord); «Lisciotto Terrone torna in Meridione» (con riferimento al Procuratore Capo della Repubblica di Brescia).

Maledizione, bruttezza, degenerazione, barbarie, sporcizia: il vocabolario dell’antropologia positivista serve ormai a dare voce a un nuovo risentimento e solidità a una forza politica, che intercetta il malessere di ceti popolari insicuri. Vengono augurati ed auspicati terremoti, pena di morte, cancellazione del Sud dalla carta geografica.

L’ostilità, la diffidenza, il rancore antimeridionale, di cui abbiamo avuto un variegato e significativo panorama su molta stampa nazionale in occasione di catastrofi naturali (come l’alluvione a Crotone) hanno radici lontane e profonde. Esse riaffiorano soprattutto ogni qual volta i ceti dominanti del Nord vedono messa in discussione i loro interessi, la loro capacità egemonica e forza espansiva. Mafie, ceti politici corrotti e clientelari, professionisti collusi con la criminalità si rendono protagonisti di episodi inquietanti e di vicende cruente che finiscono con portare acqua al mulino dell’ideologia leghista. Alimentano e servono a implementare lo stereotipo.

Il nuovo paradigma razzista dell’inferiorità dei meridionali

La novità della devastante di quella ondata di «antisemitismo italiano», sempre presente anche se in maniera sotterranea e quasi mai esplicitata nelle scelte economiche e politiche dei ceti dominanti (e non solo) del Nord, con il sostegno e la complicità di un ceto politico corrotto, clientelare, “illegale” del Mezzogiorno, consisteva nel fatto che, dall’inizio degli anni novanta, diventa sentimento strutturato, organizzato, diffuso, teorizzato e utilizzato nella battaglia politica. Il Nord, una parte politica del Nord, molto semplicemente, se ne voleva andare, desiderava «separarsi». Eppure era facile accorgersi che le due entità geografiche, culturali, morali erano ormai mescolate ed erano l’esito di un processo unitario di oltre un secolo. Difficilmente potevano essere “divise”, sia nei successi che nelle responsabilità, sia nelle conquiste che nelle degenerazioni. Bene e male, inferno e paradiso, bellezze e rovine convivono e fanno parte dell’intera nazione.

Il Sud ridiventa la causa della mancata crescita delle regioni del Nord e i meridionali sono i responsabili del degrado dell’Italia, della corruzione imperante, del sistema delle tangenti.

Tornavano in auge, con qualche modesto, non sostanziale, aggiornamento, le posizioni razziste del periodo positivista: adesso non c’erano più i grandi e lucidi “meridionalisti” e nemmeno forze politiche credibili, capaci di rispondere con argomenti credibili. Gianfranco Miglio, lontano dalle cautele e dalle preoccupazioni elettorali dei dirigenti leghisti (a votare Lega, com’è noto, sono stati anche numerosi meridionali emigrati al Nord) dichiara, in maniera dura e chiara, di non «amare i meridionali». L’ideologo della Lega, al quale oggi molti sindaci del Carroccio intitolano strade o edifici, come si fa con i padri della patria, con un chiaro gioco delle parti con i Bossi e i Moroni, il giovanissimo Salvini, afferma di basare il suo rifiuto su considerazioni di tipo antropologico.

Miglio, come dichiara a molti giornalisti, che diffondono il suo credo senza alcun commento critico, è impegnato, in quegli anni, assiduamente in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali. L’ideologo leghista sostiene che nel Sud esiste ancora una cultura che rimpiange la «civiltà classica» e non sa vivere nella società moderna.

Miglio riprende tutte le invenzioni e le descrizioni degli antropologi positivisti, senza tenere conto delle risposte e delle analisi dei meridionalisti, degli autori e degli scrittori meridionali, di un secolo di storia che aveva cambiato il volto dell’Italia e nel corso del quale i meridionali sono diventati protagonisti della vita economica e sociale del Nord e hanno introdotto pratiche lavorative, organizzative, operosità in grado di sconfessare il luogo comune del meridionale ozioso. Le riflessioni «antropologiche» di Miglio sono la riproposizione aggiornata di consolidati luoghi comuni e antichi stereotipi.

Il passato non passava: era importante reiterare che l’affermarsi di posizioni “razziali” e razziste anche senza razza, questa volta ha come obiettivo non più il federalismo tra entità territoriali diverse, ma la separazione di entità che si sono, sia pure faticosamente, con dualismi permanenti, uniti. Il neorazzismo culturale aveva ragioni economiche e motivazioni politiche.

Nel 1993 ne La razza maledetta segnalavo il rischio che alle tendenze secessioniste del Nord, il Sud potesse rispondere, come ricordava Giovanni Russo, con miti e nostalgie filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti (I nipotini di Lombroso, 1992). Isaia Sales (Leghisti e sudisti, 1993) temeva che in Italia ci si dividesse in «leghisti» e «sudisti». A distanza di un ventennio, possiamo costatare come quei rischi fossero concreti e del tutto fondati. Alla lunga sono affiorate, al Sud, accanto a risposte serie e aperte, posizioni localistiche funzionali al sentimento antiunitario della Lega. Nel tempo, la Lega ha occultato il razzismo antimeridionale con la xenofobia anti-immigrati, che spesso ha contagiato anche il Sud. Come scrivevo in vari saggi e articoli tra il 2011 e il 2014, i localismi al Nord e al Sud sembravano trovare una sorta di incontro in nome di una presunta difesa dell’Occidente dalle invasioni degli stranieri. Qualcuno sottovalutava i discorsi razzisti che sono proliferati nelle nostre campagne e nei nostri paesi contro immigrati e stranieri. Non ci si accorgeva che chiusure anguste, difese d’ufficio di un’inesistente identità pura e incontaminata, gruppi xenofobi e localisti, organizzazione criminale e pensiero filondranghetista potrebbero trovare una convergenza di interessi concerti e di rassicurazioni e garanzie (a proposito di retorica di uno pseudogarantismo complementare e funzionale alla retorica, di segno contrario, dell’antimafia) nella Lega “nazionale” di Salvini, sempre meno interessata alla Padania, ma interprete di tutte le forme di opposizione allo straniero e agli altri inserite in una cornice nazionale, come è avvenuto per il lepenismo in Francia. E così nata come movimento politico antimeridionale e separatista, la Lega si è trasformata, nel tempo, in movimento anti-immigrati che mette assieme i tanti localismi, le paure, le ansie, le xenofobie, le retoriche identitarie presenti ovunque in Italia, anche nel Sud, e, come sappiamo, nel resto di Europa. L’Italia non viene più pensata e unita per guardare, in maniera autonoma, all’Europa e al mondo, ma viene unificata nel nome di localismi, separatismi, distinzioni contro un nuovo nemico esterno.

La possibile penetrazione (che è ormai avvenuta, ma così prevedevo nel 2014) leghista anche nel Meridione e nelle isole segnala le responsabilità e le ingenuità, la “cattiva coscienza”, di tanti commentatori che si sono rinchiusi in proclami con le insegne logore del localismo meridionale, della lamentela identitaria sul buon tempo antico, del revisionismo più retrivo e scadente. Il tutto attraverso la negazione subdola di quella cultura meridionale illuminata, illuminista, risorgimentale, meridionalista che è quanto di più originale e innovativo e oppositivo abbiano prodotto dalla fine del Settecento ai nostri giorni le élites pensanti e critiche del Meridione o amiche del Meridione.

La secessione subdola e occultata.

Adesso, con il federalismo fiscale, nei modi e nelle forme voluti da Veneto e Lombardia (per questi aspetti rinvio a contributi di Viesti, Bevilacqua, Cersosimo, Perna, Sangineto, Abruzzese e tanti altri che fanno parte dell’Osservatorio del Sud), in maniera miope sostenute da gruppi e forze politiche, localistiche e anguste del Sud, quel separatismo e quella secessione che non erano riusciti a realizzare la Lega di Bossi e Miglio, sembra potersi attuare nel momento in cui non si fa che proclamare “L’Italia agli italiani”. In realtà il paradosso di questi slogan elettoralistici non fanno altro che sottrarre alcune regioni del Nord e del Sud all’Italia e concorrono ad aumentare una separazione Nord-Sud che, se andasse in porto, ci restituirebbe tanti piccoli, poveri, irrilevanti piccoli Stati, incapaci di affermare un’Europa diversa, profondamente diversa, da quella finora conosciuta, ma anzi alimentatori e moltiplicatori di conflitti che potrebbero portare di nuovo a una catastrofica guerra che, pure con tutti i suoi difetti e le sue storture, l’Europa unita, almeno l’idea e il sogno dell’Europa unita, avevano scongiurato per oltre settant’anni. Il Sud – le istituzioni pubbliche, i Comuni, le Regioni, il sindacato, la Chiesa, i partiti, i movimenti, gli intellettuali – anche con una diversità di posizioni non possono restare muti e silenti dinnanzi a una prospettiva non tanto remota che renderebbe ulteriormente le nostre terre luoghi desolati, oppressi da mafie e corruzione, con paesi vuoti e giovani che fuggono.

Non esistono più alibi. Non basta dare la colpa sempre agli altri. Non serve autoassolverci o autodemolirci. Non serve tornare a retrotopie neoborboniche, a rimpianto di un Eden mai esistito, a rivendicazioni localistiche e separatiste di segno contrario a quello delle ricche regioni del Nord (ricche grazie anche alle risorse del Sud, ai meridionali emigrati). Non servono piccoli interventi provvisori e senza un respiro futuro; ben vengano sostegni e contrasti alla povertà, ma non si pensi a creare una massa di giovani amorfi e senza lavoro, che darebbero l’ennesimo pretesto alla regioni del Nord per rivendicare un’autonomia contro il solito Sud assistito, ozioso, in attesa di sostegni esterni. La partita si gioca qui ed ora. A livello politico, economico, culturale.

C’è bisogno di un grande progetto antagonista, in controtendenza, di un piano di lunga durata, per il Sud, i suoi paesi, le sue citta, le sue montagne, le sue marine. Ognuno, con la sua capacità, le sue capacità, le sue posizioni – con una pluralità di voce – deve decidersi. Siamo chiamati ad affermare una nuova soggettività, a costruire un’identità aperta, inclusiva. Valgono ancora i versi amari di Franco Costabile:

Prima dell’acqua

la Corte d’Assise.

Prima del sole

… la mosca olearia.

E giorno fu.

Ecco,

io e te, Meridione,

dobbiamo parlarci una volta,

ragionare davvero con calma,

da soli,

senza raccontarci fantasie

sulle nostre contrade.

Noi dobbiamo deciderci

con questo cuore troppo cantastorie.

Di VITO TETI

Fonte: http://www.osservatoriodelsud.it/2019/02/10/le-radici-e-i-pretesti-della-secessione-del-nord/

Foto RETE

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