Li chiamarono “scemi di guerra”

La Grande guerra non fu solo “un’inutile strage”, fu svolta nel costume militare e politico, stravolgimento dei rapporti internazionali, incubazione di rancori, tensioni… Ma soprattutto fu terremoto che sconvolse il corpo e la mente di milioni di fanti. “Scemi di guerra” vennero chiamati costoro che “impotenti di fronte a eventi straordinari che non capivano e non potevano governare, troveranno nella follia o nella sua simulazione una via di fuga, una forma di ribellione individuale al «senso di impotenza di fronte alla totale perdita di controllo delle proprie condizioni di vita».

Oscar Greco, ne I DEMONI DEL MEZZOGIORNO (Rubbettino), analizza questa triste storia.

Le nevrosi generate durante e a seguito del conflitto furono un fenomeno nuovo e presente in tutti i Paesi belligeranti, con una dimensione notevole se si considera che, secondo le stime della storiografia recente, i ricoveri per ragioni nervose e mentali durante il conflitto furono in Francia circa 300.000, in Germania circa 400.000; in Inghilterra le stime oscillano tra 80.000 e 200.000. In Italia i ricoverati, sulla base delle stime dei consulenti psichiatri dei corpi d’armata, furono 40.000, numero solo apparentemente limitato se si tiene conto dell’inferiorità numerica dell’esercito italiano.

L’ampiezza del fenomeno, quasi di massa, ha interessato gli storici che ne hanno ricercato la genesi nei caratteri del conflitto segnato dal rapporto tra guerra e modernità, in un mondo nuovo disegnato dalle tecnologie e dai sistemi distruttivi messi in atto dagli Stati militarizzati. La particolarità del conflitto ha rappresentato un fattore di discontinuità che si è presentato con la forza dirompente del «colpo di tuono», per usare l’incisiva metafora di Antonio Gibelli, presa a prestito dal Thomas Mann de La montagna incantata: i rimbombi della guerra preannunciavano un irreversibile passaggio d’epoca.

L’immagine del colpo di tuono rappresenta anche, e non solo metaforicamente, il rapporto che già nei primi mesi di guerra si configurò, in tutta la sua drammaticità, tra i combattenti, con le loro semplici storie ed esperienze, e gli effetti prodotti dai nuovi mezzi di distruzione. Leed ne offre uno spaccato significativo:

Le menti erano incrinate dal rombo continuo. La superiorità delle macchine sugli uomini era annunciata con un «fragore di tuono» che squassava la terra e portava coloro che vi si erano rifugiati molto prossimi al collasso. I combattenti erano unanimemente d’accordo che le nevrosi fossero poste non tanto da viste come quella, già terrificante, dell’esplosione di ordigni a gas, quanto dall’assordante rumore e dalle vibrazioni dei bombardamenti di preparazione, sotto cui i difensori erano costretti a rimanere per ore e anche per giorni interi.

Anche Gibelli mette in risalto l’esplosione delle coordinate sensoriali in cui l’esperienza del mondo era precedentemente racchiusa:

II vecchio equilibrio sensoriale è rotto dalla potenza dei nuovi eventi visivi e sonori, mentre un fenomeno di dissociazione interviene a scompigliare le tradizionali forme di percezione e a separarle dal loro alveo naturale.

L’effetto sulla psiche dei soldati dal fragore della guerra è stato raccontato da un testimone d’eccezione come Marco Levi Bianchini che, presente sui campi di battaglia, descrive nel suo Diario di guerra lo scatenarsi delle «tempeste sensoriali» conseguenti ai rumori rimbombanti e assordanti:

Rumori aspri e laceranti [… ] le voci e i timbri metallici dei pezzi nostri e nemici, che stridono, fischiano, miagolano, gemono [… ] il crepitare della fucileria, il tambureggiare dei cannoni.

E rileva che tutto ciò, unitamente alle luci saettanti, al bagliore dei razzi e al lampeggiamento delle esplosioni, altera l’apparato psicorganico dell’uomo in guerra, il quale mostra una vera e propria incapacità di «accogliere, vagliare ed elaborare» questa inondazione di stimoli inusuali quanto intensi.

Alla paura prolungata e ripetuta, all’emozione violenta subentrano manifestazioni psichico-fisiche incontrollabili, l’enuresi, il mutismo, i tremori, l’amnesia. Arturo Morselli constatava che a volte i disturbi psicosensoriali «assumono un’impronta particolare per il contenuto a carattere guerresco (sibili, scoppi, fiamme, urla, nemici, ecc.)» a volte «si hanno stati allucinatori durante i quali i soggetti confusi assistono atterriti alle scene vissute od odono sibili, scoppi di proiettili, urli di rabbia, di incitamento, di vittoria».

La tipologia e l’ampiezza delle patologie psichiche riportate dai soldati rivelano non solo un nuovo paesaggio mentale, ma dimostrano l’eccezionaiità di un fenomeno che non trova precedenti in altri conflitti e testimonia che «la variabile più significativa nell’incidenza della nevrosi non era il carattere del soldato, ma il carattere della guerra», a dimostrazione della validità della ricerca storica (Leed, Gibelli, Bianchi) che ha privilegiato come terreno d’indagine non solo la psiche e la cultura dei soldati, ma la specificità della Grande guerra e il suo intreccio con le trasformazioni della modernità.

Prima della meccanizzazione e delle moderne tecnologie il disagio psicologico del soldato in guerra era una malinconica forma di nostalgia di casa attribuibile più a un certo stato d’animo che a una nevrosi vera e propria; inoltre, il fatto che gli eserciti fossero perlopiù composti da volontari o truppe scelte, limitava sensibilmente la diffusione delle nevrosi di guerra. Quanto accadde durante la Grande guerra con le migliaia di internati nei manicomi d’Europa sembra piuttosto effetto di un trauma che non è solo il cedimento mentale di alcuni combattenti di fronte agli orrori, ma rappresenta la frattura insanabile con quella visione del mondo moderna ed evolutiva che la belle époque aveva generato.

Il conflitto è stato un agente devastante delle strutture mentali dei combattenti di tutte le nazioni e di tutte le classi sociali; lo è stato in particolare per l’esercito italiano, in un momento storico in cui la popolazione attiva in agricoltura superava il 50% e i fanti erano prevalentemente di estrazione contadina, con un elevato livello di analfabetismo. Molti di questi fanti, soprattutto nelle aree meridionali, erano abituati a vivere in campagne isolate o comunque lontani dai più popolosi centri abitati; non erano mai stati in una grande città, dove i segni del progresso cominciavano a essere evidenti, non avevano mai visto un centro industriale; vivevano ancora, sulle orme dei loro padri, secondo i ritmi della natura, governati dalle leggi del mondo rurale, con un immaginario e consuetudini rapportati alle vicissitudini di una vita agra e difficile nell’attesa di una modernità e di un progresso di cui sentivano solo gli echi lontani.

Costoro, strappati dal loro universo sociale e mentale e improvvisamente gettati «in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo», vivono drammaticamente il «conflitto tra le nazioni in guerra, improntate all’efficientismo e alla standardizzazione, e le culture contadine del lavoro e della comunità trascinate a forza nel massacro, schiacciate e omologate». Al fronte impattano con l’altra faccia dello sviluppo e fanno i conti con «le nefaste meraviglie» di una realtà per loro terrificante: conoscono la meccanica dei tiri d’obice, sentono l’odore dei gas letali e ne vedono gli effetti sui volti dei compagni soffocati, subiscono il trauma dell’artiglieria pesante che cannoneggia senza sosta mentre si sentono ingabbiati nel «buco nero» delle trincee circondate da un immutabile e devastato paesaggio di desolazione e di morte, dove «sperimentano la vicinanza paradossale dell’umano e del disumano, la contaminazione tra il commestibile e il putrescente».

A queste masse subalterne, scarti di una civiltà che non conoscevano e da cui erano esclusi, il fragore della Grande guerra dimostrò la micidiale ambivalenza dell’agognata modernità. Tutto ciò ha segnato uno spartiacque nel loro recinto mentale e ha inciso sul loro modo di concepire la vita e la morte, privandole di quella ritualità secolare alla quale erano abituati: impotenti di fronte a eventi straordinari che non capivano e non potevano governare, troveranno nella follia o nella sua simulazione una via di fuga, una forma di ribellione individuale al «senso di impotenza di fronte alla totale perdita di controllo delle proprie condizioni di vita».

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Verso la fine del video si parla dei disturbi mentali dei fanti

Di fronte all’impossibilità pratica di una fuga reale si ricorre alle vie di fuga interiori, a quella forma di diserzione virtuale che è la malattia (o la sua simulazione). La follia del soldato diventa espressione individuale e inconsapevole di diserzione, si manifesterà con forme di regressione di pensiero e di comportamento irrazionali, mitiche, magiche, che assumeranno rappresentazioni psichiatriche diverse quali la depressione, il mutacismo, il disorientamento e la confusione mentale, tremori, paralisi, forme epilettiche e anche atteggiamenti fanciulleschi, nei quali il rifugio nell’infanzia è espressione del tentativo di ricostituzione del nucleo originario della propria personalità e del desiderio di tornare indietro, ai ritmi di vita e alla dimensione sociale antecedenti al passaggio d’epoca prodotto dal grande conflitto. Nel contempo la regressione alla vita infantile consente al soldato di rinchiudersi in una «condizione di sicurezza e protezione» nella quale «può evitare la completa rottura con la realtà ed esprimere la propria emozionalità e la propria debolezza».

Fonte: I DEMONI DEL MEZZOGIORNO, di Oscar Greco, Rubbettino

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