Donne che lavano

 

Mettevano la roba in una cesta e partivano la mattina presto. Se avevano bambini piccoli li portavano con sé. Le prime si fermavano a Santo Linardo, al Fosso del Mulino. Quando qui non c’era più spazio andavano al Canale di Scorpari.

Questo alla Viaravita.

Quelle che andavano al Canale sistemavano alcune pietre per insaponare e strofinare i panni, altre su cui inginocchiarsi, qualche panno per proteggere le ginocchia e giù per ore.

Se il gruppo era numeroso, si organizzavano, distribuendosi sulle sponde del Canale e passandosi una voce, in modo che chi sciacquava panni colorati non disturbasse chi aveva lenzuoli o indumenti bianchi.

Quando c’era da sbiancare tessuti facevano la “lissia”. In una bacinella o in un “cauraro”, distribuivano a strati panni e cenere  setacciata, alla fine versavano acqua bollente. Rimaneva così alcune ore. Poi andavano a lavare al Canale.

Una curiosità: forse pochi di voi sanno che in italiano “lissia” si dice RANNO.

Era un lavoro duro, soprattutto d’inverno, quando l’acqua era gelata e sembrava di perder le mani per il freddo. Ogni tanto accendevano pezzi di legno per riaversi un po’. Per le donne incinte era tutto più faticoso.

Qualche volta, a metà mattinata, mangiavano un pezzo di pane con un po’ di formaggio e prendevano fiato.

Tornavano a casa verso mezzogiorno, con la schiena a pezzi.

Alcune stendevano i panni dal balcone o dal terrazzo, le altre li sistemavano su gli arbusti di mirtillo. A sera andavano a raccoglierli.

D’inverno asciugare i panni diventava più problematico. L’unico metodo era quello di sistemarli sulle sedie vicino al focolare o al braciere.

Chi poteva si faceva il sapone in casa. Prendevano residui di olio e grasso di maiale, potassio (idrossido di potassio)  ed acqua nelle giuste dosi e li facevano bollire per ore, mescolando con un bastone. Si faceva raffreddare e solidificare, poi si divideva a piccoli pezzi e si faceva essiccare.

I ragazzi usavano il potassio anche per un gioco che procurava abbondante adrenalina.

Oltre al potassio serviva un barattolo vuoto con un foro.

Si sistemava per terra po’ di potassio, si bagnava con saliva, si copriva subito col barattolo, chiudendo il foro con un dito. Un aiutante accendeva una miccia di carta. Dopo qualche secondo si toglieva il dito e si avvicinava la miccia. Il gas sprigionato dal potassio  faceva partire in aria il barattolo con un grosso botto.

Qualcuno, che non toglieva la capoccia dalla verticale, si beccava il barattolo in fronte. Ma non ricordo grossi incidenti.

I ragazzi accompagnavano volentieri la mamma quando andava a lavare i panni. Se si fermava al Fosso del Mulino giocavano nella Cappella di Santo Linardo, che allora era diroccata. Se andava al Canale, ancora meglio: c’era più spazio e c’erano più possibilità d’inventarsi giochi. Quando si esagerava, un manrovescio indicava i limiti che non bisognava superare.

Inciso: alcuni nomi (Argentino, Lao, Porta la Terra) esistono solo sulle mappe. Nello scambio quotidiano delle parole c’era Hjumu, Hjumu Grannu e Canale.

Questa foto me l’ha procurata mia sorella Angela. Risale al 1954.
Se qualcuno di voi conosce le donne che lavano a Santo Linardo potrà indicare i nomi

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