La crisi della politica e le ricette di Renzi – “Prendere o lasciare”?

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Qual è la caratteristica principale dell’azione di Renzi? La fretta. Fretta di lasciare un segno, per non logorarsi, di differenziarsi da riti e tempi della vecchia politica. Se c’è qualcosa per cui Renzi vuole essere innovativo, non è per i contenuti, ma per il ritmo.

E’ senza dubbio questa la caratteristica fondamentale del leader PD, che vuole apparire in contrapposizione ai tradizionali tempi lunghi della politica italiana, come sottolineato da Ilvo Diamanti. E’, in qualche modo, obbligato a mostrarsi in grado di raggiungere risultati immediati, qualsiasi essi siano.

In realtà, tanta alacrità sta attualmente portando all’effetto paradosso di imprigionare Renzi – come un uccello impaniato che, quanto più batte le ali, tanto più si mette in trappola nei riti della “vecchia politica”: il rimpasto, la staffetta, il cambio di marcia. E, per ora, i risultati annunciati sono lungi dall’essere raggiunti. Se ne è solo sottolineata, una volta di più, l’urgenza. In linea, peraltro, con la logica perennemente emergenziale nel cui nome si giustifica il perdurare e vivacchiare di governi che nessun elettore ha scelto.

In ogni caso, il messaggio che Renzi vuole trasmettere è che, con lui, i tempi delle decisioni si fanno veloci, gli obiettivi raggiungibili. Per questo fine, ogni mezzo è lecito: anche trattare, prioritariamente, se non esclusivamente, con un condannato in via definitiva, che sembrava, infine, incredibile dictu, destinato ad uscire dalla scena politica.

Di questa apologia della velocità, fa parte l’insistenza di Renzi sulla natura “storica” del pacchetto di riforme che ha proposto prima al Cavaliere, poi alle altre forze politiche. Ma è davvero così? Sarebbe facile sottolineare che i problemi del paese sono ben altri, a partire da quell’aumento letteralmente vertiginoso delle diseguaglianze che è stato, per l’ennesima volta, recentemente sottolineato dal rapporto di Bankitalia.

Renzi potrebbe, a ragione, rispondere che è ben conscio della centralità delle questioni economiche, ma che la riforma della legge elettorale è una necessità preliminare e propedeutica a qualsiasi altro intervento. Si può essere senz’altro d’accordo; è anche indubbio, però, che legarla alle altre due proposte di riforma istituzionale, e quindi vincolarne l’applicabilità all’abolizione del bicameralismo perfetto, allunga i tempi a dismisura e rischia di prolungare l’impasse politica che ci imprigiona come un incantesimo. Ma, per il leader Pd, è il pacchetto delle tre riforme che costituirebbe quel cambio di marcia storico che serve al paese per ripartire.

E’ sulla base di questa definizione, insistita e reiterata, che vengono giustificati i mezzi poco nobili e il “prendere o lasciare”; è perche fa parte di questo “storico” tris di riforme che sulla legge elettorale non si può fare troppo gli schizzinosi, pena il mettere a rischio un insieme di modifiche istituzionali che sarebbe addirittura in grado di far compiere al paese la svolta decisiva e tanto attesa dai cittadini.

Dando per scontata la necessità di una nuova legge elettorale, per quale motivo le altre due riforme dovrebbero, per i cittadini, avere tanto rilievo? In realtà le si conosce poco nel dettaglio. Sul nuovo Senato delle autonomie, si è saputo qualcosa, di abbastanza pasticciato, solo durante la direzione PD del 6 febbraio scorso e non si possiede ancora un testo scritto. Appare chiaro che Renzi è mosso, oltre che dal culto della velocità, dal desiderio di vellicare gli umori anti-casta degli italiani. Sembra che una riforma così delicata e importante, come la rinuncia al bicameralismo perfetto in un momento politicamente e socialmente tanto complesso, serva principalmente a soddisfare l’astio degli italiani verso la classe politica nel suo insieme, dandogli in pasto l’abolizione degli stipendi dei 315 senatori.

Ora, l’odio anti-casta, nella forma che ha assunto negli ultimi anni, è un sentimento sostanzialmente “plebeo”, che prende il posto di una riflessione ragionata sulla cause della degenerazione della politica, sulle molteplici forme del privilegio e sulle contromisure da prendere per favorire eguaglianza e partecipazione. E’ “plebeo” in quanto si contrappone all’atteggiamento critico dei cittadini, capaci di guicciardiniana “discrezione” e di un esercizio consapevole dei propri diritti di cittadinanza.

La contrapposizione masaniellesca fra “noi” e “loro”, l’odio per gli eletti in quanto tali, costituiscono, nella loro forma più semplicistica, un diversivo rispetto alla presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei loro autentici interessi, della natura del modello economico vigente e dei reali meccanismi alla base dell’esponenziale aumento delle diseguaglianze.

Rispetto a questo tipo di umori anti-politici, rimane valido l’argomento di Bertrand Russell, che diceva che l’argomento più forte a favore della democrazia è che, quando vige il suffragio universale, “un eletto non può essere più stupido dei suoi elettori: più è stupido (o corrotto) lui, più lo sono coloro che l’hanno eletto”. Certo, resta il problema della possibilità dell’opinione pubblica di formarsi in reale autonomia e attraverso una libera e corretta informazione; questione su cui torneremo.

Renzi esalta i risparmi che deriverebbero dalla trasformazione del Senato e dagli interventi sul titolo V (dei quali si è parlato pochissimo, mettendo l’accento, di nuovo in chiave anti-casta, quasi esclusivamente sulla riduzione degli emolumenti ai consiglieri regionali, su cui si può non aver nulla da eccepire, ma che sarebbe davvero azzardato definire una svolta utile a far ripartire il paese), quantificandoli in circa 700 milioni.

Si tratta di una cifra davvero poco significativa, se si pensa, ad esempio, che la tassa sui grandi patrimoni esistente in Francia (L’impôt de solidarité sur la fortune, non abolita neppure da Sarkozy, mentre da noi è un tabù assoluto) procura circa 4 miliardi l’anno e che una cifra maggiore si otterrebbe con un’imposizione su successioni e donazioni sempre sul modello francese, cui si potrebbe aggiungere quella sulle rendite finanziarie; tutte opzioni assenti dal dibattito attuale.

Quello che occorre soprattutto chiedersi è se, dando per accertato che i problemi del paese abbiano anche bisogno di una risposta sul piano del funzionamento istituzionale, le proposte avanzate vadano nella direzione giusta. Quali sono le cause della crisi della politica che investe tutti i paesi avanzati e che si manifesta ovunque con una crescente disaffezione dei cittadini verso la politica, lasciando spazio, oltre che all’astensionismo, a spinte populistiche e reazionarie di varia natura?

La causa più generale, che riguarda tutto l’Occidente, sta nel fatto che la politica non sembra più capace di essere quella “scelta dei fini”, in cui è sempre consistita, ma si riduce alla pura scelta dei mezzi più idonei per realizzare fini che sono determinati da altre istanze e che vengono percepiti come insindacabili e parte, per così dire, di uno sfondo naturale che non può essere messo in discussione. E’ la totale abdicazione della politica rispetto all’economia finanziaria che offre un corposo argomento al tradizionale pregiudizio popolare per cui “i politici sono tutti uguali”.

Il nesso potere-denaro, il serpente ouroboros di cui parla Zagrebelsky, impedisce alla politica di essere quel confronto fra visioni alternative e modelli diversi di società capace di coinvolgere nella discussione, su un piano paritario, il maggior numero di cittadini. E arriva a far percepire ogni pretesa democratica come un attacco all’efficienza e al funzionamento dei mercati, imposti come unico valore incontestabile e autoevidente. Questo riduce sempre più a un simulacro l’autonomia della politica, che si limita alla scelta fra diverse – minime – sfumature nell’applicazione dei diktat finanziari.

Per questo le sinistre, quando sono al governo, deludono sempre le attese, anche quando, come nel caso di Hollande, si erano proposte agli elettori con programmi relativamente avanzati (d’altra parte, Krugman ha ben sottolineato la disapprovazione dei mercati – con relative pressioni – verso la scelta del governo Hollande-Ayrault di privilegiare, nell’azione di risanamento del bilancio, l’aumento delle imposte sui redditi più elevati ai tagli al welfare. Tali pressioni sono una delle cause della recente svolta di Hollande, definita, in Francia, “socialdemocratica”; termine che, peraltro, in Italia, se applicato al PD, indicherebbe una svolta a sinistra).

Per cui, alla fine, riescono, nel migliore dei casi, come Zapatero e lo stesso Hollande, a caratterizzarsi per le scelte in tema di costume e diritti civili (da noi, come sappiamo, neanche per quelle), mentre sul piano delle politiche economiche vengono percepite come una copia sbiadita delle destre. In Italia, a questo problema globale, si aggiungono l’abnorme tasso di corruzione della classe dirigente nel suo complesso, la concentrazione mediatica e la natura anomala, sul piano delle regole democratiche, di alcune delle forze politiche sulla scena.

E’ impossibile sopravvalutare l’importanza del fatto che l’Italia occupa la 69esima posizione al mondo nella classifica sulla corruzione percepita, mentre tutti i principali paesi occidentali si trovano nelle prime 25. Sono queste le questioni che dovrebbero essere affrontate con adeguati interventi legislativi e istituzionali. Prioritario non è tanto diminuire ciò che gli eletti ricevono legalmente, quanto ridurre al minimo la possibilità- e l’accettabilità sociale- di comportamenti illegali.

Davvero rivoluzionaria per il nostro paese, sarebbe una seria legge anti-corruzione e per la trasparenza amministrativa, seguita – o preceduta – da una prassi conseguente (che non sembra sia stata in cima alle preoccupazioni di Renzi nella scelta delle candidature in Sardegna). Così come lo sarebbero una rigorosa legge sul conflitto di interessi, soprattutto riguardo al tema cruciale dell’informazione e del potere mediatico, così determinante per la formazione dell’opinione pubblica e della percezione, da parte dei cittadini, delle priorità politiche e sociali, e norme altrettanto rigorose sulla democrazia interna ai partiti.

Naturalmente è difficile mettere sul tappeto tali questioni, che davvero segnerebbero una discontinuità rivoluzionaria rispetto agli ultimi vent’anni, se si sceglie Berlusconi come interlocutore principale sulla via delle riforme. Inoltre, il problema più generale della disaffezione verso la politica e della crisi della rappresentatività sembra richiedere, in aggiunta ad una profonda riflessione sul nodo centrale dei rapporti fra economia e politica, che si dia spazio al massimo di pluralismo, per favorire la più ampia partecipazione dei cittadini e permettere al dibattito pubblico di arricchirsi delle posizioni più diverse e critiche, sottraendosi così ad un appiattimento uniforme rotto solo da sussulti populistici.

La politica non può essere solo la presa d’atto dei rapporti di forza esistenti, ma dovrebbe, data la gravità della situazione, lasciare spazio alla possibilità che nascano nuove forze che rivitalizzino il confronto di idee ed amplino il novero delle opzioni possibili. Invece, la legge elettorale proposta, oltre a sottrarre ai cittadini la scelta dei candidati con nuove liste bloccate, andrebbe, con uno sbarramento altissimo e inusitato per le forze non coalizzate, nella direzione opposta.

Immaginiamo un parlamento, ridotto a una sola camera, diviso fra Forza Italia, PD e M5S. Due partiti guidati da un capo e un terzo che rischia di diventarlo. Non sarebbe un quadro desolante per molti cittadini, che non si sentirebbero rappresentati e andrebbero ad ingrossare le fila dei delusi e degli indifferenti? Un PD da anni in preda a una deriva moderata, che fatica anche ad aderire al PSE, può monopolizzare l’area di centrosinistra? E farlo proprio nel momento in cui molti dei suoi nuovi dirigenti renziani si caratterizzano per l’esaltazione di un liberismo quasi thatcheriano che non può che suscitare sconcerto in esponenti di un partito che dovrebbe rappresentare in Italia la sinistra europea?

Lo spostamento sempre più a destra del baricentro del quadro politico nel suo complesso fa, da noi, apparire radicale ed estremista qualsiasi posizione critica verso il pensiero dominante, rendendo il dibattito sulle possibili alternative all’attuale modello di sviluppo, sull’austerity, sulle riforme necessarie all’Europa, del tutto marginale – diversamente che in altri paesi, pur coinvolti come noi nella crisi della rappresentanza – e confinandoci in un asfittico provincialismo.

D’altronde, la speranza che la condanna definitiva di Berlusconi potesse aprire la strada al graduale affermarsi di una normale destra europea perde ogni fondamento nel momento in cui si propone una legge elettorale che ridà una centralità totale al partito-azienda del Cavaliere e dei suoi eventuali eredi. Ridare fiato a Berlusconi quando sembra ormai destinato a uscire di scena è da anni una costante dell’azione della dirigenza DS-PD; una vera coazione a ripetere. Anche, ma non solo, per questo, d’alemiani e renziani ricordano quei due teologi di Borges, che, dopo essersi combattuti per tutta la vita, scoprono nell’aldilà di essere la stessa persona. Anche l’elezione indiretta del Senato non appare la scelta migliore per contrastare l’autoreferenzialità della classe dirigente, come ha ben sottolineato Nadia Urbinati.

Le proposte di Renzi sembrano avere solo due obiettivi: eliminare i partiti minori (e questo è il principale motivo della scelta di Berlusconi come interlocutore principale) e           velocizzare il processo decisionale. Ma è molto dubbio che il problema principale dell’Italia, negli anni passati, sia stata l’assenza di governabilità dovuta alla frammentazione politica. Le difficoltà in questo senso sono piuttosto derivate dalle assurdità del Porcellum.

Berlusconi ha governato a lungo (il Berlusconi II e il Berlusconi IV sono stati i governi più longevi della storia repubblicana) con un’ampia maggioranza senza grandi frutti; e sembra anzi, dalle sue stesse lamentele, che sia stata la presenza di altre forze nella sua coalizione a evitare che facesse danni ancora maggiori. Per quanto riguarda il centrosinistra, se indubbiamente il primo governo Prodi è caduto a causa di Bertinotti, la vicenda del secondo è ben altrimenti complessa e legata soprattutto alle scelte di Veltroni.

In base alle considerazioni sopra espresse, la scelta di sacrificare il pluralismo e gli equilibri del potere legislativo ad esigenze di efficienza e uniformità appaiono le meno opportune nel contesto attuale. Col suo decisionismo, che ricorda il primo Craxi, Renzi ripropone l’insofferenza più volte espressa da Berlusconi nei confronti della lentezza del processo legislativo. Ma il problema è davvero tale lentezza, che non impedisce comunque la produzione di una pletora di leggi e leggine, o piuttosto la qualità dell’azione politica?

La somma di esaltazione della rapidità, desiderio di soddisfare le pulsioni anti-casta e aspirazione alla semplificazione forzata del quadro politico e alla riduzione del pluralismo non sembrano all’altezza delle sfide che la politica ha di fronte a sé. Prima fra tutte, la capacità di ritornare ad essere luogo di confronto partecipato fra visioni alternative, di avere uno sguardo d’insieme sulla società e di dare risposte al disagio sociale. Cessando di essere appiattita sul presente, sul “giorno per giorno”, sulla rinuncia ad ogni battaglia culturale in nome dell’accettazione dell’esistente e della sondaggiocrazia (che appare la moderna incarnazione dell’oclocrazia polibiana e insieme di quella deriva verso la passività dei cittadini profetizzata da Tocqueville).

Sotto le parvenze della discontinuità, e di una frenesia ipnotica, le scelte di Renzi appaiono, in realtà, in linea con l’involuzione della politica (ridotta alla gestione tecnico-amministrativa di programmi eterodiretti, da parte di un notabilato ideologicamente uniforme ed incapace di elaborazione culturale) in corso da anni ed alla base della crisi della rappresentanza cui assistiamo.
di Andrea Bianchi
Fonte http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-fretta-di-renzi-e-la-crisi-della-politica/
Foto web

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