Il Monachesimo nel meridione bizantino

Donne al Sepolcro vuoto . Cripta di San Vito Vecchio, Gravina

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DAL VII SECOLO,E PER BEN OTTOCENTO ANNI, LE REGIONI MERIDIONALI DELLA PENISOLA SI POPOLARONO DI EREMI E CENOBI, ISPIRATI ALLA TRADIZIONE MONASTICA GRECO-ORIENTALE.

Nel 1458 un visitatore greco, inviato in Calabria dal cardinale Bessarione, riportò una lunga e desolante relazione sullo stato di abbandono e decadenza in cui versavano molti monasteri, un tempo floridi centri di spiritualità e di cultura greca nell’Italia meridionale. Questa relazione costituisce l’ultimo atto di un periodo, durato circa otto secoli, di vita monastica bizantina in territorio italiano e in particolare in quelle regioni che subirono il dominio politico diretto, o anche solo l’influsso culturale, dell’impero bizantino.

L’EREDITA’ MAGNO-GRECA 

La nascita e la diffusione del monachesimo greco sono legate innanzitutto, com’è naturale, alla presenza di popolazione di lingua e di cultura greca nelle regioni in cui il fenomeno si sviluppò. Tale presenza affonda le sue radici molto indietro nei secoli fino quasi a collegarsi alla prima colonizzazione greca dell’Italia meridionale, quando alcune regioni  della nostra penisola erano divenute così floride economicamente e culturalmente vivaci, da essere a buon diritto considerate le migliori colonie della Grecia antica.  Secondo alcuni studiosi la tradizione magno-greca sarebbe sopravvissuta nell’Italia meridionale, seppure tacitamente e sotto forma di substrato linguistico, per tutta la tarda antichità e fino all’alto Medioevo, quando nuove immigrazioni dall’Oriente greco-bizantino sarebbero giunte a rinsaldarla con la loro presenza, non massiccia ma culturalmente decisiva. Ricerche linguistiche sull’origine dei dialetti neogreci, parlati a lungo in aree appartenenti un tempo alla Magna Grecia, avrebbero dimostrato infatti la persistenza di alcuni termini risalenti a un greco più antico rispetto a quello bizantino. A questa ipotesi tuttavia se ne contrappongono altre che negano qualsiasi continuità linguistico-culturale nella grecità meridionale, a favore invece di una totale latinizzazione delle regioni del Sud durante i secoli della tarda antichità.

IN FUGA DALL’ORIENTE 

In ogni caso, a partire dai secoli VII-VIII, sembra sia stato proprio il monachesimo a favorire l’incremento della popolazione greca, soprattutto in Sicilia e Calabria, più limitatamente in Campania e in Puglia dove la graduale e continua integrazione longobarda finì per dare a queste terre una fisionomia marcatamente latina. Già nel corso del VII secolo è attestata in Sicilia la presenza di un  certo numero di igumeni ( in greco bizantino: “abati”), e quindi di monasteri greci. Sembra inoltre che Calabria e Sicilia durante l’VIII secolo siano state meta di immigrazioni di profughi orientali, vittime dell’iconoclastia, come dimostra il fatto che, tra il Consiglio di Nicea del 787 e quello di Costantinopoli dell’869, i monaci di Calabria erano tutti greci. Le invasioni persiane o arabe o anche le persecuzioni che nel secolo VII seguirono il monotelismo, corrente filosofico- religiosa che vedeva nel Cristo due nature ma un’unica volontà ( thélelema ), potrebbero aver causato immigrazioni di elementi di lingua greca e di religione ortodossa., provenienti dalle estreme province orientali dell’Impero come Siria, Palestina o Egitto.

COME SUL MONTE ATHOS 

Più tardi, nel 731, la decisione attribuita all’imperatore Leone III di aggregare le diocesi di Calabria  e di Sicilia al patriarcato di Costantinopoli, staccandole dalla dipendenza e dal controllo della Chiesa di Roma., dovette dare certamente nuovi impulsi all’elemento greco e quindi allo sviluppo del monachesimo di tradizione bizantina in quelle regioni, attraverso i frequenti spostamenti di monaci e prelati da Oriente verso Occidente.
Quando nella seconda metà del secolo IX i Bizantini riaffermarono il proprio dominio sull’Italia meridionale, sottraendo agli Arabi numerose cittadine costiere in Puglia, Calabria e Campania e ai Longobardi grandi porzioni di territorio interno tra Puglia e Basilicata, il monachesimo greco si espanse allora notevolmente, contribuendo anzi in maniera decisiva al processo di “bizantinizzazione”, vale a dire di integrazione e di penetrazione della lingua e della cultura greca nel tessuto sociale delle regioni poste sotto la diretta amministrazione bizantina.
Piccoli ma numerosi monasteri sorsero allora nelle aree più fortemente grecizzate dal punto di vista demografico: la Sicilia orientale, rimasta più a lungo bizantina durante la conquista araba della parte centro-occidentale dell’isola; la Calabria meridionale nella zona a nord di Reggio e settentrionale al confine con la Lucania; e infine la Terra d’Otranto in Puglia. In particolare sul confine calabro-lucano, tra le montagne del cosiddetto Merkourion, erano sorte così tante unità eremitiche e piccoli monasteri, ben riparati grazie alle asperità naturali del territorio, da far assimilare questa zona ad altre aree monastiche dell’Impero bizantino, come il monte Athos o il monte Olimpo in Bitinia.
Tuttavia curiosamente, forse a causa delle incessanti incursioni saracene e delle battaglie sostenute dai Bizantini contro i tentativi di conquista degli imperatori sassoni, fu durante i primi decenni di dominazione normanna che il monachesimo greco visse il suo periodo di massimo splendore.

SPLENDORE E DECADENZA

Protetti dalla politica filogreca della moglie del gran conte Ruggero, Adelaide, e di suo figlio Ruggero II, i  monaci greci fondarono nuove chiese e grandi monasteri, ornati di magnifiche suppellettili e di libri lussuosi, e ne ingrandirono i possessi attraverso generose donazioni regie o di altri nobili normanni. In questo periodo naquero e si svilupparono le più grandi abbazie greche del Meridione: SS. Salvatore a Messina, S. Maria del Patirion (“dei Padri”) a Rossano Calabro, SS. Elia e Anastasio a Carbone, vicino Potenza, e S. Nicola di Casole presso Otranto. Esse furono fondate come punto di confluenza e di controllo dei numerosi monasteri sorti già durante il periodo bizantino.
E tuttavia proprio con esse cominciò la lenta decadenza del monachesimo greco: rimaste uniche rappresentanti della cultura e della spiritualità orientali in territorio occidentale, proprio quando si acuivano i grandi contrasti dottrinali e politici tra Oriente e Occidente, lentamente furono costrette a cedere il passo davanti alle abbazie latine, meglio protette e favorite dall’attenzione dei potenti.

ASCESI E SANTITA’

Le prime testimonianze sulla vita di comunità di monaci greci nelle regioni dell’Italia meridionale ci giungono dall’agiografi, un genere letterario che in questo ambiente monastico godette di particolare fortuna. Tra il             IX e il XII secolo furono scritte numerose Vite di santi monaci che vissero e operarono perlopiù tra Sicilia e Calabria, ma in qualche caso anche in Basilicata e in Campania, spinti dalle incalzanti incursioni saracene che in quei secoli infestavano le coste calabresi. Gli autori di questi racconti erano monaci più o meno contemporanei dei santi stessi, anonimi discepoli talvolta testimoni oculari degli eventi narrati. Conformemente alla spiritualità monastica bizantina, caratterizzata da una forte predilezione per l’ascesi e per l’eremitismo, i monaci cosiddetti “italo-greci” – termine moderno che ne riassume la doppia appartenenza, geografica e culturale – si raggruppavano attorno alla figura di un asceta, già considerato santo in vita, che a sua volta aveva condotto una rigida esistenza nell’isolamento e nella preghiera prima di accettare seguaci.  Digiuno, solitudine e intense suppliche erano le regole di vita di questo campione della fede che, dopo anni trascorsi da solo a pregare in una spelonca o in una capanna tra i boschi, decideva infine di trasmettere alla comunità la sua saggezza e la disciplina a cui si era formato.

SENZA REGOLA 

Nasceva così un piccolo cenobio (da Koinòbion = vita in comune), dedicato il più delle volte alla Madre di Cristo, a cui i Bizantini erano tanto devoti, o allo stesso santo fondatore. Qui ogni monaco svolgeva una propria mansione, attenendosi sempre a tre principi basilari: l’ hesychia , ovvero il silenzio e la pace contemplativa; l’ apotagé , l’isolamento e il distacco da ogni bene terreno; l’ hypotagé , la sottomissione a un padre spirituale. E in effetti in queste comunità, almeno nella loro fase iniziale, non si trova nessuna regola precisa: tutto è affidato al carisma ascetico del fondatore. In seguito, a partire dal secolo XI e probabilmente sotto l’influsso del monachesimo occidentale, i monaci italo-greci organizzeranno la propria disciplina con l’uso di Typikà , libri di raccolte di regole quotidiane e di preghiere particolari a uso esclusivo del proprio monastero. Per il monachesimo orientale, non esisteva, infatti, nessuna “Regola” canonizzata che inquadrasse i monaci in un preciso ordine, come avveniva, invece, per i Benedettini in Occidente.
Dopo la preghiera, la principale occupazione giornaliera di questi monaci era l’attività scrittoria e di copiatura, soprattutto di opere di contenuto teologico e patristico, come gli scritti ascetici di Basilio Magno, le omelie di Giovanni Crisostomo, le vite dei monaci palestinesi di Cirillo di Scitopoli.

INVENTORI DI SCRITTURE 

Sono molti i manoscritti provenienti dai monasteri greci dell’Italia meridionale, oggi custoditi per lo più nella Biblioteca Vaticana. Si tratta di codici di pergamena piuttosto rozza nella qualità, ma confezionati con cura e abbelliti da un’ornamentazione squisitamente provinciale, più semplice rispetto a quella costantinopolitana.
Quanto alla scrittura i monaci italo-greci sono stati dei veri inventori di stili, nel novero delle varie scritture greche dell’Impero bizantino. Sono scritture minuscole accurate, talvolta eleganti, come quella detta “ad asso di picche” o la minuscola otrantina, che in alcuni casi hanno reso inconfondibile la provenienza dei codici da questo particolare ambiente monastico.

Articolo di Adele Cilento

A cura di Alessio Cittadini 

Fonte: http://www.imperobizantino.it/old/BisanzioSudItalia-art12.htm

Foto: Rete

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