La pittura dal Duecento a Giotto

Giotto - Cappella degli Scrovegni - Padova

Giotto – Cappella degli Scrovegni – Padova

La pittura in Italia agli inizi del Duecento è dominata dalla cultura bizantina: quest’ultima trovò un’ampia diffusione su tutto il suolo italiano e si caratterizzò per le sue immagini molto solenni, quasi austere, ma spesso non prive di una certa raffinatezza e soprattutto diversificate su base regionale, a seconda delle diverse influenze.

A partire dal terzo decennio del XIII secolo però gli artisti iniziarono a riflettere sulla pittura di stampo bizantino, per poterla rendere più moderna e più aggiornata: questo avvenne soprattutto sotto la spinta della scultura gotica che, partendo dall’arte antica e ricevendo suggestioni dalla contemporanea scultura gotica francese, si dimostrò più “evoluta” rispetto alla pittura coeva raggiungendo risultati di dinamismo e drammaticità ancora sconosciuti in pittura.

Dal Duecento a Giotto

Il primo artista a tentare una svolta fu Giunta Capitini da Pisa, detto Giunta Pisano (Pisa, notizie dal 1229 al 1254), autore di diversi croci dipinte nella tipologia del Christus patiens, ovvero il Cristo sofferente sulla croce, che differisce dal più antico tipo iconografico del Christus Triumphans, vale a dire il Cristo trionfante, ancora in vita sulla croce (il primo esempio di Christus Triumphans fu il Crocifisso di maestro Guglielmo, 1138, Sarzana, Duomo).

Giunta Pisano Crocifisso di San Domenico, Bologna

Osservando le croci dipinte di Giunta Pisano, si può notare come il corpo di Cristo assuma, nel tempo, una carica drammatica sempre più elevata (come nel Crocifisso di san Ranierino, 1250, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), che esula dai dettami dell’arte bizantina. E il tipo del Christus patiens nel Duecento riesce ad avere la meglio sul Christus triumphans per il fatto che gli artisti vollero iniziare a rappresentare il figlio di Dio più nella sua dimensione umana che nella sua dimensione divina (caratteristica tipica dell’arte bizantina).

Lo stesso tentativo di superamento del bizantinismo, ma condotto in modo diverso, fu portato avanti da Coppo di Marcovaldo (Firenze, 1225 circa – 1275 circa) che, anche alla luce dei risultati raggiunti da Giunta Pisano, rivisitò profondamente le forme e le volumetrie dell’arte del tempo raggiungendo risultati di elevata monumentalità e riuscendo a dare, appunto, una nuova volumetria alle sue figure: con i suoi panneggi, Coppo di Marcovaldo voleva far comprendere all’osservatore che sotto la veste del personaggio si celava un corpo (è il caso della Madonna del Bordone, 1261, Siena, Santa Maria dei Servi).

Tuttavia, il pittore che per primo superò il classicismo bizantino fu Cenni di Pepo, meglio noto come Cimabue (Firenze, 1240 ca. – Pisa, 1302): Cimabue, che lavorò in diverse città tra cui PisaArezzo e Firenze, partì dai risultati ottenuti da Giunta Pisano e conferì la stessa tensione emotiva ai propri crocifissi, ma riuscì a infondere al corpo di Cristo un naturalismo nuovo per la pittura del tempo, che gli varrà la fama di maggior genio della pittura prima di Giotto. Lo stesso ragionamento vale per le Madonne in trono del pittore fiorentino, che dimostrano ancora una ricerca di realismo sconosciuta alla pittura che lo aveva preceduto (Maestà di Santa Trinita, 1290 circa, Firenze, Uffizi).

Cimabue - Maestà di Santa Trinita, 1290 circa, Firenze, Uffizi

Cimabue – Maestà di Santa Trinita, 1290 circa, Firenze, Uffizi

Così, guardando anche ai risultati che la scultura stava raggiungendo al tempo, Cimabue preparò la strada per la rivoluzione giottesca: Giotto di Bondone (Vespignano, 1267 – Firenze, 1337), agli inizi del Trecento, riuscì a colmare il divario che esisteva tra la pittura e la scultura, ma soprattutto riuscì a superare in modo definitivo il bizantinismo dell’arte precedente, a conferire alle sue figure una solidità mai vista prima e a dare una prima risoluzione al problema di raffigurare le tre dimensioni su supporti che avevano solo due dimensioni, grazie al sapiente dosaggio dei colori nei chiaroscuri (che raggiunsero una varietà di sfumature che nessun pittore prima era riuscito a raggiungere) e alla prima elaborazione di una primordiale prospettiva creando, nei suoi dipinti, uno spazio misurabile. E inoltre, Giotto fu un abilissimo narratore, come si evince facilmente dai suoi affreschi, su tutti quelli della Basilica di San Francesco ad Assisi e della Cappella degli Scrovegni.

Enrico Scrovegni offre alla Madonna un modellino della cappella

Tuttavia, a proposito degli affreschi della Basilica Superiore di San Francesco, è interessante fare un accenno alla questione giottesca, termine con cui si identifica tutta quella serie di problemi riguardanti l’attribuzione degli affreschi.

Sebbene da sempre conosciuti come opera di Giotto, non è possibile stabilirlo con certezza in quanto mancano le basi documentarie per poter assegnare con sicurezza a Giotto tali affreschi. La paternità giottesca fu messa in discussione per la prima volta nel 1791 da parte di Guglielmo Della Valle, e da allora diversi studiosi hanno portato il loro contributo, chi continuando a sostenere che gli affreschi della Basilica Superiore siano opera di Giotto, chi proponendo altri nomi (per esempio, quello di Pietro Cavallini, che in certe sue opere dimostra una stretta vicinanza ai modi giotteschi: come negli affreschi di Santa Cecilia in Trastevere a Roma, 1300 circa). I problemi sono ancora aperti, e si tratta di problemi di non poco conto in quanto si tratta di stabilire il nome del pittore che di fatto superò il bizantinismo e rivoluzionò la pittura occidentale.

Ritratto di Giotto, anonimo del XVI secolo, Louvre

Ritratto di Giotto, anonimo del XVI secolo, Louvre

La questione tuttavia non intacca i profondi meriti di Giotto, che con la Cappella degli Scrovegni dimostrò di superare i risultati di Assisi, con gradazioni cromatiche accentuate, maggiore morbidezza nella stesura (e quindi maggior naturalismo), e una spazialità migliorata con i paesaggi che partecipano maggiormente alle composizioni.

Pietro Cavallini (Roma, notizie dal 1273 al 1321) fu il più importante esponente della cosiddetta scuola romana, ovvero la scuola che contende il primato alla scuola fiorentina nell’ambito della questione giottesca (e quindi nella pittura di fine Duecento-inizio Trecento).

Pietro Cavallini – Annunciazione – Santa Maria in Trastevere

La scuola romana, oltre a Cavallini, contò sulla presenza di altri due importanti artisti, ovvero Jacopo Torriti (Roma, fine XIII secolo – inizi XIV) e Filippo Rusuti (notizie dal 1297 al 1317). Il primo fu un pittore e mosaicista che si muoveva ancora nel solco della tradizione bizantina (traeva però importanti suggestioni dall’arte tardo antica), ma nuovo era il suo interesse per motivi che talvolta erano molto lontani dalla ieraticità bizantina e che incontravano invece un gusto più marcatamente naturalista. Questo accade, per esempio, nei mosaici dell’abside di Santa Maria Maggiore a Roma dove, nel bordo inferiore, notiamo una sorta di fiume in cui sono rappresentati velieri e animali. Simile al percorso di Torriti fu quello di Rusuti, che seppe però ispirarsi anche all’arte dello stesso Cavallini, anche se gli mancò la delicatezza di quest’ultimo. Anche Cavallini si ispirava all’arte tardoantica, ma in alcune sue opere, come i già citati affreschi della chiesa romana di Santa Cecilia in Trastevere, vediamo una sensibilità nuovissima che attesta la vicinanza di Cavallini agli affreschi della Basilica Superiore di Assisi. Se tuttavia la critica più tradizionale pensa che Cavallini abbia realizzato questi affreschi sulla scia delle conquiste di Giotto, la questione giottesca pone tale visione in dubbio, e gli “anti-Giotto” vedrebbero in Pietro Cavallini il vero grande innovatore della pittura.

 

Fonte: http://www.finestresullarte.info/storiadellarte/dal-duecento-a-giotto.php

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