La Riforma agraria del ’50



Negli anni dopo l’unità in Italia si formarono, in modo truffaldino, grandi possedimenti agrari, a danno delle terre demaniali e delle proprietà della Chiesa. 
Queste terre non venivano coltivate con metodi moderni; la loro produttività era scarsa, ma sufficiente a garantire all’agrario benessere, vista la grande estensione e il basso costo della manodopera. 
Di contro una massa enorme di contadini viveva in condizioni disperate.
Alla fine della guerra in tutta Italia uomini e donne di tutte le età, spinti dalla miseria, organizzarono manifestazioni di protesta per chiedere la terra. Spesso a questi scioperi si rispondeva con le cariche violente della polizia, soprattutto quando ministro dell’interno era Scelba.
Nel 1950 la DC si convinse che era necessaria una riforma. Ecco la storia.
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LA RIFORMA AGRARIA

Le tensioni sociali e le pressioni della sinistra democristiana (Fanfani, Dossetti, La Pira) spinsero De Gasperi ad affiancare alla politica repressiva di Scelba alcune caute riforme. Ne fu l’emblema la riforma agraria, attuata attraverso tre leggi approvate nel corso del 1950.


Le occupazioni delle terre del biennio 1949-50 avevano messo in luce una volta di più le disperate condizioni dei contadini meridionali. Di tale disperazione si alimentavano i successi elettorali dei partiti di destra, così come la capacità di mobilitazione dei comunisti. Ciò non poteva che preoccupare la DC, che rischiava di assistere all’erosione del proprio consenso al Sud e che sull’approccio alla «questione meridionale» vedeva acuirsi le divisioni al proprio interno. La riforma fu il tentativo di rispondere alle grandi lotte contadine del Meridione non soltanto con il ricorso alla violenza repressiva.
Obiettivo principale della riforma agraria era la creazione di una piccola proprietà contadina attraverso l’esproprio del latifondo improduttivo. Furono espropriati circa 750.000 ettari, la maggioranza dei quali nelle regioni meridionali e nelle isole, ma anche in Toscana, nel Lazio e nel Delta padano. I contadini ricevettero piccoli appezzamenti di terreno in cambio di un modesto affitto da corrispondere per trent’anni, dopo di che sarebbero divenuti proprietari del fondo. Gli obiettivi della riforma erano sostanzialmente due. Da una parte si trattava di dar vita a un solido ceto di piccoli proprietari, garanti degli equilibri sociali e quindi su posizioni fortemente anticomuniste. Questi piccoli coltivatori sarebbero dovuti divenire il nerbo della forza democristiana al Sud. Dall’altra si voleva consentire un migliore sfruttamento delle terre con il conseguente aumento della loro produttività e quindi della ricchezza e del tenore di vita dei ceti contadini.

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Dal punto di vista economico, la riforma ebbe esiti diversi a seconda delle realtà in cui fu attuata. I risultati migliori si ebbero nella Maremma e nel Polesine, quelli peggiori in Sicilia e in Calabria.
Quasi ovunque la terra espropriata fu insufficiente a soddisfare le richieste dei contadini: molti non ricevettero alcun terreno, mentre ai più fortunati furono assegnati appezzamenti talmente piccoli da risultare il più delle volte sufficienti al solo autosostentamento, senza permettere la creazione di avanzate imprese agricole.
Già nei decenni precedenti le campagne meridionali avevano conosciuto un’eccessiva frammentazione della proprietà. Tra il 1919 e il 1947, in Italia la piccola proprietà coltivatrice era quasi raddoppiata, giungendo a rappresentare al Sud ben il 40% della superficie produttiva in mano ai privati. Si trattava di proprietà ridottissime e coltivate spesso in maniera primitiva. L’agricoltura meridionale non avrebbe avuto bisogno di perseguire a tutti i costi l’aumento dell’area contadina, ma piuttosto di riformare gli antiquati contratti agrari e di intervenire con cospicui investimenti per far aumentare la produttività dei terreni.

Assai utile sarebbe stata la promozione della media proprietà dedita a colture specializzate, che altrove in Europa rappresentava il fulcro dell’agricoltura più evoluta, mentre in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, risultava schiacciata dalla forte polarizzazione tra la grande possidenza fondiaria e la piccola proprietà. La riforma agraria portò invece all’ulteriore aumento di «microfondi» agricoli a basso rendimento, nati dall’esproprio di terreni spesso poveri e di difficile coltivazione e senza che ai neoproprietari venisse fornito il necessario supporto tecnico.
Neppure i soldi incassati dai possidenti espropriati valsero a fornire un impulso allo sviluppo del settore agricolo, poiché in maggioranza furono indirizzati verso speculazioni immobiliari urbane o in depositi bancari. La riforma «congelò» per qualche anno la condizione dell’agricoltura meridionale, bloccando solo temporaneamente l’esodo da campagne impossibilitate a sostenere una crescente popolazione rurale, la cui eccessiva pressione rappresentava il primo ostacolo allo sviluppo agricolo del Sud.

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Da “STORIA DELL’ITALIA REPUBLICANA (1948 – 2008)” di A. Di Michele, Garzanti

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