LA GRANDE GUERRA – In nome dell’emergenza si azzerano i diritti dei cittadini

 

Le classi dominanti sono soliti servirsi della guerra come strumento di controllo sociale: il “nemico” è alle porte,  bisogna combattere uniti per la “patria”! Lo Stato passa al servizio di generali ed imprese, che devono produrre tutto per la macchina bellica (con profitti spaventosi).

I diritti di contadini, operai, donne; la giustizia sociale, le regole della democrazia, le stesse libertà elementari del cittadini saltano.

Di là c’è il nemico, la “patria” chiedi sacrifici . Anche della vita .  

Ma non a tutti…

La storiella delle terre irredente è fumo, sotto c’è grasso che cola

Il brano che segue, preso da un libro molto bello, “SOLDATI E PRIGIONIERI ITALIANI NELLA GRANDE GUERRA” di Giovanna Procacci, spiega questo meccanismo nell’Italia della Prima guerra mondiale.

 

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Durante la prima guerra mondiale in Italia il potere militare acquisì nei confronti del potere civile una posizione di forza senza precedenti e senza paragoni negli altri paesi alleati.

La sua sfera di influenza si estese infatti non solo al fronte, ma anche in territori interni al paese, le cosiddette zone di guerra, considerate strategiche militarmente, o particolarmente pericolose dal punto di vista dell’ordine pubblico, nelle quali l’autorità militare pose sotto la propria direzione l’intera vita civile.

Al potere militare vennero delegate inoltre fondamentali competenze riguardanti tutto il territorio nazionale: in campo economico e sociale, il controllo della produzione industriale e dei conflitti del lavoro; in campo politico, la vigilanza sull’ordine pubblico e la gestione di gran parte della censura sulla corrispondenza; in campo giudiziario, la competenza a decidere da parte dei tribunali militari su una vasta serie di reati compiuti, oltre che da militari, anche da civili.

Questa situazione fu favorita dal presidente del Consiglio in carica al momento della decisione dell’intervento, Antonio Salandra, il cui progetto di restaurazione autoritaria contemplava appunto un’estensione all’interno della società della sfera d’azione del potere militare – già prima della guerra aduso comunque in Italia a svolgere compiti di difesa sociale e di ordine pubblico.

Una serie di norme eccezionali, emanate in forma di decreto al momento dell’entrata in guerra, limitarono fortemente i diritti di libertà dei cittadini e sancirono l’ingerenza militare in tutta la vita del paese, dando il via a un rapido processo di involuzione antidemocratica, giustificato con la necessità di impedire ogni fattore di intralcio alla scelta interventista.

L’ampliamento del potere militare era del resto in consonanza con quegli obiettivi di espansione economica e territoriale che, insieme alla restaurazione di una politica di forte controllo sociale all’interno del paese, la classe dirigente si era proposta di raggiungere attraverso la guerra.

Questa caratterizzazione aggressiva del conflitto determinò un rafforzamento della vocazione repressiva del potere militare, e, insieme, ne condizionò per lungo tempo in senso offensivo le decisioni strategiche.

Come è noto, la guerra italiana fu infatti contraddistinta al fronte da una disciplina spietata, usata come mezzo primario per ottenere l’obbedienza delle truppe, e da una esasperata strategia di attacco, che, prolungata oltremisura, produsse spaventose e inutili perdite umane.

Luigi Cadorna

Questo indirizzo, legato alla concezione militare del comandante in capo, generale Luigi Cadorna, non subì modifiche, almeno fino a Caporetto, se non nel senso di un suo progressivo inasprimento, in rapporto ai deludenti esiti delle offensive.

Il potere civile non riuscì nei primi anni di guerra a influire sulle scelte del Comando supremo [da ora cs]; fino al 1918 – fino cioè alla sostituzione di Cadorna con Armando Diaz dopo il disastro di Caporetto – l’esecutivo non fu in grado in Italia di interferire nelle decisioni militari, come invece avveniva negli altri paesi belligeranti.

Durante il periodo della neutralità Cadorna era riuscito infatti a far modificare in proprio favore il rapporto gerarchico che in tempo di pace vigeva tra il cs e l’esecutivo: in luogo della dipendenza del capo di stato maggiore dal ministro della Guerra, previsto nell’ordinamento costituzionale italiano per il tempo di pace, durante la mobilitazione era stata stabilita l’assoluta preminenza del cs, con la conseguente esautorazione del ministro; questi divenne un semplice portavoce dello stesso comandante in capo, che ne decideva la nomina e l’eventuale sostituzione.

Contemporaneamente il governo Salandra suffragò il principio per cui l’amministrazione militare doveva di fatto essere svincolata da qualsiasi controllo da parte del parlamento, cosicché nessun limite fu imposto alle decisioni strategiche e di gestione militare del cs.

Questa enorme autorità affidata al potere militare – non controllabile, e concentrata in una personalità autoritaria e inflessibile come Cadorna -, divenne presto un problema per lo stesso governo.

 

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