Perdonami, compagno!

Il brano che segue è tratto dal romanzo “Niente di nuovo sul fronte occidentale” dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque.

Il protagonista è Paul Bàurner, un giovane studente tedesco che, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola volontario insieme ad alcuni suoi compagni di scuola e si trova a combattere sui fronte occidentale, quello che oppone i tedeschi ai francesi.

«Questo libro» scrive Remarque in apertura del suo romanzo, «non vuole essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che un  tentativo di raffigurare una generazione la quale, anche se sfuggì alle  granate, venne distrutta dalla guerra”.

In effetti il libro di Remarque è fondamentalmente un atto di critica nei  confronti del modello di educazione tedesco che ha ingannato un’intera generazione dì giovani, mandandoli a morire in una guerra atroce e  senza senso, ma nello stesso tempo è testimonianza dei sentimenti di fratellanza, di solidarietà che nascevano tra i soldati nelle trincee e nei  campi di battaglia.

 Questo  è uno degli episodi più drammatici del romanzo. Il giovane protagonista, nel corso di una spedizione notturna, trova riparo in una buca creata dall’esplosione di una bomba. Ma ecco, i improvvisamente, piombare accanto a lui un soldato nemico…

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……………………..

Si è fatto un poco chiaro. Sto per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand’ ecco qualcosa ruzzola giù – un tonfo in acqua – un corpo  pesante è cascato nella buca, addosso a me…

Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano  bagnata, viscida…

L’altro rantola. Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un  grido, un tuono, ma sono soltanto le mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora: deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono a un tratto così  debole, che non posso più alzar la mano contro di lui.

Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi sbarrati, il coltello in pugno, pronte, se si muove, a saltargli addosso un’altra volta… Ma non farà più nulla, lo sento dal suo rantolare.

In confuso posso vederlo. E provo un desiderio solo, venirmene via. Se non parto subito, diventerà troppo chiaro: già ora è difficile. Ma quando tento di alzare la testa, vedo già che è impossibile. Il fuoco delle mitragliatrici è così fitto, che sarei crivellato prima di fare un sol balzo.

Faccio la prova col mio elmo, sollevandolo un poco per constatare la radenza del tiro. Dopo un istante una pallottola me lo strappa di mano: dunque il fuoco passa proprio a fior di terra. E non sono abbastanza lontano dalla posizione nemica perché qualche tiratore scelto mi colga subito, al primo tentativo di fuga.

L’aria schiarisce sempre più. Aspetto febbrilmente un attacco dei nostri. Le nocche delle dita sembrano voler bucare la pelle, con tanto spasimo stringo i pugni, supplicando che il fuoco cessi e che i miei  compagni arrivino.

I minuti stillano a uno a uno. Non oso più guardare l’oscura figura dell’altro che è con me nella buca. Guardo fissamente più in là, e aspetto, aspetto.

I colpi sibilano, formano una rete d’acciaio sopra il mio capo, e non cessano mai, non cessano mai.

Guardo la mia mano insanguinata e all’improvviso provo un senso di nausea: prendo un po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca e non vedo più il sangue.

II fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti. Certo i nostri mi hanno dato per morto da un pezzo.

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È giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo le orecchie, ma poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo più gli altri rumori.

La figura dinanzi a me fa un movimento. Trasalisco e involontariamente guardo da quella parte. E i miei occhi rimangono fissi, come se fossero inchiodati. È un uomo con un paio di baffetti; la testa gli pende da un lato e posa inerte sul braccio a metà piegato. L’altra mano preme il petto, nero di sangue.

È morto, dico a me stesso: deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino di tre metri, un lungo, terribile viaggio.

Finalmente eccomi presso di lui.

Allora apre gli occhi: deve avermi sentito e mi fissa con un’espressione di indicibile orrore. Il corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di fuggire; in uno spaventoso orrore della morte… e di me.

Io mi accascio a terra, sui gomiti: «No, no» mormoro.

I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi fissano così.

Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di lui, scuoto la testa e mormoro: «No, no, no» e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio aiutare, e gli sfioro la fronte.

A quel tocco gli occhi sembrano ritrarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero’ e cerco di poggiare più comodamente la sua testa.

La bocca è semiaperta e si sforza di. formulare parole. Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma, raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra.

Egli la beve. Vado a prenderne ancora. Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo se si può.

Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo debole. La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla.

Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo v’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: «Ma no, ma ti voglio soccorrere, compagno, camarade, camarade…». E ripeto con insistenza la parola, perché la capisca.

Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre sotto le bende; le comprimo e il ferito geme.

È tutto quello che posso fare. Ora non resta altro che aspettare, aspettare… .

Che ore! Il rantolo ricomincia: come è lento a morire un nomo!

Perché lo so: salvarlo non è possibile.

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È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da vicino, e la cui morte sia opera mia.

Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. E duro starsene qui, doverlo vedere, doverlo udire…

Alle tre del pomeriggio è morto.

Respiro: ma per poco tempo. Il silenzio mi sembra ben presto anche più insopportabile che quel gemere di prima. Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare.

Mi rivolgo al morto e gli dico:

«Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula eli concetti del mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo il tuo volto e quanto ci somigliamo.

Perdonami, compagno!

Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire…

Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico?

Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come  Kat, come Alberto.

Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare».

Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro è fitto, non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è impossibile.

“Niente di nuovo sul fronte occidentale” dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque.

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Rosetta Zordan, “II Narratore”, Fabbri Editori ©2008 RCS Libri S.p.A. – Divisione Education amicascuola.it

Foto: Rete

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