Storia della salina di Lungro – (SECONDA PARTE)

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Il lavoro era pesante come i decenni passati, il trasporto del sale avveniva come sempre a spalla ed il Governo non prendeva neanche in considerazione l’idea di sostituire tale sistema con dei mezzi meccanici, in uso peraltro già nelle altre miniere del Regno.
Nel 1871 la produzione nella salina di Lungro aumentò di molto per l’introduzione delle mine che vennero disposte con rudimentali trapani a mano. Nel 1880 la produzione raggiunse addirittura 60.000 quintali di sale annui e nel 1882, 73.000. Il 1882 fu l’anno di maggior splendore della miniera che contava 400 operai e 30 lavoratori all’esterno.
Ma punto dolens, nonostante questi dati positivi, non vi fu da parte delle autorità, un impegno concreto per aumentare i salari e migliorare le condizioni di vita e di lavoro all’interno della miniera. I salinari instancabili come formiche, pazienti, salivano e scendevano in doppia fila, quel migliaio e mezzo di gradini, nudi, trafelati, ansanti; salivano portando sul dorso almeno quaranta chilogrammi di sale. Altri operai sfaldando dalla roccia con grande abilità dei grossi massi di sale che cadando con grande rumore al suolo, si rompevano in pezzi minori e davano poi da fare ai cernitori.
Il trasporto a spalla era il più economico e gli operai erano allora veramente insufficienti: i nove operai di prima classe percepivano 1 lira e 70 centesimi, quelli di seconda classe che erano 27 percepivano 1 lira 30 centesimi, gli altri minatori erano pagati a cottimo a seconda della produzione, fra questi, gli operai di terza classe che erano 149, percepivano in media 1 lira al giorno, quelli di quarta 0,75 centesimi, quelli di quinta 0,50, i picconieri percepivano 1 lira e 30 centesimi ed infine gli avventizi che percepivano 0,50.
Gli operai non lavoravano tutti i giorni dell’anno; erano, infatti, previste 280 giornate lavorative, di conseguenza è evidente come la maggioranza degli operai dovesse vivere con meno di una lira al giorno.
Di fronte a queste drammatiche condizioni di vita, i salinari non riuscirono mai ad esercitare una pressione organizzata contro i dirigenti e contro il Governo centrale.
Le loro risposte avvenivano purtroppo a livello individuale con atti di diserzione specie tra le fila dei trasportatori; i salinari oltre che cercare di far migliorare la proprie condizioni di vita dovevano preoccuparsi di conservare soprattutto il posto di lavoro. Infatti, nonostante il notevole aumento della produzione di sale, per il costante pericolo che la miniera rappresentava e per i notevoli costi di produzione, il Governo era fermamente intenzionato a chiuderla.
Lo Stato aveva infatti già deciso la chiusura o quantomeno il ridimensionamento della salina. Il motivo come già detto era semplice: il sale minerario costava allo Stato più del sale marino. Solo che la miniera non potette essere chiusa in quanto lo Stato dovette tener conto dei diritti acquisiti dai lavoratori e delle esigenze delle popolazioni locali.
Si decise fin da allora di applicare la tattica della morte lenta, alla quale dettero una mano parecchi esponenti delle autorità locali, ma sempre ligie a risparmiare, per avere dei riconoscimenti e dei favori in cambio.
Venuta quindi meno la fiducia nel Governo centrale e nei dirigenti della miniera, gli operai nel 1889 costituirono una “Cooperativa di consumo”, versando una lira ciascuno, col compito di fornire sale di ottima qualità e di eliminare intermediari, di difendersi dall’usura e dalle speculazioni e di migliorare le condizioni di vita degli operai, liberandoli dalle strette degli uscenti e degli usurai del luogo.
La Cooperativa che contava su un capitale iniziale assai modesto, appena tremila lire, fu però boicottato con impegno e costanza e non ebbe vita a Lungro. Fra gli operai si creò quindi una tensione ed una “rabbia” notevoli.
Gli aumenti salariali promessi non arrivavano, non si vedeva la commisione del Governo, già in miniera, da tempo, non di provvedeva a riparare i punti critici; vi erano pericoli di crolli ed i minatori che andavano in pensione non venivano sostituiti con nuovo personale, né tantomeno con macchine. Ci si avviava inesorabilmente verso la chiusura della miniera.
La costruzione di una nuova strada che congiungesse Lungro con lo Scalo di Spezzano Albanese Terme, non fu realizzata nemmeno a livello progettuale; della costruzione di un troncone ferroviario che collegasse il paese, per l’enorme costo, non se ne parlò più. Il trasporto continuò ad essere effettuato per la strada di sempre che rimaneva quasi impraticabile e scomoda a causa dei pendii dove dove i traini procedevano con fatica.
I salinari di Lungro, nel 1901 costituirono, appoggiati da alcuni socialisti e democratici locali, la “Società Operaia Salinaia di Mutuo Soccorso”; i suoi scopi erano sussidi per malattia, per pensioni di vecchiaia o cronicità; ben presto la società andò oltre gli scopi prefissi, diventando di fatto un agguerrito centro di dibattito politico ed un punto di riferimento per l’organizzazione delle lotte.
Le autorità ricorsero, nel corso di quegli anni, anche a dei licenziamenti che avevano lo scopo oltre che di boicottare, anche e soprattutto di impaurire  i lavoranti. Ma le condizioni dei lavoratori erano ormai estremamente precarie. Pensionamento, salari, ambulatorio per il pronto soccorso, assistenza medica, aumento del personale, ammodernamento della salina, nessuno di questi problemi era stato, come si è ripetutamente visto, affrontato, e tutto rimaneva fermo al vecchio contratto del 1802.
All’inizio del secolo, pertanto, partirono dalla miniera e si organizzarono alcune dure lotte che durarono un decennio. Fra queste, per gli echi che ebbe nella pubblica opinione e per la sua durata, va ricordato il famoso sciopero del 1903. Per tali conseguenze fu ordinata un’inchiesta che mortificò l’allora Amministrazione Comunale in combutta con l’Amministrazione dei Monopoli di Stato, reintegrando nei loro diritti gli operai della salina.
La lotta del 1903 era stata significativa ed “unica”, per il suo carattere ed anche per i suoi risultati, nella storia del movimento operaio nella provincia di Cosenza, registrò la partecipazione di 250 operai e durò cinque giorni, causando una perdita di 1250 giornate lavorative.
Negli anni seguenti, il Governo lentamente smantellò la salina; vi furono ancora molte lotte ma ebbero però solo carattere difensivo e non raggiunsero mai l’intensità di quelle del 1903-1904. Le divisioni fra gli operai, il ricatto della disoccupazione e soprattutto l’emigrazione (sulla quale torneremo più avanti) avevano in pratica tolto ogni respiro alla lotta.
La salina di Lungro, nel 1921, l’unica rimasta in tutto il Distretto di Napoli produsse 4.901 tonnellate di salgemma contro le 35.053 prodotte dalle miniere siciliane di Caltanisetta, Catania, Girgenti e Palermo. Vi lavoravano 152 operai all’interno e 19 uomini e quindici donne all’esterno. La miniera aveva in funzione tre motori elettrici per una potenza di 145 cavalli vapore e di un motore a petrolio per una potenza di 80 cavalli vapore. Nei decenni successivi la miniera ebbe alterne fortune raggiungendo momenti, positivi solo sul finire degli anni ’50. Nel 1959 complessivamente 191 operai, negli anni successivi si assisterà ad un forte ridimensionamento e poi addirittura alla chiusura della stessa. Nel 1968 gli operai erano solo 68. Nel corso del secolo, del resto, tranne alcune nuove gallerie aperte non era cambiato niente all’interno della miniera; il sistema di accesso era rimasto quello dei secoli passati; si accedeva infatti ai cantieri di estrazione percorrendo a piedi ben 2000 gradini, tra salita e discesa si impiegavano ben due ore sulle otto lavorative previste.
Si può affermare, senza ombra di smentita, che il progresso tecnologico non ha mai toccato la miniera di Lungro. L’unico ammodernamento fu in pratica l’installazione di due locomotori che di fatto evitarono il lavoro pesante di tre operai in galleria, rimanevano però sempre gli operai impegnati a spingere i carrelli. Erano stati installati inoltre nei cantieri dei nastri trasportatori per sostituire il “leggendario” sacco a spalla, ma le condizioni di lavoro in miniera rimanevano le stesse, in quanto gli operai dovevano costantemente spostare quei nastri nei cantieri, perché altrimenti, a sera, con gli spari delle mine rimanevano distrutti dal materiale caduto.

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La miniera all’interno poteva contare su un gruppo elettrogeno diesel vecchio di cinquant’anni; era stato donato, infatti, dalla Regina Margherita che lo aveva fatto trasferire da Trieste a Lungro. Questo gruppo elettrogeno che era appena sufficiente per il sistema di illuminazione a volte non funzionava, quello di riserva era insufficiente ed in caso di sinistri non poteva assicurare l’illuminazione. L’argano vecchio di oltre quarant’anni rappresentava un pericolo per la sicurezza degli operai. I fabbricati erano pericolanti e mancava il personale per le riparazioni; a causa della soppressione della squadra di manutenzione e di quella addetta al drenaggio della acque, anche i servizi esterni erano carenti. Nel 1968 insomma la miniera si presentava in uno stato di completo abbandono e desolazione. Gli operai lavoravano ancora in condizioni disumane, e fatto molto importante, la manodopera all’interno di essa non era mobile come ai vecchi tempi.
La produzione per tutti questi motivi calò vertiginosamente da una produzione di 10.000 quintali mensili si passò ad una di 5.600.
Per decisione della Direzione, inoltre, era stato abolito l’impianto di macinazione e di raffineria; si creò dunque la stessa situazione dell’inizio del secolo. La direzione della salina, sempre ligia alla volontà del governo, si muoveva per il ridimensionamento degli impianti,  di fronte alle dure proteste degli operai, non rispondeva con una chiusura violenta, ma preparava una “morte per asfissia”.
Gli intenti del Monopolio erano precisi: chiudere la salina!
Il Monopolio inviò a Lungro il prof. Bianchi, il quale, dopo una rapidissima visita, stese una relazione nella quale, pur riconoscendo che sussistevano ancora rilevanti filoni di minerale, consigliava la chiusura della miniera.
Il Direttore della salina aveva già preparato da anni questa visita inaspettata abolendo del tutto la squadra dei tecnici addetti alla ricerca dei nuovi filoni, organismo questo, centrale e prioritario per la vita di una miniera. Anche questa volta gli operai di Lungro appoggiati dai sindacati e da alcuni partiti politici, che vedevano nella chiusura della miniera un ulteriore attacco allo sviluppo delle industrie nel sud ed alle risorse di una zona in cui la miniera era l’unica vera ricchezza, scesero in lotta. Gli operai in alcuni comunicati denunciarono la relazione Bianchi, considerata come una chiara manifestazione della volontà del governo di chiudere la salina ed accusarono il Direttore e la Direzione di avere, con iniziative errate, accresciuto il passivo della miniera: essi criticavano in particolare la soppressione dell’impianto di raffineria, il non avvenuto avvicendamento degli operai per i lavori pesanti come prescritto dalla legge, il blocco delle assunzioni, la soppressione della squadra di ricerca, l’abbandono dei servizi di manutenzione e non ultimo il tentativo di deprezzamento del minerale che era stato messo in commercio commisto di impurità.

Gi operai chiedevano:

  1. a) l’allestimento di una squadra idonea per stabilire l’entità dell’attuale giacimento;
  2. b) il ripristino delle condizioni di lavoro all’interno della salina;
  3. c) il ripristino degli impianti di macinazione, di raffinazione e di impacchettamento del sale;
  4. d) la valorizzazione del minerale, che pure era richiesto in maniera esclusiva tanto dalla popolazione del meridione (nel periodo invernale la gente comprava al mercato nero il sale a 600 lire il Kg., per il problema della macellazione dei suini), tanto da qualificate industrie farmaceutiche ed alimentari come l’Arrigoni, la Liebig, la Carlo Erba, la Pavesi le quali si fornivano, direttamente in salina;
  5. e) il miglioramento delle attrezzature tecniche della miniera specie per quanto riguardava l’incolumità degli operai;
  6. f) un’equipe di tecnici che studiasse un sistema idoneo per lo sfruttamento delle barde.

Per realizzare tutto questo era necessario sostituire il direttore della salina, che aveva dimostrato di non essere a livello della situazione con un elemento idoneo che fosse dotato di spirito di iniziativa e tenesse un rapporto corretto con gli operai.
Le richieste degli operai e del Comitato pro Salina costituitosi nel 1968 furono totalmente ignorante dal governo,nonostante l’imponente sciopero del gennaio 1969 che fu anche l’ultimo nella storia della salina.
Pochi anni dopo ed esattamente il 3 novembre 1976, la salina di Lungro, l’unica azienda statale esistente nella regione sin dalla occupazione Francese, viene chiusa definitivamente.
Nella salina di Lungro si produceva anche il sale raffinato in polvere, il sale comune veniva macinato a mezzo di uno dismembratore, tipo macina rapido ed il prodotto dopo essere passato attraverso trivelli per mezzo di apparecchi trasportatori e meccanici, passava in laboratorio, ove squadre di operaie lo confezionavano in sacchetti di carta della capacità di un quarto e di mezzo chilogrammo.
Il sale raffinato di Lungro dal 1898 con 1613 quintali di produzione si è andato man mano estendendosi nel consumo fino a raggiungere nel 1910 i 3248 quintali.
Oltre al sale raffinato si produceva anche il sale pastorizzato, sale refrigerante e sale per le industrie (pelli e sapone).
Le quantità del sale che si ricavavano dalla miniera di Lungro erano diverse, ma le commestibili per il consumo erano due: il bianco semitrasparente duro con frattura vitrea; il grigio scuro pure compatto ma non trasparente.
Vi era poi in piccolissime quantità pure il salgemma cristallino che trovavasi incastrato tra il sale comune; la sua origine si deve attribuire all’evaporazione di acqua infiltrata in camere vuote nella massa del sale comune.

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Da una descrizione riassuntiva generale si può dedurre che la miniera di salgemma di Lungro arrivava ad una profondità di 260 metri, aveva un raggio medio di 150 metri, in riferimento al pozzo di estrazione Bellavite; in effetti questa media scaturisce dalla considerazione che i vari piani andavano sempre più restringendosi mano a mano che si scendeva.
I vari piani di lavoro che a loro volta comprendevano un numero notevole di gallerie e cunicoli venivano raggiunti dagli operai per mezzo di scalini (2.000) che costituivano appunto il percorso su di un tracciato a mo’ di chiocciola.
Il pozzo Galli aveva esclusivamente funzione di areaggio. Il pozzo Bellavite, centrale, che comprendeva anche l’argano, aveva la funzione di sollevare il minerale o al massimo trasportare il Direttore e gli impiegati che ritenevano di dover scendere in miniera, o gli operai addetti all’argano ed al sollevamento del minerale.
I vari piani di lavoro a seconda della profondità e dall’alto verso il basso venivano denominati: Piano Amendoletta, a 60 metri dalla superficie esterna; Magliani, a 90 metri; Speranza III, a 110 metri; Sandri, a 160 metri; Fondali II, a 185 (aveva il sale più puro di tutto il giacimento); Fondali a 210 metri; Piano Italia, a 240 metri; Piano fertilità, a 260 metri (quest’ultimo piano solo a livello di discenderia non è stato sfruttato completamente).

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Il metodo di coltivazione della salina di Lungro è stato quello dei gradini rovesci e più precisamente consisteva nello scoronamento in calotta con tagli laterali sui piedritti nei cantieri di coltivazione.
L’abbattimento del minerale avveniva mediante trivellazioni elettriche e mine che esplodevano nelle volte dei camerini. Il taglio delle caraci laterali avveniva per mezzo di operai picconieri. Il materiale abbattuto veniva dimezzato e cernito a mano da squadre di operai scheggiatori che raccoglievano il sale mercantile in cumuli tronco-conici sul piano dei camerini. Questo era formato dai materiali di scarto (barde, brecce) che costituivano gradualmente la ripiena dei cantieri, in pratica la volta della galleria saliva per l’abbattimento del sale, ma saliva anche il piano sottostante per la ripiena. Squadre di manovali provvedevano al trasporto a spalla del sale cernito dai cumuli ai fornelli di scarico.
Nelle sottostanti gallerie di carreggio il sale veniva prelevato dalle tramogge e convogliato a mezzo vagoncini spinti in superficie con l’ausilio del montacarichi del pozzo Bellavite; il sale cernito veniva quindi immagazzinato nell’opificio della miniera.
Poiché le squadre di operai lavoravano a cottimo si rendeva necessaria un’operazione di pesatura interna durante il trasporto dal cumulo di cernita al fornello di scarico o alla galleria di carreggio, oltre alle successive pesature che subiva il minerale all’esterno della miniera per l’immagazzinamento e la spedizione.

Analisi della cause della chiusura
Il pozzo di estrazione Bellavite dotato di una singola gabbia, serviva solo per portare a  giorno il sale cernito, ed una quantità quasi equivalente di barda (scarto) che risultava anche esuberante per i lavori di ripiena e quindi veniva gettato in discarica. Non era attrezzato per il trasporto degli operai, cosicché questi dovevano raggiungere a piedi i cantieri di lavoro e risalire impiegando quasi un’ora e mezza, mezz’ora veniva dedicata all’intervallo per la colazione che si consumava direttamente nel sotterraneo ed il periodo lavorativo dell’unico turno giornaliero di riduceva così a cinque ore e mezza.
Tutta questa complessa organizzazione del lavoro a carattere essenzialmente artigianale, derivata dal tipo di giacimento e dalla lunga storia della miniera, incide fortemente sul costo del sale, per non parlare poi del maggior aggravio sia per il progressivo approfondimento degli scavi in sotterraneo sia per l’allontanamento dei cantieri di cernita dal pozzo di estrazione. Da tutto il complesso delle condizioni sfavorevoli che si sono illustrate ed elencate, tipo di giacimento dove il sale puro è intimamente associato alle barde ed all’argilla, l’attrezzatura mineraria, l’età media avanzata degli operai addetti al sotterraneo, le successive operazioni di carico e scarico, il controllo sui trasporti del minerale, l’altitudine, la distanza della miniera dagli scali ferroviari o porti adatti, derivava come si è visto precedentemente, da parte dei tecnici dei Monopoli e del Ministero delle Finanze, la constatazione essenziale che il giacimento, ritrattava in pratica di estrarre ormai solo per poco altro tempo del sale.
D’altra parte si imponevano due problemi fondamentali, quello riguardante l’occupazione della manodopera locale e quello di un eventuale ammodernamento della miniera. Problemi che erano fra loro strettamente collegati ed in un certo senso contrastanti, in quanto migliorando e meccanizzando alcuni servizi della miniera, si riduceva l’impiego del personale, soprattutto nelle maestranze qualificate e di maggiore età.
Le ricerche esplorative effettuate ai vari livelli nell’interno della lente salina coltivata e un sondaggio meccanico praticato nel 1952 a quota 363 metri e a mezzo chilometro di distanza verso Sud-Ovest del pozzo di estrazione Bellavite, hanno dato purtroppo risultati sfavorevoli. L’esame delle condizioni geologiche locali, precisate dal nuovo rilevamento della Regione, non escludeva tuttavia che in zone più interne del bacino messianico a valle di Lungro, potesse esistere un altro giacimento salino ricco. Ciò potrebbe trovare conferma a mezzo di alcuni sondaggi esplorativi opportunamente ubicati a sud-ovest e a nord-est del punto in cui era la salina, nella valle del Fiumicello e del Tiro.
Anche nel caso della fortunata scoperta di un giacimento di salgemma più ricco nella zona di Lungro, i tecnici responsabili negli anni Sessanta giunsero alla conclusione che non si poteva certamente ignorare che si tratterebbe di aprire una nuova miniera in condizioni geografiche sfavorevoli rispetto ad altri giacimenti calabresi prossimi al mare e non ancora sfruttati industrialmente. L’eventuale produzione della nuova miniera dovrebbe infatti sopportare forti spese di trasporto che non le consentirebbero di aprire una nuova miniera in condizioni geografiche sfavorevoli rispetto ad altri giacimenti calabresi prossimi al mare e non ancora sfruttati industrialmente. L’eventuale produzione della nuova miniera dovrebbe infatti sopportare forti spese di trasporto che non le consentirebbero di competere con quelle dei ricchi giacimenti siciliani.
In conclusione non si trattava di risolvere soltanto un problema di carattere tecnico ed economico circoscritto alla miniera di Lungro, ma di avviare a rapida soluzione un più vasto e delicato problema di natura sociale e polita che trascendeva i limiti dell’attività mineraria locale ed interessava tutta un’intera zona di risorse agricole e di iniziative industriali.

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La motivazione principale, dunque, che di addusse per la chiusura della salina di Lungro fu indubbiamente economica. Il sale di Lungro, nel 1961 è costato a bocca miniera lire 35.000 la tonnellata e questa cifra è poi salita a lire 45.000. A tale scopo andarono aggiunte le spese di trasporto dalla miniera alla stazione ferroviaria di Spezzano Albanese che dista 20 chilometri da Lungro, e quelle successive di carico, scarico e trasporto da qui ai magazzini di generi di Monopolio sia in Calabria che a quelli di Sapri della Lucania.
Il sale di Lungro, nel 1961, a detta dei Monopoli costava lire 45.000 la tonnellata contro le 3.500 del sale siciliano, le 7.000 del salgemma di Volterra, le 1.500 delle saline di Cagliari e Margherita di Savoia.
In pratica a parte il convincimento, pressoché unanime, delle popolazioni sulla antieconomicità dell’azienda sui metodi di lavoro inumani e primordiali, sui pericoli per l’incolumità degli operai, sull’esaurimento del giacimento scientificamente dimostrato, e sulla non convenienza di cercarne altri nella zona, resta però l’amara convinzione che Governo e Monopolio nulla hanno fatto o poco, nei decenni per ovviare almeno in parte a questi inconvenienti con interventi tecnici appropriati; anzi, all’epoca in cui la miniera rendeva economicamente la si lasciava andare avanti curandosi poco delle condizioni di vita e di lavoro degli operai e soprattutto delle nebulose prospettive future.
Allorquando nel secondo dopoguerra l’antieconomicità della miniera è risultata ancora più evidente, si è deciso di chiuderla pur adducendo plausibili motivazioni che sono però state più l’effetto che non la causa.
Vani sono stati i risultati delle lotte, a volte sbagliate, a volte giuste, ma pur sempre animate dal generoso slancio popolare. Inconsistenti si sono rivelate le attese miracolistiche alternatesi alle lotte ed alimentate, da un lato, artificiosamente da gruppi di persone in vista ed in funzione di interessi particolari, dall’altro il problema è stato snobbato da chi viceversa non è riuscito a scorgere nella risoluzione di esso alcun tornaconto personale.
Anche dopo l’ultima relazione sulla salina da parte della Commissione Moretti, nominata dal Ministero delle Finanze nel marzo del 1969, al di là di facili euforie, scaturite da una favorevole posizione rispetto alla precedente relazione Bianchi del 1961 si fu in pratica nelle stesse condizioni di prima.
La relazione Moretti oltre al fatto basilare della tesi di dover effettuare sondaggi in loco, diretti ad accertare la presenza di eventuali altri giacimenti di sale, e consistenza dell’attuale bacino minerario, sosteneva che il problema andava comunque inquadrato non più entro una visione municipalistica ma nel contesto di tutta la problematica meridionale.
Oggi, cosa resta della salina di Lungro?
Concretamente si dirà che i tempi sono cambiati che il sale marino o di altri giacimenti viene prodotto in enormi quantità e con costi di produzione notevolmente inferiori, che la vendita del sale essendo stata liberalizzata non è più esclusivo Monopolio dello Stato, che nessuno al mondo rivelerebbe una vecchia miniera di salgemma e per giunta abbandonata, ed in zona interna.
Si risponderà che a Lungro per secoli è stata utilizzata la miniera come unica fonte di lavoro. Resta solo il ricordo sempre più affievolito man mano che trascorrono gli anni; il ricordo, della sirena che chiamava gli operai; le centinaia di operai con la caratteristica divisa marrone chiara che scendevano dai pullmann in Piazza Casini alle ore 15 di ritorno dalla salina; l’attesa di un intero paese per ogni quindicina del mese quando si “pagavano” i salinari; il ritrovo nel dopolavoro; l’infinito numero di aneddoti sugli arguti operai.
Oggi le nuove generazioni della salina conoscono solo il nome. Forse per questo l’ideatore del monumento in pietra ai salinari di Lungro, posto simbolicamente e significativamente  nell’atrio delle scuole elementari di Lungro, lo ha voluto collocare come esempio e monito alle future generazioni, a ricordo indelebile ed esempio tangibile di come i loro nonni si guadagnavano da vivere. Quelle sagome di pietra vogliono essere un esempio, uno stimolo per le coscienze di chiunque lavori.
Ecco, in fondo l’eredità che ci  lascia la miniera di salgemma: l’esempio , il mitico esempio e  la  memoria  storica  dei  secoli  passati del duro lavoro e dell’impegno dell’uomo .

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Fonte: http://www.admlungro.it

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