Lo spopolamento dei piccoli paesi. C’è un rimedio?

ORSOMARSO nella prima metà del Novecento

ORSOMARSO nella prima metà del Novecento

Da circa tre anni, in Italia, è attiva una politica pubblica nazionale – la Strategia Nazionale Aree Interne – che vuole combattere lo spopolamento delle aree periferiche del nostro paese e affermare un modo di fare politiche pubbliche che non sia cieco rispetto alla straordinaria varietà di situazioni territoriali che lo caratterizzano. Essa rappresenta anche una battaglia culturale, una sfida alla metropolitanità dominante e ai feticci della modernità novecentesca, nel nome di uno sviluppo più equo socialmente e territorialmente.

Tra i meriti di questa politica, infatti, vi è quello di avere rimesso in moto il dibattito sullo sviluppo nel nostro paese, partendo non più dai grandi centri urbani e industriali ma dalle aree periferiche, quelle che negli ultimi cinquanta anni hanno subìto un processo di spopolamento, depauperamento e marginalizzazione dai sistemi economici e di potere nazionali. Questa ricalibratura territoriale delle politiche ha evidentemente molti nemici, che si trovano sia dentro le aree interne (i rentier del sottosviluppo), sia al di fuori di esse (coloro che predicano di processi economici naturali che vanno verso la concentrazione territoriale dello sviluppo).

Scardinare questa doppia e vicendevole narrazione, quella dei rentier che hanno costruito posizioni di rendita proprio sulla marginalizzazione e quella che promuove una alleanza globale metropolitana, dove le città sono gli unici nodi della rete di accumulazione globale del capitale (Harvey, 2010), non è affatto semplice. Bisogna armarsi di solida teoria e di determinata prassi. In questo contributo si vuole contribuire all’armamentario teorico delle aree interne mettendo in luce come, in questa fase storica, esse rappresentano dei potenziali motori di cambiamento dai quali fare ripartire il moto dello sviluppo, che oggi appare congelato in una stasi frenetica, caratterizzata da un irrigidimento culturale e strutturale della società a fronte di una inedita accelerazione sociale.

Dotate di una propria alternativa struttura del tempo, le aree interne alimentano un paradosso: sono luoghi di decelerazione, periferalizzati dal dominio metropolitano, che si mostrano come spazi fisici, sociali, produttivi in movimento e non assoggettabili ai nuovi meccanismi dell’alienazione. Spazi di decelerazione per ridare fiato alla democrazia, rimettere in moto una critica dell’economia politica, costruire relazioni umane nuove e rapporti di produzione differenti. Spazi dai quali fare ripartire il moto del cambiamento.

Accelerazione sociale e aree interne

Vi è un nuovo senso di alienazione che pervade la vita metropolitana e che la differenzia dal vissuto delle aree interne. Esso deriva dalla neo-struttura del tempo della società tardo-moderna, che è regolata, coordinata e dominata da un rigido e severo regime temporale, nel quale l’uomo metropolitano non può agire spazi di libertà significativi. I tempi individuali devono necessariamente conciliarsi con i tempi di un più ampio macrocosmo sociale, dove esistono degli imperativi sistemici che determinano le scadenze e le condizioni temporali dei singoli. Questo regime del tempo, che assume sempre più forme totalitarie, viene chiamato logica dell’accelerazione sociale (Rosa, 2015) ed è caratterizzato dalla concomitanza di alcune dimensioni di accelerazione.

orsomarso del 1913b

ORSOMARSO, Piazza Municipio nel 1913

L’accelerazione tecnologica, grazie alla quale lo spazio viene compresso o addirittura annichilito per effetto della velocità dei trasporti e delle comunicazioni. L’accelerazione dei mutamenti sociali, che porta gli atteggiamenti, gli stili di vita, le forme con le quali si attuano i rapporti di lavoro a cambiare sempre più rapidamente. L’accelerazione del ritmo di vita che palesa la paradossale carestia di tempo nella quale è caduto il vissuto metropolitano. I tassi di crescita delle azioni, degli spostamenti, superano i tassi di accelerazione. Per questa ragione il tempo scarseggia sempre di più.

Questo paradosso dell’accelerazione, si traduce in una nuova alienazione: dallo spazio; dalle cose; dal nostro agire; dal tempo esperito; dall’ambiente.

Ma come ci ricorda Virilio (2011) nella teoria dell’incidente integrante, ogni meccanismo che ha pretese totalitarie è sempre minato da elementi di dissidenza interni. La tecnologia stessa, uno dei fattori più importanti di accelerazione, non può esistere senza la possibilità intrinseca di incidenti. “quando si è inventato il battello si è inventato anche il naufragio (…) È qualcosa di insuperabile che però la tecnocrazia censura, essa accetta infatti solo di vedere la positività del suo oggetto e dissimula senza posa l’incidente.” (ibidem, 2001). E così avviene anche per il processo di accelerazione sociale, che manifestandosi genera degli spazi – fisici e non – di decelerazione.

Non tutto lo spazio fisico, ad esempio, può essere compresso dall’accelerazione del tempo: esistono spazi dove, per svariate ragioni, l’accelerazione ha avuto dinamiche differenti, meno intense, dove anche l’asprezza morfologica ha funzionato da argine. Oppure spazi che sono stati periferalizzati dalla concentrazione dell’accelerazione in alcuni luoghi e che per questo non sono riusciti a stare al “passo con i tempi”. Sta qui la critica oggettiva che le aree interne pongono al processo di accelerazione sociale, e di conseguenza alla nuova alienazione che produce vissuti non qualitativi.

Ricordiamo il celebre passo di Thomas Mann, tratto da La montagna incantata, nel quale vengono messi in luce i differenti utilizzi del tempo in Occidente e in Oriente, e nel quale – come la cultura dominante ancora oggi fa – la velocità diventa sinonimo di civilizzazione, mentre la “larghezza del tempo” assume sembianze barbariche:

“Codesta liberalità, codesta barbara larghezza del consumo del tempo è stile asiatico… […] Non ha mai notato che quando un russo dice: “quattro ore” non dice più di quando uno di noi dice “una”? Non è difficile immaginare che la noncuranza di costoro in riferimento al tempo dipenda dalla selvaggia vastità del loro paese. Dove c’è molto spazio c’è molto tempo… […] Noi Europei […] abbiamo poco tempo, come il nostro nobile continente ha poco spazio, noi dobbiamo ricorrere alla precisa amministrazione dell’uno e dell’altro, allo sfruttamento! Prenda per simbolo le nostre grandi città, centri e fuochi della civiltà, crogioli del pensiero! Come il terreno vi rincara, e lo spreco di spazio diventa impossibile, nella stessa misura, noti, anche il tempo diviene sempre più prezioso. Carpe diem! Lo disse uno che viveva in una metropoli!” (trad.1992, p. 402-403).

Da una prospettiva culturale differente, ribaltando a tutto tondo la logica di osservazione, possiamo interpretare invece le nostre aree ricche di spazio, periferalizzate dal processo di accelerazione – le aree interne italiane -, come spazi di autonomia e decelerazione, ovvero come spazi di disalienazione – e perciò di vissuti qualitativi, di vita buona. Le aree interne, in questa visione, assumono i connotati di spazi territoriali di dissidenza – degli incidenti integranti – rispetto al tentativo egemonizzante di compressione dello spazio per mezzo del tempo.

Porre l’attenzione su queste aree, però, non significa cercare spazi protetti o funzionali rispetto ai processi dominanti. Questa è la prassi dei rentier, che mantengono la propria rendita governando contoterzi il territorio delle amenities, garantendone il consumo dentro la logica dell’accelerazione, conservando le aree interne come spazi di soluzione delle tensioni urbane e di estrazione di risorse per lo sviluppo metropolitano. Significa, invece, dare una risposta alla crisi del sistema dominante – alla crisi intrinseca del processo di accelerazione – rappresentato dalla “stasi frenetica”. È opinione diffusa, infatti, che a fianco della contemporanea velocizzazione e compressione del tempo, stiamo assistendo ad un irrigidimento culturale e strutturale della società. Una stasi paralizzante nello sviluppo interno delle società tardo-moderne: la loro apparente sconfinata apertura e il loro rapido cambiamento sarebbero soltanto elementi esteriori, mentre le strutture profonde delle nostre società sono coinvolte in un processo di irrigidimento. La sostanza dei rapporti di produzione e sociali resta immutata da molto tempo e la sua conservazione viene rafforzata dalla velocità di mutamento delle esteriorità di questi rapporti.

Le aree interne come spazi di azione politica dentro la stasi frenetica

Il segno più importante di questa “stasi frenetica” è l’avanzare di una post-politica che legittima se stessa e alimenta il senso della propria missione ricorrendo in modo sistematico a immagini dromologiche (ancora Virilio, 2011), che insistono sull’esigenza di accelerare i tempi, di abbreviare la durata dei processi decisionali. È l’incedere di un orizzonte post-democratico, un esodo dalle strutture temporali della democrazia. In questa curvatura dromologica e futuristica della politica emerge l’esaurimento della capacità di dominare i processi sociali e di imprimere su di essi un segno di cambiamento – questo il senso della stasi, nella quale sono caduti i luoghi maggiormente coinvolti nella dinamica dell’accelerazione sociale, le metropoli.

La struttura del tempo delle aree interne, invece, dilatata ed estranea alle logiche di accelerazione, concede alla politica una possibilità di azione più incisiva, di imprimere il segno sulle dinamiche sociali, di ripensare i modi di produzione e di consumo, di aprire i processi decisionali e di portare avanti il progetto di piena cittadinanza dettato dalla Costituzione (Barca, 2016). Parafrasando Piero Calamandrei, se vogliamo attuare il dettato Costituzionale come impegno civile, sociale e politico, troviamo spazi di riorganizzazione nelle aree interne, dove il tempo è dilatato, esistono tempi democratici per prendere le decisioni, ma è anche già in atto un moto di cambiamento, si fanno strada una nuova domanda di economia che rimargina la frattura con l’ambiente e che guarda all’inclusione sociale. Le aree interne si rivelano come luoghi premonitori di una nuova economia, che è intrinsecamente capace di superare la seconda contraddizione del capitalismo (O’Connor, 1991) – quella tra capitale e ambiente – e di dare risposte alle nuove emergenze ambientali e sociali.

Laino Castello

Laino Castello

Questa tensione che viene dalle aree interne, questa loro vocazione intrinseca e prospettica è raccontata da molti autori. In un suo recente lavoro, don Luigi Di Piazza scrive riferendosi alla sue origini di Tualis, comune interno dell’Alta Carnia: “sono cresciuto in una terra bella e difficile che si è progressivamente spopolata. (…) Ho vissuto sulla mia pelle l’esperienza della marginalità, il lavoro dei campi, le scuole pluriclassi, le difficoltà degli spostamenti. Eppure queste mie origini mi hanno arricchito enormemente. Per la bellezza dei luoghi innanzitutto: sono sempre con me i rimandi interiori poetici, fiabeschi, legati ai colori dell’autunno, ai copiosi e soffici candidi manti di neve. E poi, i silenzi intensi delle lunghe giornate invernali che mi hanno sollecitato a una continua ricerca di introspezione e meditazione. (…) Mi pare di poter dire che solo dalle periferie può partire e avere seguito un cambiamento autentico della società e del mondo, per il quale le parole giustizia, accoglienza, pace, custodia di tutti i viventi, solidarietà e verità diventino esperienza quotidiana” (2016, p. 3-4).

La bellezza, il silenzio, i colori, l’introspezione e la meditazione sono tutt’altro che capricci borghesi. Sono alcuni degli elementi costitutivi della disalienazione tra uomo e ambiente, che nelle aree interne trova l’immediata possibilità di concretizzarsi in progetti di vita e in un nuovo agire economico. È il salto gorziano dal conflitto salariale alle rivendicazioni qualitative (Gorz, 1975), che sposta la lotta per il cambiamento sociale dai rapporti di produzione in senso stretto al diritto di ogni individuo di godere di una vita piena, di realizzare le proprie aspirazioni, di esercitare senza alcun ostacolo i propri diritti, di ritornare alla natura in un rapporto di convivialità, di riprendere il controllo non solo sulle modalità distributive del valore, ma soprattutto sulla composizione della produzione, cioè sulla definizione qualitativa di ciò che si deve produrre e perché.

Le aree interne rimettono in moto il cambiamento perché ridanno spazio ad una produttività liberata, capace di contrastare la controproduttività dell’accelerazione sociale (Illich, 1981), che con le proprie istituzioni ha superato una soglia critica oltre la quale non solo non è più in grado di creare benessere diffuso, ma finisce per frapporre ostacoli alla sua stessa capacità di accelerare le strutture del tempo. Così come, al di là di un certo grado d’intensità, la medicina produce impotenza e malattia, l’istruzione dissemina ignoranza, l’automobile comporta congestione del traffico, l’accelerazione ha prodotto nuova scarsità di tempo e un irreversibile deterioramento delle condizioni di vita nei suoi centri propulsori.

Le aree interne, in questo contesto, possono allora diventare dei nuovi centri che contrastano la fase di stasi frenetica nella quale è caduta la tarda modernità. Valorizzare spazi di decelerazione per ridare fiato alla politica democratica, rimettere in moto una critica dell’economia politica, costruire relazioni umane nuove e rapporti di produzione differenti.

È la premonizione di Aldo Capitini: “Bisogna far rinascere il moto dai piccoli comuni: tanti punti diventati centri per la compresenza e l’omnicrazia” (Capitini, 1969). Ma è l’indicazione contemporanea di Saskia Sassen di guardare ai “margini sistemici”, come spazi in “[..] cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza” (Sassen 2014, p. 238), dove il moto di riappropriazione dell’economia fondamentale (Barbera, 2016) da parte dei cittadini può ripartire. Moto impossibile, invece, nelle città, dove “che ci piaccia o no, l’economia del libero mercato è l’unico spettacolo” (Johnson, 2013, sindaco di Londra, celebrando Margaret Tatcher).

Di

Giovanni Carrosio

Immagini di Sarah Sze


Riferimenti bibliografici

Barbera, F. e altri (2016) Il capitale quotidiano, Donzelli, Roma

Barca, F. (2016) Disuguaglianze territoriali e bisogno sociale. Le sfida delle Aree Interne, Fondazione Ermanno Gorrieri per gli Studi Sociali, Modena

Capitini, A. (1969) Il potere di tutti, Guerra Edizioni, Perugia

Di Piazza, L. (2016) Il mio nemico è l’indifferenza. Essere cristiani nel tempo del grande esodo, Editori Laterza, Bari

Gorz, A. (1975) Movimento operaio e progetto di civiltà, in Ecologia e politica, Cappelli, Bologna

Harvey, D. (2010) L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano

Illich, I. (1981) Per una storia dei bisogni, Mondadori, Milano

O’Connor, J. (1991) On the two contradictions of capitalism, in Capitalism Nature Socialism, volume 2, numero 3, pp. 107-109

Rosa, H. (2015) Accelerazione e alienazione. Per una teorica critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino

Sassen, S. (2014) Brutality and Complexity in the Global Economy; Cambridge Mass, Harvard University Press

Virilio, P. (2011) L’incidente del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano

 

Fonte: https://www.che-fare.com/aree-interne-trasformazione-sociale/

 

 

ORSOMARSO in una vecchia foto deila prima metà del Novecento

 

 

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