La Befana esiste ed io l’ho conosciuta quando ero bambino

 
Avevo quattro anni. Mio padre era a Toronto in Canada. Nonno Peppe, il padre di mia madre, era andato nella cantina della Caria. Era l’imbrunire e nonna Felicia disse a mia madre: vado con il bambino alla bottega. Ricordo l’arrivo in piazza, con lei che mi teneva per mano, e io che ridevo ai tanti bambini con cui giocavo negli orti o nelle strade. Sul lato sinistro, scendendo, della chiesa madre c’era un negozio di generi alimentari. Entrammmo. «O cara cugina Felicia – disse il proprietario – quale buon vento ti ha portato qua. Come sei cara a vedere». «Sono venuto a fare la Befana al bambino, disse la nonna, e dopo i convenevoli con il cugino dallo stesso cognome, erano figli di due fratelli, cominciò a chiedere e a prendere dagli stipi caramelle, confetti, susumelle, torroni. Guardavo la nonna. Ero sorpreso, curioso e compiaciuto. Scoprire, in quel modo, che la Befana era lei (e la mamma complice) non provocò in me alcun dolore o trauma e, a dire il vero, non attenuò, negli anni successivi, le mie attese e le mie pretese. Per anni continuai a scrivere letterine toccanti alla Befana in cui chiedevo dolci e torroni, promettendo di diventare bravo, più buono di com’ ero stato. La cultura e i rapporti sono fatti di finzione e di teatro e recite. Non dissi ai compagni meno fortunati di questa mia scoperta; dividevo volentieri quello che mi aveva portato la Befana: la nonna mi insegnava a non esibire e ad essere generoso. Perché la Befana mi rendesse e ci rendesse felici i padrì avevano attraversato l’Oceano ed erano lontani.
Non so che senso ha oggi raccontare queste storie che sembrano lontane e mai accadute. Da giovane, quando ascoltavo le storie di guerra e di fame dai grandi, giungeva presto il momento in cui ero colto da un senso di fastidio e da insofferenza perché si parlava di un mondo che io non avevo conosciuto, non avevo vissuto e che non riuscivo nemmeno a immaginare. Non vorrei passare per un noioso predicatore, per un nostalgico di un tempo misero o peggio per un fustigatore di costumi. E tuttavia ricordare a me stesso quei tempi di attesa e sobrietà, mi aiuta a capire meglio quanto abbiamo sbagliato a continuare lungo una strada senza fine che faceva perdere di vista il punto di partenza. Perché non ci siamo fermati a pensare nel momnto in cui si superava il limite e s’ imboccava la via del non ritorno? Era davvero obbligatorio passare dal poco al tutto, dal niente all’assai, dalle penurie agli eccessi, dalle ristrettezze agli sprechi, dalle scarpe rotte e bucate alle mille paia di scarpe costose e inutili? I bambini ricevono doni costosissimi, telefonini, apparecchi e giochi informatici, indumenti firmati. La sensazione è che noi adulti cerchiamo di salvarci l’anima per altre mancanze nei confronti dei figli. E invece costruiamo quell’infelicità e insoddisfazione che li avvolge dopo avere ricevuto i regali, mai bastanti, mai perfetti, sempre peggiori e più miseri di quelli degli amici. Molti adulti (in un paese con milioni di poveri) sprecano tonnellate di cibo, cercano evasioni le più strane e costose, inventano settimane bianche e colorate per poi tornare a casa stanchi, lamentando la noia di queste feste, che l’anno prossimo non faranno più.
Una nuova pedagogia, etica ed ecologia del donare e della convivialità forse sono ancora possibili, ma c’è bisogno di un altro impegno, di una lenta fatica che coinvolga società, scuole, Chiesa, famiglie. C’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo, di affermare altri stili di via e nuovi valori. Servirebbe una politica capace di annullare o attenuare le grandi disuguaglianze esistenti nel mondo e anche all’interno della nostra società: una politica che ricordi che i beni non sono illimitati, gratuiti e per sempre e sono di tutti.
L’altra parola che mi viene in mente, assieme a convivialità è sacralità ed ecco che non posso fare a meno di andare indietro negli anni e arrivare in quei tempi in cui la mattina della Befana si andava a messa e poi la sera si “cantava i presepe”, si baciava il Bambino (per ultimo il più piccolo della famiglia) e lo si nascondeva per non farlo scorgere ad Erode. Dopo l’Epifania, si diceva, le feste vanno via. Ricordo la tristezza che ci avvolgeva perché bisognava tornare a scuola, smettere di giocare a tombola e a carte. Ricordo il senso di vuoto che ci coglieva quando mettevamo, con i genitori, quei poveri pastori, fatti con creta da qualche artista locale, nei fogli di giornale e poi in uno scatolo di cartone da conservare e tirare l’anno prossimo. Questi gesti, i riti e le preghiere, e tante cautele davano una certezza: che l’anno nuovo sarebbe arrivato e che il presepe sarebbe stato di nuovo messo al centro della casa.
In questo nostro mondo distratto e obeso, ingordo e precario (l’altro volto di un mondo con milioni di affamati e assetati), resistono e rivivono scampoli, schegge, pratiche che, tra passato e presente, tradizione modernità, ci segnalano la potenza dei limiti e dei margini, di periferie che potrebbero diventare “centro”. Qualcuno – anche un nervoso direttore di orchestra – urla in faccia ai bambini che Babbo Natale non eiste. Io invece so che la Befana è esistita una volta ed esiste ancora: chiede un altro ascolto, un altro sguardo, un’altra cura.
Ricordare la Befana della mia infanzia non serve tanto a placare i morsi della nostalgia, ma a fare rivivere, restare, i messaggi e i segni di un mondo al crepuscolo ed eventualmente a cercare di tenere accese le braci e le lucciole che forse ancora non si sono del tutto spente e in qualche modo rivelano un bisogno di calore, di felicità che non arriva dalle merci, ma dai legami e dai rapporti veri.

 

Di Vito Teti

Dalla pagina Fb dell’autore

Foto RETE

 

 

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