Ciò che compare nelle parole di Michele – nel suo dolore che le ha forgiate – è l’introiezione passiva (inconsapevole) di un modello vincente

 

Ho letto la lettera di Michele, suicidatosi a trent’anni. Un fatto enorme, che non può non provocare la nostra empatia più profonda. Michele è una vittima. E il suo gesto merita tutto il rispetto che ogni gesto che ha a che fare con l’intimità delle vite individuali merita. Quella lettera l’ho vista ripresa più volte, riprodotta quasi fosse un manifesto rivendicativo generazionale. Ma quella lettera non è un manifesto: e non solo perché una dichiarazione di resa – che è diritto assoluto di ogni individuo, e non c’è alcuna colpa in questo – non può divenire un fatto collettivo, un legame sociale. Il fatto è che quella lettera è un sintomo. E un sintomo sta per qualcosa di cui è un’emergenza, e si manifesta nell’inconsapevolezza di ciò che lo determina.

Il senso di una sconfitta non può essere un manifesto generazionale. La generazione dei precari non è questo. Ciò che compare nelle parole di Michele – nel suo dolore che le ha forgiate – è l’introiezione passiva (inconsapevole) di un modello vincente. Non c’è resistenza; ma se non c’è resistenza (il potere produce attrito) la storia è finita. Ed è questa non-immaginazione che il potere presente vuole: vuole convincere tutti della mancanza di prospettive. Produce mancanza di immaginazione.
Qui, in questa lettera, non c’è solo una stanchezza metafisica (questa iterazione: “sono stufo…”), un’esaustione che polverizza la stessa capacità di fare domande, ovvero la natura più propria dell’animale umano. Qui, soprattutto, c’è la rivendicazione di una serie di pretese non soddisfatte. Si pretende “il massimo”. E siccome non l’ho avuto, la faccio finita, mi consegno al minimo. Una volta si gridava “vogliamo tutto”: ma quel “vogliamo tutto” nasceva da una pratica: vogliamo-dunque-celoprendiamo. E il massimo è diverso dal tutto: il tutto è una circonferenza in cui c’è posto per tutti; il massimo sta in un immaginario che vede una scala sociale naturale, e se c’è un massimo c’è anche un minimo, c’è qualcuno che vince e qualcuno che perde, e se nonostante tutti gli sforzi siamo tra i perdenti non lo accettiamo. E tanto meno riusciamo ad accettarlo nella misura in cui i nostri legami sociali sono tenui, nella misura in cui siamo stati costretti nell’individualismo regressivo, nell’isolamento che è la forma di vita a cui il tempo presente ci vorrebbe costringere.
Michele pretendeva (come potrebbe essere considerato tipico di una generazione in cui il Narciso ha sostituito l’Edipo, così ci dicono). Pretendeva che il mondo lo accogliesse (l’epoca “si permette” di accantonarmi: come può permettersi di ignorarmi? Perciò “imporrò la mia assenza”). Pretendeva che “l’altro genere” lo accogliesse: come fosse un suo dovere, per “l’altro genere” accogliere “il maschio”, e poiché non lo accoglie i sentimenti sono “sprecati”: dove sono sprecati solo sulla base di una concezione dei rapporti sociali come un dare-avere, come uno scambio, invece che una che legge i sentimenti come una donazione che non ha misura possibile. Questa pretesa può essere compresa solo sullo sfondo di quei sogni che questo tempo fa balenare, salvo poi sottrarsi e lasciare chi non coglie le promesse di felicità come un naufrago, fino a soccombere.
Michele è una vittima di questo tempo. E una vittima deve essere ascoltata fino in fondo, per quello che dice e per quello che non dice. Perchè quello che non dice, e non lo dice perché lui stesso non lo sa, ci indica una via d’uscita. Quella che, ahimé, Michele non ha avuto la forza di cogliere.

Di Marco Revelli

Fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/

Foto RETE

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