Teseo e quella misteriosa danza delle donne di Ruvo di Puglia

Particolare del fregio pittorico della c.d. Tomba delle Danzatrici, da Ruvo di Puglia (Bari), V sec. a.C. – Napoli, Museo Archeologico Nazionale

 

Una versione del mito di Teseo che libera i giovani ateniesi dalla prigionia nel Labirinto del Minotauro, a Creta, identifica in Delo, l’isola di Apollo, la prima tappa della loro fuga: in questo luogo dell’Egeo sarebbero approdati i ragazzi guidati dall’eroe subito dopo l’uccisione del mostro. Con loro c’era anche Arianna, la principessa minoica che con il famoso filo li aveva aiutati ad uscire dagli ingannevoli meandri del Labirinto. Scrive in proposito Plutarco, filosofo e sacerdote greco del II secolo dopo Cristo: “Nel viaggio di ritorno da Creta Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l’immagine di Afrodite che aveva ricevuta da Arianna, eseguì insieme coi ragazzi una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari”: gli antichi la chiamarono “danza delle gru” (ghéranos), giustificando spesso la denominazione con la disposizione dei ballerini in fila indiana, come fanno gli uccelli migratori.”

Alcuni studiosi ritengono che sia proprio questa “danza di gioia” – legata ai misteri ctonii della morte e della rinascita cui alluderebbe il mito di Teseo – quella riprodotta sulla lastra di una tomba a semicamera (di m. 3.18 x 1.59 x 1,32) ritrovata a Ruvo di Puglia (Bari) il 15 novembre del 1833 sulla via dei Cappuccini (oggi Corso Cotugno) e donata al Re di Napoli. La tomba, detta per questo motivo “delle danzatrici”, e il relativo fregio dipinto, si trovano oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Tomba delle Danzatrici, da Ruvo di Puglia (Bari), V sec. a.C. – Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Nove donne avanzano a passo di danza, le braccia incrociate a formare una catena, avvinte per le mani porgendo la destra alla compagna che sta dietro e la sinistra a quella posta davanti e dando vita a una sorta di coreografia circolare, sicuramente legata ad un culto di carattere funerario. Tre giovanetti, di cui uno suona la cetra, le precedono e sembrano guidare il corteo. Colpisce il ricco e policromo abbigliamento delle donne, con lunghe vesti a fasce che sembrano ondeggiare al passo, vesti complete di mantello che copre loro la testa e le spalle ricadendo ben oltre il giro vita. L’incarnato è leggermente roseo, le labbra d’un colore più inteso, le mani ben affusolate e rese dal pittore con molta cura. Le loro fronti sono strette in una benda di rosso tessuto, le orecchie sono adorne di grandi orecchini a cerchio e ai piedi portano calzature a punta. Oltre lo strato di colore, disposto a cadenze quasi ritmiche di grande effetto, si rilevano tracce di linee che segnano gli occhi, il naso ed il mento servendo al pittore per impostare le proporzioni e il rapporto fra le figure, così come si intravedono appena alcuni festoni di melagrane, frutti tipicamente legati alla simbologia dell’Oltretomba. Un lavoro raffinato che denota un grande padronanza tecnica soprattutto nella resa dei panneggi e delle ombreggiature.

Questo capolavoro dell’arte funeraria antica si inserisce in quel contesto di colonizzazione greca di provenienza arcadica che fra VIII e V sec. a.C. caratterizzò il più antico villaggio peuceta da cui origina l’insediamento di Ruvo.  La presenza greca si sovrappose  e si integrò con la comunità già esistente, trasformandola in un’autonoma città greca dal nome Rhyps (“Ρυψ”). Grazie all’arrivo dei greci la città visse il momento di massimo splendore intorno al IV secolo a.C. potendo vantare un territorio molto esteso (l’agro rubastino di età greca comprendeva Molfetta, Terlizzi, Corato, Trani, Bisceglie e Andria) ed una popolazione mai più raggiunta. Ruvo divenne una florida città e la sua ricchezza era basata sugli scambi commerciali di olio e vino e su una fiorente produzione di vasellame da trasporto e da servizio, come testimonia la vastissima necropoli in cui sono state ritrovate tombe contenenti oggetti di bronzo, argento e oro. La città divenne prima protetta di Atene, come dimostrano alcune monete dotate dell’Atena galeata tipiche della potenza attica, poi strinse un’alleanza con Taranto raggiungendo l’apice della propria potenza militare. Ruvo si rese dunque indipendente, coniando monete d’argento, e fu in questo periodo che a Ruvo giunsero i numerosissimi vasi dalla Grecia e gli ori dagli scambi commerciali intrattenuti con gli Etruschi. In epoca moderna, la necropoli ha svolto un ruolo di primo piano nell’aumentare la fama a livello internazionale della città, per le migliaia di reperti peuceti, greci e latini recuperati. La riscoperta della storia antica di Ruvo avvenne grazie alle famiglie nobili locali, tra cui gli Jatta (fondatori poi dell’omonimo Museo, oggi di rilevanza nazionale, allestito nel palazzo di famiglia), i Caputi, i Fenicia e i Lojodice, i quali allestendo i propri musei privati frenarono la compravendita di quei reperti che ora costituiscono la testimonianza più pura della passata gloria della città greca, come il celebre Vaso di Talos e appunto la Tomba delle danzatrici, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

 

Per approfondire:

– Giuseppina Gadaleta – La tomba delle danzatrici di Ruvo di Puglia,  Loffredo editore, 178 pp.

– Andrea C. Montanaro – Ruvo di Puglia e il suo territorio. Le necropoli, ed. L’Erma di Bretschneider, 1190 p., ill.

 

Fonte: http://www.famedisud.it/arte-da-sud-la-misteriosa-danza-delle-nove-donne-di-ruvo-al-museo-archeologico-di-napoli/

 

Foto RETE

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