L’inglese è una risorsa o un espediente per pavoneggiarsi davanti agli interlocutori?

 

 

Un espediente per pavoneggiarsi davanti agli interlocutori? Per intimidirli? Per ingannarli? È il latinorum contemporaneo? Un effetto collaterale dell’importare pratiche, discipline e tecnologie nate e sviluppate altrove, senza riuscire a farle davvero nostre? O si tratta del segno che l’italiano di molti italiani è, come afferma in questo libro Antonio Zoppetti, fragile?

Sta di fatto che continuo a chiedermi che cos’ha in mente il redattore che scrive “gli influencer sono trend setter by definition: per questo il loro outfit è sempre cool.” O la società di telefonia mobile che mi invia il messaggio: “Il report con le tue performance di aprile è online”, per dirmi che in Rete trovo i consumi del cellulare.

E così, nel nostro Paese, sempre più spesso le persone si informano, viaggiano, pagano pedaggi, bollette e tasse, lavorano, si tengono in forma, giocano e mangiano in itanglese.

In itanglese si legifera, si delibera e si diffondono precetti. Perfino il Miur, redigendo il recente Piano per la formazione dei docenti, sguazza felice in un mare di peer teaching, mentoring e learning by doing, flipped classroom e job shadowing, counseling e workshop, panel, feedback e fall-out, expertise e soft skills.

Scegliendo l’itanglese, ci stiamo perdendo per strada molte parole italiane utili a nominare concetti, oggetti e azioni della quotidianità (perché mai, raccontando e promuovendo i prodotti del territorio, scriviamo sempre più spesso food e wine invece di cibo e vino? Perché un pranzo leggero è un light lunch? Perché dobbiamo compilare un form e non un modulo?). Stiamo rinunciando a dotarci di parole utili a nominare concetti, oggetti e azioni della modernità: perché mai il ministero non esplicita che le soft skills, così importanti per il futuro dei nostri ragazzi, non sono altro che competenze trasversali (capacità di capire e risolvere problemi, di entrare in relazione, di guidare le persone, di lavorare in gruppo)?

Ci perdiamo parole utili a trasmettere sfumature importanti per la comprensione. Chi, per esempio, parla di location, intende indicare una località, un sito, una posizione, un indirizzo, una sede, un edificio, un ambiente, una sala? La cosa certa è che raramente userà il termine nella sua accezione originale: gli esterni scelti per effettuare una ripresa cinematografica o televisiva.

Qualche tempo fa, un collega mi ha scritto: “Ho appena spedito un messaggio a un cliente. Quando l’ho riletto prima di inviarlo, mi sono accorto che di italiano c’erano solo le congiunzioni.”

Nelle pagine di questo libro, Antonio Zoppetti ha raccolto con ammirevole puntiglio una quantità di casi ed esempi. Ma, dopotutto, le lingue vive cambiano, si evolvono e si contaminano. L’inglese è svelto, comodo e cosmopolita. Allora dov’è il problema? E in che modo la questione dell’itanglese riguarda tutti noi?

Casi ed esempi dicono poco, se non vengono accostati ai dati raccolti da Zoppetti. Sono questi a dar conto dell’attuale pervasività dell’itanglese. Vi faccio una singola anticipazione: la società di traduzioni aziendali Agostini Associati rileva un aumento degli anglicismi del 773% tra il 2000 e il 2009, e ulteriori incrementi del 223% nel 2010, del 343% nel 2011, del 440% nel 2014.

Ma proviamo ad accostare, a questo, un altro dato: secondo il Rapporto EF EPI (English Proficiency Index) del 2016, l’Italia è solo ventunesima su ventisei Paesi europei per conoscenza dell’inglese.

Ed eccoci a un punto rilevante: se ad alcuni, e forse a molti, per pura incompetenza dell’inglese molte parole dell’itanglese risultano sfuocate, o del tutto oscure e indecifrabili, vuol dire che, oltre a dimenticarci (o a non inventare) utili parole italiane, scegliendo l’itanglese ci perdiamo il vantaggio del capirci bene quando comunichiamo. E questo è grave.

Lo affermavano Shannon e Weaver, già a metà del secolo scorso: va considerato rumore (cioè: un puro disturbo della comunicazione) tutto ciò che, all’interno di un messaggio, il destinatario non è in grado di decodificare in modo corretto.

È ancora il rapporto EF EPI del 2016 a dirci che non solo in Italia ma in tutto il mondo il settore dell’istruzione è ampiamente sotto media per conoscenza dell’inglese. È assai probabile, dunque, che quando scrive soft skills il nostro Miur scelga un termine che risulta opaco a molti, ostacolando, e non promuovendo, la propensione dei docenti a sviluppare le indispensabili competenze trasversali nei ragazzi.

I due fenomeni (la pervasività dell’itanglese e la modesta conoscenza della lingua inglese) sembrerebbero contrastanti, ma in realtà non lo sono. “A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l’Americano di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti”, scrive Tullio De Mauro. E aggiunge che “correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi.”

È una visione saggia e del tutto condivisibile. Ma, appunto, riguarda una via più lunga, e ci vorranno decenni per percorrerla tutta dato che, secondo i dati Eurobarometro 2012, solo il 40% degli italiani conosce l’inglese, e solo il 34% si ritiene in grado di sostenere una conversazione in quella lingua. Dubito che negli ultimissimi anni la situazione sia migliorata in modo sostanziale.

Preoccuparsi delle questioni della lingua con cui ci si parla non è un fatto di purismo, di estetica o di nostalgia del passato. È una questione cruciale. E non è un problema marginale, ma un tema che riguarda il presente e il futuro, a livello sia individuale sia collettivo.

Il motivo è semplice: tra parole e potere esistono molti legami.

Parole e potere hanno un legame per gli individui: essere padroni delle parole è, ce lo diceva già don Milani, una condizione per essere padroni del proprio pensiero e del proprio destino. Ma l’abuso dell’itanglese può espropriare molte persone (ricordiamoci i dati Eurobarometro) del senso compiuto dei discorsi, rendendole un po’ meno consapevoli e capaci di esercitare le proprie scelte anche in ambiti fondamentali come la politica, l’economia e la finanza, la salute.

Parole e potere hanno un legame forte anche per la collettività: è il nostro Ministero degli affari esteri a ricordarci che la lingua italiana, che gli stranieri giudicano tanto attraente da farne la quarta (o quinta) più studiata al mondo, è uno straordinario strumento di soft power (a oggi non abbiamo una traduzione accreditata per questo concetto, ma potremmo dire “potere morbido”).

Il concetto di potere morbido, formulato alla fine del secolo scorso dal politologo Joseph Nye, dell’università di Harvard, riguarda la capacità di influenzare gli interlocutori suscitandone il consenso attraverso la seduzione e la desiderabilità. È un tipo di influenza che una nazione riesce a esercitare anche senza essere una grande potenza economica o militare. C’è una classifica internazionale del potere morbido: nel 2016 l’Italia è undicesima, prima della Spagna e dopo l’Olanda, e sta guadagnando posizioni. Tutelare e promuovere la lingua italiana, già così desiderabile e seduttiva, può aiutare il nostro Paese a rafforzare il proprio prestigio nel mondo.

Ma non solo. Promuovere l’italiano (e usarlo per i marchi, i nomi dei prodotti, la pubblicità…) può aiutare anche le nostre imprese a tutelare le esportazioni, contrastando il fenomeno dei prodotti contraffatti: quelli che si fingono italiani proprio dotandosi di nomi e marchi che “suonano” italiani.

È un fenomeno imponente, che vale 60 miliardi di euro e oltre 300.000 posti di lavoro nel solo settore agroalimentare. Non a caso Fondazione Altagamma, l’associazione che raccoglie le imprese d’eccellenza nel nostro Paese, ha di recente scelto di dotarsi di una definizione istituzionale in italiano. Sarebbe un esempio da seguire.

Nel 2015 ho lanciato in Rete una iniziativa intitolata #dilloinitaliano, con l’obiettivo di sensibilizzare le persone sul tema dell’itanglese. Non mi aspettavo di ottenere un’attenzione così ampia e trasversale, in Italia e all’estero: quasi 70 mila firme raccolte in venti giorni, oltre 14 mila messaggi spediti da tutto il mondo.

Hanno firmato giovani e anziani, docenti e studenti, traduttori, professionisti, poliglotti, scrittori, giornalisti, pensionati. Hanno firmato italiani residenti all’estero e stranieri residenti in Italia. Hanno firmato da Lima e da Gerusalemme, da Shanghai, dall’Australia, dal Canada, dalla Svezia e dalla Serbia, dalla Tunisia, dagli Stati Uniti, dal Brasile… sono usciti (e sono continuati a uscire negli anni successivi) oltre 200 articoli sui giornali. È significativo che Antonio Zoppetti abbia pensato di riprendere l’esortazione a dirlo in italiano anche nel titolo di questo libro.

Ovviamente, ciascuno resta libero di usare le parole che meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza.

Ma un viaggio tra le pagine di questo libro può, forse, convincere qualche lettore a interrogarsi sulle parole che usa e a sceglierle con consapevolezza, ricordando che parlare più di una lingua è un grandissimo vantaggio, ma che conoscere davvero le lingue, a cominciare dalla propria, significa usarle in modo adeguato a comunicare efficacemente.

Dunque, quando si tratta di parlarci e capirci fra noi, che condividiamo l’italiano come lingua madre, la scelta dovrebbe essere ovvia: meglio in italiano.

Un viaggio tra le pagine di questo libro ci ricorda un’altra cosa importante: la nostra lingua è un bene comune. È un patrimonio di cultura, di bellezza, di storia e di storie, di idee e di parole che appartiene a tutti noi, che vale, che ci identifica e che ci aiuta a esprimerci pienamente come individui, come cittadini e come Paese. Dovremmo averne cura.

di Annamaria Testa

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/meglio-in-italiano-salviamo-la-nostra-lingua-dagli-anglicismi/

Foto:  RETE

 

 

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