IL SUOLO VIVENTE, per ridare vita all’agricoltura

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La natura, questa grande dimenticata. Persino in agricoltura. Recuperare la sapienza ecologica dei processi naturali è invece la missione di un agronomo vicentino, Francesco Da Schio, capofila del progetto «Suolo vivente». Lui lo applica già da anni nella sua azienda agricola di Villadose in Polesine, una piccola realtà familiare dove i buongustai possono comprare direttamente salami e miele. Trent’anni fa era un rudere e oggi, anche grazie al fattore srilankese John e a sua moglie («era un clandestino», rivela il proprietario, soddisfatto di aver dato un lavoro e una dimora ad una famiglia), o forse pure per il sole abbagliante che ci accoglie, è splendente. E’ qui che Da Schio sperimenta la sua idea di coltivazione alternativa sia a quella abituale, ultrachimica, sia a quella biologica.

Tutto partì da una constatazione: «mi sono accorto», ci spiega mostrandoci in auto i campi di soia, il recinto coi maiali, i filari di alberi, i pannelli fotovoltaici, le arnie per le api, «di una pesante erosione del terreno, idraulica ed eolica». Ovvero acqua e vento danneggiano, sbriciolano e fanno perdere consistenza alla terra. «Sì, demineralizzandola da una parte e dall’altra eliminando gli alberi per far posto alle colture intensive». Ma mentre per risolvere il secondo problema la soluzione è intuitiva – «piantare alberi» – sul primo occorre spiegare l’importanza dei vermi. Proprio così: «i microorganismi sono fondamentali: i lombrichi mangiano la materia organica, la trascinano in profondità, la mineralizzano e sollevano il terreno». Ne consegue la novità, che suona come un ritorno non tanto all’antichità, quando alla nuda naturalità: l’abolizione dell’aratro.

Francesco Da Schio

Racconta Da Schio: «ho parlato con un agricoltore italiano che lavora in Argentina, il paese delle sterminate pampas: là il 100% delle colture l’aratro non lo vede più. Poi, basandomi anche sui lavori della professoressa vicentina Anna Trattenero dell’Associazione Blu e del docente di agroecologia Maurizio Paoletti, ho pensato di coltivare senza più arare con queste macchine sempre più enormi che ci sono adesso. Come facevano gli Aztechi, o anche gli Etiopi». Negli ultimi cinquant’anni, infatti, «la terra è diventata inerte: tanto a renderla produttiva, si dice, c’è l’aratro, o c’è la chimica. Invece si inaridisce». La differenza con il suo metodo è che «dopo otto-nove anni qui puoi fare qualsiasi coltura». Mentre voltando e rivoltando il terreno, drogandolo di sostanze («che anch’io utilizzo e infatti non faccio biologico, ma le uso via via sempre meno») e non lasciando spazio ai benefici vermiciattoli, ci si riduce ad una solo prodotto. «Certo, ci vuole pazienza, bisogna tener duro nei primi anni». E dunque si deve riuscire a sostenere l’eventuale scompenso economico per una impresa che voglia convertirsi al suolo vivente. «Ma esistono i contributi dell’Unione Europea erogati attraverso la Regione», ribatte l’agronomo, «e sono importanti, garantiscono un ristoro». E difatti il gruppo di aziende venete da lui “capitanato” che già lo praticano, assieme all’Università degli Studi di Padova e al Centro Istruzione Professionale e Assistenza Tecnica del Veneto, si avvalgono di finanziamenti nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020.

Le implicazioni non sono soltanto agrarie. Sono anche etiche: «difendere il suolo significa sostenere la fatica dell’attesa, dare un senso diverso al tempo». Più sereno, più sano, più lento, più solido, più corrispondente ai ritmi organici. In una parola: più naturale. A questo punto, serve una definizione più ampia e ardita. Da Schio, uomo mite, disponibile, dalla parlata calma e sorridente, che sembra riassumere anche fisicamente l’appagamento che dà il pur non facile amore per la terra, ce ne offre ben tre: «agricoltura con l’ombrello, perchè quando piove, qui, non si affondano i piedi nel fango: la terra assorbe. Agricoltura resiliente, cioè capace di adattarsi. Ma quella che mi piace di più è la terza: olimpica, perchè propria degli Dei». Nel frattempo che questi ultimi diffondano il verbo, l’Europa «incentiva giustamente gli agricoltori di produrre ambiente, ovvero di dare spazio a piante che non diano frutto, o ad aree che non servano a pascolo», ovvero riforestare e lasciare aree libere per combattere il fenomeno del surriscaldamento globale. L’appello, sembra dire Da Schio, è di restar lontani da un ambientalismo estremista e puntare invece ad un mix fra il sano pragmatismo, che tiene conto delle politiche pubbliche e della convenienza aziendale, e «l’agroecologismo, che si batte per una rifertilizzazione organica» di Madre Terra.

Di Alessio Mannino

Fonte: https://www.vvox.it/2017/09/28/abbasso-laratro-viva-vermi-lagricoltura-olimpica-del-suolo-vivente/

Foto RETE

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