Il rito funebre nel tempo contadino di Orsomarso  

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Quando in una famiglia moriva qualcuno, l’annuncio veniva dato dal pianto straziante dei congiunti. In pochi minuti la notizia circolava per tutto il paese. Subito si mobilitavano parenti e vicinato per le incombenze più immediate.

Il morto veniva vestito, quando il corpo era ancora caldo, con l’abito migliore, o, se le risorse lo consentivano, si provvedeva con un abito nuovo.

Si preparava la cassa con gli indumenti appartenuti al morto, possibilmente anche con ciò che aveva al momento del decesso. Si copriva il tutto con un lenzuolo, meglio se ricamato, e poi vi si adagiava il cadavere, con i piedi verso la porta, per agevolare l’uscita dello  spirito dalla casa e dal mondo.

Gli oggetti dovevano essere del morto, ma non ricevuti in regalo o di un congiunto, perché era di “malagurio”. Se si dimenticava qualcosa d’importante si poteva rimediare col prossimo morto, per “mandarlo” a destinazione.

Durante la veglia, precisamente poco prima della mezzanotte, bisognava lasciare la salma da sola, perché venivano i parenti defunti a far visita.

Era uso mettere nella cassa anche oggetti. In una tasca dell’abito s’infilavano un pezzo di pane e soldi spicci, perché nel trapasso verso l’aldilà con il pane si poteva rabbonire un cane che ostacolava il cammino, ed i soldi servivano per pagare un barcaiolo che avrebbe permesso di attraversare il fiume dell’oltretomba.

Tra le mani incrociate del defunto si sistemava una corona per il rosario. Qualche goccia di profumo alleggeriva i miasmi della morte.


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Durante la veglia e nel percorso verso la chiesa (ma non di notte perché avrebbe significato favorire l’azione del diavolo), i famigliari, col lamento funebre, fatto anche di urla strazianti e gesti isterici, manifestavano il loro dolore e decantavano il morto.

Il nero era il segno del lutto.  Le donne avvolgevano i loro corpi con indumenti scuri; alcune rivestivano di nero persino gli orecchini. I maschi indossavano cravatta e camicia nere; oppure un bottone rivestito di stoffa sul colletto della giacca o una fascia sulla manica.

Per una settimana i parenti più stretti non uscivano di casa: si “teneva il lutto”. Gli uomini evitavano di farsi la barba, le donne non si pettinavano. Non si cucinava, pensavano famigliari e conoscenti a portare qualcosa. Non si accendeva il fuoco nel focolare.

Per il funerale si portavano fiori che si coltivavano in paese. La corona (spesso in un unico esemplare) veniva fatta con rami di ulivo intrecciati e ornati con fiori di carta velina. Solo in tempi più recenti entrò in uso l’affitto di corone di metallo da alcuni negozi in paese; si addobbavano e, dopo il funerale, venivano restituite.

Per tutto il primo dopoguerra non esisteva il servizio funebre dei privati. Era la comunità (parenti, amici, conoscenti) che si occupava della sepoltura. La cassa, in genere costruita da falegnami del paese, veniva portata a spalla fino al cimitero. Il prete offriva due servizi: uno prevedeva l’accompagnamento fino alla croce, (u Sckinariddu), l’altro fino al camposanto. Chiaramente anche il compenso variava.

Lo “scordamunnu”

Nella stanza dove era avvenuto il decesso (o in una qualunque), per tre giorni, la sera, si mettevano un catino con l’acqua, un’asciugamani, il sapone, un pettine e un po’ di cenere per terra, se il defunto era una donna. Se invece era un uomo si aggiungevano gli attrezzi da barba.

Se la mattina si trovava sulla cenere un’impronta ben marcata, significava che il defunto aveva compiuto serenamente il suo viaggio nel regno dei morti. Se invece l’impronta era leggera, appena accennata, voleva dire che il morto era ancora legato alla casa, alla vita terrena. Poteva far sentire la sua presenza con rumori, gesti che spaventavano, soprattutto di notte. Allora, per spingerlo a completare il suo trapasso nell’aldilà, lo si insultava violentemente, bestemmiando il suo nome, mandandolo a quel paese.

Si pensava che il morto ritornasse per prendersi u “scordamunnu”.  Si credeva che era difficile lasciare affetti, cose, luoghi; staccarsi dalla bellezza della vita, e tornava come per soddisfare un bisogno estremo. Poi, con lo scordamunnu, calava il sipario.

Giovanni Spinicci

Ringrazio Giovanni per la sua disponibilità.

Saveria Russo era la nonna di Rosalia Palombino.

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