STORIE CALABRESI – Pentedattilo e la strage degli Alberti

In provincia di Reggio Calabria, incastonato tra le montagne del versante jonico dell’Aspromonte, sorge Pentedattilo, un piccolo borgo abbandonato, tanto da meritarsi l’appellativo di “paese fantasma”, e riconosciuto come uno dei più suggestivi dell’intera area grecanica, se non della regione.

Pentedattilo prende il suo nome dalla conformazione della roccia sulla quale si innalza, simile ad una mano gigante (dal greco Penta Daktilos, ovvero cinque dita). In verità, la particolare forma della montagna – il Monte Calvario – da cui ebbe origine il nome non è più interamente visibile a causa del crollo di alcune parti rocciose. Restano, però, incastonate nella roccia le leggende e le fantasticherie sulle origini e sulle maledizioni che ruotano intorno a questo suggestivo borgo.

Edward Lear, celebre artista e scrittore inglese, nel suo “Diario di un viaggio a piedi. Reggio Calabria e la sua Provincia (25 luglio – 5 settembre 1847)” celebra la bellezza del luogo, delle “meravigliose rocce scoscese […] sorprendentemente maestose e selvagge” che fanno di Pentedattilo, come lui stesso ammette, una magica scena da romanzo. Ecco come appariva il piccolo borgo agli occhi del visitatore verso la metà del ‘800: “[…] l’apparire di Pentedattilo è perfettamente magico, e ripaga qualunque sacrificio fatto per raggiungerla. Selvagge sommità di pietra spuntano nell’aria, aride e chiaramente definite in forma (come dice il nome) di una mano gigantesca contro il cielo, le casi di Pentedattilo sono incuneate all’interno delle spaccature e dei crepacci di questa piramide spaventosamente selvaggia, mentre tenebre e terrore covano sopra l’abisso attorno alla più strana abitazione umana. […] le abitazioni alla sua superficie ora consistono in poco più che un piccolo villaggio, per quanto i resti del vasto castello ed estese rovine di costruzioni sono i segni della Pentedattilo che ha visto giorni migliori”.

La storia

Chiesa dei SS. Pietro e Paolo

La fondazione di Pentedattilo risale al 640 a.C. circa ad opera di alcuni coloni greci, i Calcidesi. Durante il periodo greco-romano, il piccolo borgo era tutt’altro che un “paese fantasma” rappresentando invece un fiorente centro economico per tutta l’area circostante. La sua posizione strategica di controllo sulla fiumara Sant’Elia, via privilegiata per raggiungere l’impervio Aspromonte, lo rese inoltre, durante il dominio romano, un importante centro militare.

L’epoca bizantina ha rappresentato per Pentedattilo l’inizio di un lungo periodo di declino causato, in particolare, dai continui saccheggi perpetrati per mano dei Saraceni. A seguito della conquista da parte dei Normanni (sec. XII), il paese divenne, per volere del Re Ruggero d’Altavilla, uno dei possedimenti della famiglia Abenavoli. Nel 1589 il feudo fu venduto all’asta dal Sacro Regio Consiglio alla famiglia degli Alberti, insieme al titolo di marchesi; questi vi rimasero fino al 1760, quanto il feudo passò alla famiglia dei Clemente, già marchesi di San Luca, e da questi ai Ramirez nel 1823.

Il barone di Montebello, Bernardino Abenavoli, e la famiglia degli Alberti sono i protagonisti della famigerata “Strage degli Alberti”, da cui derivano le leggende e dicerie che avvolgono di mistero la storia di Pentedattilo.

Nel 1783 un drammatico terremoto, che devastò gran parte del territorio reggino, rase al suolo gran parte del centro di Pentedattilo tra cui il castello, noto in passato come il Castello delle 300 porte e simbolo della strage, di cui rimangono oggi solo pochi ruderi. Gli abitanti di Pentedattilo, in seguito, utilizzarono proprio i resti del castello andato distrutto per rinforzare le proprie abitazioni danneggiate dal sisma.

Un paese fantasma

Il terremoto del 1783 ed alcune scosse successive contribuirono inoltre all’allontanamento dei Pentedattilesi dal borgo. L’abbandono è stato definitivo negli anni ’60 del novecento quanto iniziò un lento movimento franoso che rese necessario dichiararlo inagibile.

Il borgo di Pentedattilo ha ritrovato nuova vita a partire dagli inizi degli anni ’90 del novecento, quando venne riscoperto da giovani e associazioni. Volontari provenienti da tutta Europa avviarono infatti un lento e tenace percorso di recupero che ha portato il borgo ad essere oggi un centro artistico e culturale di notevole valore. Passeggiando per le vie del borgo, ci si imbatte oggi in piccole botteghe aperte dagli artigiani del luogo per la vendita dei loro prodotti (liquori, saponi artigianali, oggettistica tipica della zona grecanica).

Pentedattilo è ritornato a rivivere grazie anche al Pentedattilo Film Festival (http://www.pentedattilofilmfestival.net), un concorso internazionale di cortometraggio, giunto nel 2016 alla 10° edizione, che raccoglie ogni anno artisti di ogni dove.

La strage degli Alberti

Il libro di Alessandro Cavallaro

Siamo nel 1686… è la notte di Pasqua. La storia ha come protagonisti due giovani innamorati e due famiglie, tra cui non scorre buon sangue. Non siamo nella Verona del 1300, teatro del famoso dramma shakespeariano, bensì a Pentedattilo, piccolo marchesato della Calabria.

La vicenda è stata tramandata sino ai giorni nostri in versioni diverse, in cui cambiano i particolari ma non i protagonisti e i fatti principali. Riportiamo qui la versione più ricorrente.

Si racconta che tra la famiglia Alberti, marchesi di Pentedattilo, e la famiglia Abenevoli, baroni di Montebello Ionico, vi era da sempre una rivalità nata per questioni relativi a confini comuni. Ciononostante, nel 1680, anche su pressioni del Viceré di Napoli che desiderava che nella zona regnasse la pace, le tensioni tra le due famiglie sembravano andare scemando. Inoltre, il capostipite della famiglia Abenevoli, il marchese Bernardino, progettava di prendere in moglie Antonietta, figlia del marchese Domenico Alberti, di cui si era innamorato e dalla quale veniva corrisposto. Il marchese Domenico aveva promesso a Bernardino la mano della famiglia, ma l’unione sarebbe stata celebrata solo nel momento in cui Antonietta avrebbe raggiunto l’età da matrimonio.

Alla morte del marchese Domenico, gli succedette il figlio Lorenzo, il quale, poco tempo dopo la morte del padre, prese in moglie la figlia del Viceré di Napoli, Caterina Cortez.

In occasione del matrimonio, giunse a Pentedattilo il corteo nunziale: il Viceré accompagnato dalla moglie, la futura sposa e il fratello Don Petrillo Cortez. Don Petrillo conobbe in tale occasione Antonietta e, trattenutosi a Pentedattilo anche dopo il matrimonio, a causa di un’improvvisa malattia, ebbe modo di conoscerla meglio e di innamorarsene; chiese quindi a Lorenzo di poter sposare Antonietta e il marchese Alberti acconsentì alle nozze, non tenendo in alcuna considerazione la promessa del padre al barone Bernardino.

Il Barone, venuto a conoscenza del matrimonio tra Don Petrillo e Antonietta, andò su tutte le furie e decise di vendicarsi sulla famiglia Alberti.

La notte di Pasqua del 16 aprile 1686, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele della famiglia Alberti, Bernardino riuscì ad introdursi nel castello di Pentedattilo con i suoi uomini e, arrivato fino alla camera da letto di Lorenzo, lo uccise a colpi di archibugio. Nel frattempo, i suoi uomini assalirono le varie stanze del castello uccidendo quasi tutti i suoi abitanti, compreso un bambino di soli nove anni, fratello di Antonietta. Da tale massacro furono risparmiati Caterina Cortez, Antonietta Alberti, la madre Donna Giovanna e Don Petrillo Cortez. Quest’ultimo fu preso in ostaggio come garanzia contro eventuali ritorsioni da parte del Viceré.

Dopo la strage, Bernardino portò nel suo castello a Montebello Ionico Antonietta e la sposò il 19 aprile 1686.

La notizia della strage giunse presto alle orecchie del Viceré di Napoli, il quale inviò una spedizione militare in Calabria. L’esercito attaccò il Castello degli Abenavoli, liberò Don Petrillo e catturò gli esecutori della strage, le cui teste furono tagliate e appese ai merli del castello di Pentedattilo.

Il barone di Montebello, grazie a vari espedienti e alle sue fidate amicizie, riuscì a fuggire insieme ad Antonietta e, dopo aver lasciato quest’ultima presso un convento a Reggio Calabria, scappò prima a Malta ed in seguito a Vienna dove entrò nell’esercito austriaco. Bernardino trovò la morte in battaglia nell’agosto del 1692 mentre Antonietta Alberti, il cui matrimonio fu comunque sciolto dalla Sacra Rota in quanto contratto per effetto di violenza, finì i suoi giorni nel convento di clausura, consumata dal dolore e dal rimorso per essere stata lei la causa dell’eccidio dell’intera sua famiglia.

La mano del diavolo e manifestazioni spiritiche*

E siccome storia e fantasia popolare si intrecciano inevitabilmente, la terribile vicenda ha consegnato il quieto paesino alla leggenda. Si racconta, infatti, che quando Lorenzo Alberti fu colpito a morte dal barone, poggiò la mano alla parete, lasciando l’impronta delle cinque dita insanguinate, e che questa sia tuttora visibile nella rupe di Pentidattilo quando, nel chiarore dell’aurora, le pareti di roccia colpite dal sole si colorano di rosso. Per questo motivo Pentidattilo viene indicata come “la mano del Diavolo” e si narra che nelle sere d’inverno, quando il vento s’alza tra le gole della montagna, interrompendo col suo sibilo il silenzio della solitudine sia possibile udire il rumore degli zoccoli dei cavalli che da Montebello si avvicinano a Pentedattilo. Altri sostengono invece che, sempre di notte, si odano per le vie del borgo le urla del Marchese Lorenzo Alberti e degli abitanti del suo castello brutalmente trucidati per mano di Bernardino Abenavoli, Barone di Montebello, e dei suoi uomini. Inoltre molte persone sono pronte a giurare che la notte del 16 Aprile di ogni anno, si vedono delle strane ombre in paese, madri con i bambini per la mano, che corrono inseguite da persone col coltello che tentano di ucciderli. Vere o no che siano queste manifestazioni, tutt’oggi gli abitanti di Pentadattilo nuovo, durante la notte, non si avvicinano mai al paese vecchio.

La maledizione di Pentedattilo*

Nel corso dei secoli, svariate leggende nacquero intorno alla musa dalle cinque dita alzate al cielo, le cui grandi rocce di arenaria, illuminate dalla luce rossa dell’aurora sembrano veramente i segni terreni lasciati da un intervento divino. Narrano gli antichi che sull’imponente roccia a forma di mano aleggia il mistero di una maledizione destinata ad abbattersi sul paese e a distruggerlo completamente. La ragione di questa profezia, tramandata nei racconti popolari, fu proprio l’enorme violenza scaturita dalla strage: la rupe a forma di gigantesca mano si sarebbe abbattuta sugli uomini per punirli di tutto il sangue versato e per vendicare i morti innocenti di quella triste vigilia di Pasqua del 1686.

Il tesoro nascosto*

Secondo un’altra leggenda esisterebbe, invece, un tesoro, frutto delle diverse ricchezze accumulate dalle popolazioni che nella storia occuparono il paese, nascosto dagli Abenavoli, vecchi proprietari del feudo di Pentidattilo, proprio al centro della montagna. Pare che dopo il tragico conflitto tra le due famiglie di questa immensa ricchezza si persero le tracce. Fin quando, un giorno, un fantasma svelò a un cavaliere di passaggio che se fosse riuscito a fare cinque giri intorno alle dita della montagna, che allora erano perfettamente allineate, su un piede solo, questa si sarebbe aperta facendo riemergere il tesoro. La notizia si diffuse velocemente e in molti azzardarono l’impresa, ma invano. Un dì un cavaliere giunto appositamente dalla Sicilia riuscì a compiere ben quattro giri attorno alla mano, e la montagna cominciò ad aprirsi, ma al compimento del quinto passaggio, quello riferibile al dito mignolo, un intero costone della mano crollò sul cavaliere, uccidendolo. Anche questi avvenimenti contribuirono a far definire Pentidattilo come un luogo maledetto. Ed ancora oggi, nelle notti rischiarate dalla luce argentea della luna, la gente giura di udire dei lugubri lamenti provenire dall’alto della montagna: sono i morti che dall’aldilà chiedono di essere vendicati.

L’uomo incappucciato

Si racconta che qualche anno fa, in una sera d’estate, subito dopo una manifestazione teatrale per le vie del paese, alcuni visitatori notarono l’ombra di un uomo incappucciato, immobile sotto un lampione, ma pensando che si trattasse di un attore dello spettacolo non se ne preoccuparono. Quella figura inquietante si trovava lì anche la sera successiva, quando i visitatori vi tornarono per una visita, immobile e sempre più nitida man mano che si avvicinavano. Purtroppo fu la suggestione e la paura ad averla vinta e i 3 visitatori decisero di ritornare indietro e mettersi in viaggio, senza riuscire a scoprire chi si nascondesse dietro la sagoma di quell’uomo.

GIANNI IANNI PALARCHIO

Fonte: https://calabriahistory.wordpress.com/2017/01/29/pentedattilo-e-la-strage-degli-alberti/?fbclid=IwAR0iPdZMcHA3tx4EFTIEFDOP113pr-qXaLSgsXBNfsPkbtYZe4SSaVb6NXQ

*Liberamente tratti dal libro “Febea – Miti, misteri e leggende di Reggio Calabria e dintorni” di Marina Crisafi, Laruffa editore

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