STORIE – La lezione di Sichinenza

Voglio finire […] con Sichinenza, un mendicante da favola, nella speranza che il personaggio lasci aperta alle sue spalle una finestra sulla poesia, e dicendo poesia intendo disubbidienza al sistema, ad una società che ti dà magari il benessere e il successo, ma dopo averti rubata l’anima.

L’anima Sichinenza l’ha salvata, ed è un peccato che il suo esemplo non possa essere seguito se non in un territorio segreto dove ognuno di noi lascia la corazza delle menzogne convenzionali per ritrovare la parte migliore di se medesimo: quel tanto di innocente, di errabondo, di avventuroso, di magico che riusciamo a sottrarre all’usura del conformismo e della paura, nella lotta che conduciamo per sopravvivere.

Da morto che era, simile a quel protagonista di Fellini 8/2, il quale, dopo essersi sparato, ritorna in scena a dimostrare che i limiti tra sogno e realtà sono illusori, da morto che era, il vecchio vagabondo Sichinenza, mi è apparso improvvisamente in treno, vicino a Vibo, alto come un granatiere e con una vegetazione di barba sulla faccia magra come l’ha solo chi sta perennemente in trincea sotto il bombardamento della fame.

– Mi avevano detto che eri morto e che, come Lio, al tuo trasporto non c’era nessuno. È una stupida invenzione, e basta…

– La gente si diverte a immaginare le cose più strane. Si vede che io sono nei suoi pensieri…

– Sei diretto dove?

– Non ho destinazione… Viaggio per mettere insieme un po’ di carità…

– In treno la gente non ha il granchio al borsellino?

– Meno che in terra. Mette la limosina tra le spese di viaggio, fa un conto solo…

– Sei psicologo, Sichinenza… Hai inventato una nuova formula di questua, quella ferroviaria… Hai magari l’abbonamento…

– Certo che ce l’ho… A volte perfino i controllori mi regalano qualche lira… Riesco simpatico perché non chiedo nulla. Mi presento e basta…

– La tua presenza è un campanello d’allarme. Chi ti aiuta sente che potrebbe, chi sa mai, accadere anche a lui…

– Forse è questo… Tutti siamo in balìa del vento come foglie. I ricchi si credono bene attaccati al ramo dell’albero, e non sanno che in mare non c’è taverna…

– Ti trovo magro come un chiodo ma sempre in gamba…

– Ho 73 anni… Dormire all’aria aperta fa bene, allarga i polmoni… Mi volevan ricoverare all’Ospizio… Mi son ribellato. Meglio la fame che un numero di matricola.

– Non hai torto… Hai scelto la libertà, anche se ti è costata e costa cara…

Sichinenza mi è lontano parente, di parte materna. Giovanissimo andò via di casa e si dette al vagabondaggio da paese a paese. Fu inutile tentare di civilizzarlo, di rimetterlo in onda con la vita di famiglia. Restò refrattario. Non ebbe mai la coscienza della propria degradazione. La casa, la famiglia, gli altri, la vita-bene: acqua tra le dita di Sichinenza. Se avesse avuto il disgusto degli uomini, o fosse stato sorretto dalla fede, sarebbe finito eremita o santo. Egli invece cerca gli uomini sui treni, e, nel presentarsi, non chiede nulla. Sta agli altri capire il suo bisogno. Se gli altri non comprendono saluta mestamente, compiangendoli, e parte.

– Eccoti mille lire, Sichinenza, per premiarti di essere vivo…

– Vi ringrazio, signor Rèpaci. Siete stato sempre buono con me. Molti mi disprezzano per esser così… Voi siete diverso…

– Non è che ti approvi in tutto, Sichinenza, tuttavia c’è in te qualche cosa che dà spazio alla libertà, quella povera libertà che ognuno cerca di difendere come può, col risultato di render più stretta la catena. Una cosa è certa, ed è che ti preferisco a tante persone sistemate, in regola con la famiglia, la società, la religione, la politica, e, tuttavia, sotto sotto, sempre pronte a fregare il prossimo. Tu te ne andrai da questa terra non avendo mai fatto male a nessuno. Forse solo a te stesso…

– Neanche a me stesso, signor Rèpaci. Io son contento di esser quel che sono, un vagabondo. Non mi cambierei con nessuno. Anche se stringo la cinghia non maledico il mio destino. L’ho voluto io così… Del resto ce ne son tanti peggio di me…

– Sai perché ti voglio bene, Sichinenza?

– Siamo lontani parenti, signor Rèpaci. Vostra madre e la mia eran seconde cugine. Si parlava tanto di Maria Parisi in casa mia. Ricordo un ritratto di mia madre con la vostra. Si tenevan per mano e si sorridevano…

– Non è solo per questo, Sichinenza… Un giorno tu ti presentasti per salutarmi, senza chieder nulla, come sempre. Io ti diedi, ricordo, cinquecento lire. Tu prendesti quel danaro senza alcun servilismo, quasi come un prestito, è questa la tua eleganza. Avevi un cartoccio in mano di roba da mangiare, te l’aveva data qualcuno pochi minuti prima. A pochi passi da te, seduto su una panca, c’era un tozzolante, di quelli che fan la litania, magnificando le loro piaghe. Dopo avermi ringraziato tu mi lasciasti e ti dirigesti verso di lui. E gli mettesti in mano il cartoccio di mangiare. Ho capito, quel giorno, Sichinenza, che sei rimasto un signore…

– Questo lo faccio sempre, signor Rèpaci… Dopo aver levato quel che mi occorre per la giornata do quel che mi resta ai più affamati di me…

– Ti son riconoscenti di ciò?

– Quasi mai… Qualche volta mi hanno aggredito sospettando che avessi nascosto nelle calze chi sa mai quanti fogli da mille… Sono poveri diavoli… Bisogna perdonarli…

A Tropea Sichinenza scende. Per oggi ha quel che gli bisogna, e il viaggiare diventa inutile. Stanotte se ne starà disteso sulla paglia di una guardiola alta sul mare a veder le stelle cadenti, prima di sparire nel sonno: quest’altra libertà in cui si prolunga e perfeziona quella da lui voluta con tanta innocenza di cuore.

 

Da CALABRIA GRANDE E AMARA, di Leonida Rèpaci, Rubbettino

Foto RETE

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