ALVARO: La leggenda del dolce «far niente>

Questo testo risale ai primi anni Cinquanta. Leggerlo sconvolge, perché è di un’attualità sorprendente.

La leggenda del meridionale sfaticato proviene, a mio modo di vedere, da una leggenda più diffusa: quella dell’italiano “dolce far niente”. Si sa che i pregiudizi sulle nazioni e sulle regioni hanno la vita lunga, e basterebbe pensare alla fama dell’italiano straccione diffusa nel mondo. Per una facilmente spiegabile psicologia collettiva, ogni gruppo etnico ama trovare nel suo vicino i difetti che gli piacciono di più; e che in definitiva lo seducono con un misto di disistima ostentata e di larvata invidia.

Si è visto come l’immagine di un’Italia di stracci, venuta fuori dalla catastrofe del Rinascimento, via via attraverso Callot e la commedia napoletana, sia piaciuta nuovamente nel mondo attraverso il cinema italiano dopo la seconda guerra, e come questo sia stato il mezzo per richiamare l’attenzione sui nostri problemi. Noi sappiamo bene che v’è un’altra Italia, quella cui basterebbe la raccomandazione della sua ricostruzione fisica dopo le rovine della guerra. Basterebbe, a questa Italia povera, per dire meglio di sé, la sua attitudine tecnica innestata sulla sua antica attitudine artistica, il fatto che dalle sue mani escano alcuni prodotti tra i più raffinati di tecnica antica e moderna, e meccanica, che possa vantare la civiltà contemporanea. Il senso della bellezza, dell’armonia, della gioia, del lusso, creato dalle mani tra le più povere del mondo.

Quanto alla leggenda del meridionale sfaticato, credo di averne trovato l’origine. Italiani e stranieri hanno potuto vedere, al disotto di una certa latitudine, mettiamo da Napoli in giù, l’individuo che può stare immobile sulla soglia della sua porta o in un raggio di sole, perfettamente immobile come se la sua vita non fosse altro che questo ozio. Un meridionale sa bene che questo è solo un momento del giorno, e un momento culminante della vita. È uno stato di assoluto riposo, o rilassamento come dicono oggi, dopo la fatica; in cui l’individuo si ritrova solo con se stesso, in uno stato di totale abbandono fisico e di profonda vita morale e spirituale: il suo passato, il suo avvenire, la sua sorte, la sua giornata, i suoi affetti e pensieri, gli si presentano alla mente in quello stato in cui la coscienza diventa padrona di sé, e matura oscuramente, come il seme che germoglia, il suo divenire e la sua azione, il suo orientamento nell’impegno degli affetti e dei doveri quotidiani. Se un simile esercizio, poiché si tratta di un vero esercizio spirituale, lo leggessimo descritto nei libri indiani, ci sedurrebbe col suo colore di culto segreto della personalità individuale. Mi augurerei che ognuno, sotto qualsiasi latitudine, trovasse un momento simile nella sua giornata, nobile momento cui soltanto la povertà dà un colore di rinunzia all’azione.

Confesso che nella mia vita io non l’ho ancora perduta quell’ora immobile, e devo ad essa i migliori momenti del mio orientamento più saggio; l’ora trascorsa al buio o al sole, in un angolo della mia casa o in campagna.

Negli ultimi anni della sua vita Andre Gide, conosciuta meglio Roma e la Sicilia, fu veduto spesso avvolto nel suo mantello su una scalinata o, addossato a un vecchio muro, al sole, come una lucertola, o un lazzarone, o un contemplatore, sia come si voglia. E oggi, molti psicologi si affannano a spiegarci come possiamo ritrovare quell’ora antica in cui non si fa niente e la coscienza veglia su tutto senza sforzo.

Basterebbe figurarsi ora per ora la giornata di un meridionale, e intendo un meridionale che ha il lavoro per sua pena più che per sua consolazione, per accorgersi di quanti instancabili travagli è fatta la sua giornata. Mi riferisco anche alle donne, queste mute protagoniste della fatica meridionale di vivere. Oggi quella profonda rivoluzione portata da due prodotti dell’industria italiana, i gas liquidi e i micromotori, i due strumenti che muteranno la faccia della vita italiana, stanno raggiungendo anche il Sud.

Fino a oggi, la fatica meridionale di vivere pressappoco nelle forme di mille o duemila anni fa, attingere l’acqua a chilometri di distanza e trasportarla come una soma, percorrere dieci o quindici chilometri per raggiungere il posto di lavoro, a piedi e per sentieri impervi, strappare ai boschi e ai torrenti la legna per accendere il focolare, trafficare come fanno quelle virago ormai famose, le donne di Bagnara in Calabria, poca merce da Messina a Reggio, da Reggio a Tropea e nei paesi dell’interno, a piedi, col carico sulla testa, quella fatica è appena una parte del lavoro quotidiano nei campi, nei boschi, nei cantieri, quello che noi consideriamo il vero e proprio lavoro. Pure, chi vede quelle virago sedute sul marciapiede della stazione di Villa San Giovanni, immobili, non immagina che si tratta di alcune fra le donne più intrepide della società umana.

Non escludo la parte che ha la pigrizia in alcune manifestazioni della vita meridionale. Ma so che, dietro le migliaia di aspiranti uscieri dell’Italia meridionale, le centinaia di migliaia di diplomati senza occupazione, esiziali a qualunque società, si trova la più dura sconfitta di ogni sforzo, mesi e anni di ricerche affannose di un lavoro e di qualunque lavoro, giornate di lavoro mal compensato, di sorelle e mogli e figlie e madri irreggimentate a lavori stagionali, come le raccoglitrici di olive, per una paga di poco superiore al prezzo d’un chilo di pane.

 Conosco i campicelli seminati sulla riva dei torrenti o presso il mare, che una pioggia o una burrasca cancellano come puerili castelli di sabbia. Ve tutto un canzoniere popolare amarissimo dalla fatica tentata e frustrata: «Me poveretto, dove ho seminato – Nella sabbia, in riva a un torrente…». Passando in treno sulle coste dell’Jonio o del Tirreno, in Calabria e in Sicilia, un viaggiatore attento può scorgere questi puerili campicelli. Poiché la natura sorride, ci vogliono occhi esercitati per capire la vicenda umana che essi significano, e la pazienza, e la tenacia.

Fino a quando l’economia meridionale restò patriarcale, quel dramma era stato poco avvertito, e bisogna aggiungere che fa parte del carattere meridionale nascondere gelosamente le proprie necessità, e questa è un’altra lezione di vita che potremmo avere da tanta umiltà. Tutte le volte che ho parlato di lavoro con meridionali che vivono le vicende del loro paese, ho sempre udito l’acuta osservazione che il lavoro nell’Italia settentrionale ha il suo compenso, ho avvertito un’acuta visione della socialità di questo lavoro, cioè l’intuizione dell’importanza del lavoro in una società organizzata.

Bisogna tenere a mente che il lavoro nell’Italia meridionale si risolve, anche oggi con la Cassa del Mezzogiorno, in giornate lavorative senza la creazione di beni strumentali che introducano sul luogo quel complesso di interessi e quella continuità che rendono articolata una economia e che aprono la strada all’iniziativa individuale, alla responsabilità, al senso di avventura. Si crede a torto che un meridionale non avverta queste cose, e che una troppo lunga storia di necessità non lo abbia reso acutamente sensibile. Il meridionale adibito ai Cantieri di Lavoro o alle stesse opere pubbliche, sa che lo stesso è accaduto sotto tutti i regimi preoccupati in qualche modo del problema meridionale; sa che, chiuso il periodo delle giornate lavorative, resta al patrimonio sociale soltanto il ricordo del salario percepito e lo spettacolo di una burocrazia sempre più numerosa che guadagna stipendi sicuri sulla sorveglianza di un lavoro insicuro, e su riforme agrarie che sostituiscono ai vecchi contadini chi non è mai stato contadino; sa che molti degli imprenditori locali di opere pubbliche non hanno scrupoli, poiché basta una stagione per veder crollare edifici e argini. La suprema moralità del lavoro, la sua utilità sociale, la sua capacità di produrre altro lavoro, non è ancora l’insegnamento che un meridionale può trarre da quanto si sta tentando con tanta larghezza di mezzi nel Sud. E credere che la Cassa del Mezzogiorno non appaia agli occhi di ogni meridionale come la Cassa dell’ Industria italiana fuori dell’Italia meridionale, è far torto al senso realistico del Sud.

E intanto, il fatto nuovo dell’Italia meridionale in questi anni è la facoltà associativa che il cittadino ha scoperto in sé. La vita meridionale è disgregata socialmente, vale a dire senza vere gerarchie sociali, intellettuali, economiche. Nella crisi estrema di quelle contrade, si fa strada una tendenza associativa che è il vero fatto nuovo. Nessuno avrebbe mai immaginato alcuni anni fa che il Servizio Civile dei volontari internazionali, i quali lavorano gratuitamente alla costruzione di opere pubbliche, potesse vedere accorrere offerte volontarie di lavoro gratuito da parte delle popolazioni locali.

Alla leggenda dei meridionali sfaticati, bisogna opporre che la mancanza di una socialità in tutto quanto è stato tentato finora nell’Italia meridionale non conferisce vigore né passione, e fa dubitare della stessa utilità d’un lavoro. I meridionali cominciano a pensare collettivamente.

È un fatto nuovo che bisogna considerare con molta attenzione.

Da UN TRENO NEL SUD, di Corrado Alvaro – Rubbettino

Foto RETE

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