Finanzcapitalismo, il potere del denaro

Mega-macchine sociali: così sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell’antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l’esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell’Urss.

Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi.

L’estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell’esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all’estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona.

L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando, si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio.

Accostando come si è fatto sopra capitale e potere non s’intende qui riproporre la tradizionale concezione che rinvia al potere del capitale. In suo luogo si avanza la nozione di capitale come forma di potere in sé, un potere organizzato su larghissima scala. Stando a questa nozione, «i capitalisti sono mossi non dall’intento di produrre cose bensì da quello di controllare persone, e la loro mega-macchina capitalistica esercita questo potere con una efficienza, flessibilità e forza che gli antichi governanti non potevano nemmeno immaginare». Di conseguenza non è esatto dire che il capitale ha potere. Il capitale è potere. Il potere di decidere che cosa produrre nel mondo, con quali mezzi, dove, quando, in che quantità. Il potere di controllare quante persone hanno diritto a un lavoro e quante sono da considerare esuberi; di stabilire in che modo deve essere organizzato il lavoro; quali debbano essere i prezzi degli alimenti di base, di cui ciascun punto percentuale in più o in meno aumenta o diminuisce di una quindicina di milioni, nel mondo, il numero degli affamati; quali malattie sono da curare e quali da trascurare, ovvero quali farmaci debbano essere sviluppati dai laboratori di ricerca oppure no.

Ancora, il capitale è il potere di trasformare le foreste pluviali in legno per mobili e i mari in acque morte; di brevettare il genoma di esseri viventi evolutisi nel corso di miliardi di anni e dichiararlo proprietà privata; di decidere quali debbono essere i mezzi di trasporto usati dalla gran maggioranza della popolazione e con essi quale debba essere la forma delle città, l’uso del territorio, la qualità dell’aria[…]

La mega-macchina denominata capitalismo industriale aveva come motore – e per quel che ne resta ha tuttora – l’industria manifatturiera. Il finanzcapitalismo ha come motore il sistema finanziario. I due generi di capitalismo differiscono sostanzialmente per il modo di accumulare il capitale.

Il capitalismo industriale lo faceva applicando la tradizionale formula Di-M-Da, che significa investire una data quantità di denaro, Di, nella produzione di merci, M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime una quantità di denaro, Da, maggiore di quella investita. La differenza tra Da e Di è un reddito chiamato solitamente profitto o rendita.

Per contro il finanzcapitalismo persegue l’accumulazione di capitale facendo tutto il possibile per saltare la fase intermedia, la produzione di merci. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. La formula dell’accumulazione diventa quindi D1-D2.

A questa differenza fondamentale nella formula dell’accumulazione il finanzcapitalismo accompagna una pretesa categorica: si deve ricavare dalla produzione di denaro per mezzo di denaro un reddito decisamente più elevato rispetto alla produzione di denaro per mezzo di merci. Non mancano gli esempi.

Si sa che gli investitori istituzionali, in specie fondi pensione e fondi comuni, esigono dalla quota di capitale investito in un’impresa un rendimento annuo minimo del 15 per cento. I fondi specializzati nel comprare imprese per poi rivenderle pezzo a pezzo (chiamati private equity funds) non sono soddisfatti se da tali operazioni non ricavano un profitto di almeno il 20 per cento. Grandi banche europee sollecitano gli investitori istituzionali a investire in titoli di corporation del settore alimentare assicurando che ne trarranno un reddito intorno al 25 per cento. Fondi specializzati nella gestione di grandi patrimoni privati promettono a chi può investire capitali rilevanti, e non disdegna di correre rischi elevati, un rendimento pari o superiore al 30 per cento.

Ora avviene che il Pii del mondo cresca da decenni a un tasso compreso tra il 3 e il 5 per cento annuo. Poiché alla fine dei conti profitti o rendite aventi una base reale non possono superare la crescita reale della ricchezza prodotta, quando risultino nominalmente di varie volte più alti essi debbono provenire solamente da due fonti.

Uno studioso del dominio  del denaro le sintetizza così: « 1) Una redistribuzione a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale; 2) La crescita del capitale in forza di un rendimento più elevato è soltanto un’espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una inflazione dei titoli finanziari, a una bolla»(K.-H. Brodbeck).

Nella sua veste di mega-macchina deputata a estrarre valore, il finanzcapitalismo ha sfruttato soprattutto la prima fonte, la redistribuzione dal basso verso l’alto. Contemporaneamente ha però indotto negli anni ’90 e nei primi anni 2000 un cospicuo incremento dei valori di borsa. Si fosse mai trattato di un qualsiasi altro elemento, un simile fenomeno sarebbe stato giudicato un processo fortemente inflattivo.

Fonte: FINANZACAPITALISMO, di Luciano Gallino – Einaudi

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