I GRECISMI DEI DIALETTI MERIDIONALI

Prima Padre del deserto e poi fondatore di particolari tipi di monasteri, detti “laure”, san Saba Archimandrita (439-532) ha giocato un ruolo rilevante nella diffusione del monachesimo orientale.

La lingua greca era conosciuta, nell’Italia meridionale, ancora nel secolo XIII e oltre. Per quanto riguarda, in particolare, la Basilicata, l’ultimo documento greco riportato nel “Syllabus” del Trinchera è del 26 luglio 1232 (1). C’è da dire, tuttavia, che non c’è in Basilicata (né pare che ci sia mai stato) nessun paese ove si parli un dialetto greco. Si deve pensare, perciò, che i documenti in lingua greca che riguardano la Regione o si riferiscono a gente che, in quei tempi, ancora parlava il greco o sono dovuti al fatto che in quel periodo la lingua greca era conosciuta da molti ed era, in certe zone, la lingua ufficiale dei documenti e degli atti notarili.
I dialetti lucani, come, del resto, tutti gli altri dell’Italia meridionale (eccettuate le “isole” greche della Calabria e del Salento e gli idiomi particolari delle comunità di origine albanese) poggiano, essenzialmente, su una stratificazione latina. In essi, però, oltre alle tante parole greche, ci sono termini oschi, gallici, arabi, germanici, spagnuoli, francesi e, ancora, antichissime parole di origine mediterranea; termini tutti che indicano o la lontana origine dei vari gruppi da cui discendono gli attuali Lucani o i diversi popoli che, nel corso dei secoli, hanno, più o meno a lungo, abitato nel territorio della Regione (2).

Circa l’origine delle parlate greche della Calabria e del Salento, e dei vocaboli greci dei dialetti meridionali, c’è ancora, fra gli studiosi, una vivace polemica. Alcuni, infatti, come il Rohlfs (3), ritengono che non vi sia stata interruzione nella grecità del Meridione d’Italia iniziata con l’antica colonizzazione ellenica. Altri, invece, come il Gay (4), il Battisti (5), l’Alessio (6), il Parlangeli (7), sostengono che, con la conquista romana, a poco a poco il Meridione si latinizzò integralmente e che le parlate greche del medioevo sono tutte da ascriversi alla bizantinizzazione che cominciò a imporsi fin dal secolo VII.

Questa seconda opinione è, senz’altro, oltre che la più seguita dagli studiosi, la più probabile. Non si può pensare, infatti, che il greco, dimenticato lungo le coste (8) ove solo si parlava nei tempi antichi (mentre nell’interno, si sa, si parlavano dialetti locali per lo più di origine indoeuropea, come l’osco) si fosse diffuso e si conservasse in poveri villaggi sperduti fra i monti. Si deve pensare, dunque, che queste zone, latinizzate nel periodo romano, ritornassero greche nel periodo bizantino.

Nei luoghi ove si fermarono gruppi consistenti di immigrati (sia soldati che civili e monaci) si ebbero centri abitati, da gente che parlava il greco, ove, invece, la bizantinizzazione fu piuttosto marginale, come ai confini calabro-lucano-campani e in qualche zona interna della Basilicata (alta val d’Agri) si ebbe solo una ricca immissione di vocaboli greci nelle parlate locali di prevalente origine latina. In queste zone i ricordi greci (che, ovviamente, vanno man mano riducendosi con il passare dei secoli) sono, in prevalenza, di sicura origine monastica o, in genere, religiosa e liturgica. Anche molte parole della toponomastica (nomi di aziende agricole e di contrade di campagna) fanno pensare, in queste zone, agli antichi religiosi orientali e, spesso, riecheggiano i nomi di santi molto venerati dai monaci greci, o di fondatori di alcuni celebri monasteri: S. Nicola, S. Elia, S. Sofia, S. Caterina (d’Alessandria), S. Nilo, S. Teodoro, S. Jorio ecc.

Anche alcuni nomi di luoghi che non ricordano, di per sé, cose liturgiche o figure di santi, si deve pensare (riferendosi a zone interne della Regione o a centri di sicura origine medioevale) che siano nati nel periodo bizantino. Così, ad esempio, il nome di Senise che, certamente, deriva dal termine greco sínesis (confluenza (9), e indica, evidentemente, il luogo di confluenza del Sinni con il Serrapotamo (10)). Il nome stesso di questo affluente, Xeròs potamòs (fiume secco, riferito al regime torrentizio del Serrapotamo che nella stagione calda è quasi asciutto), non può essere nato se non nel periodo bizantino, per il motivo, accennato poco fa, che questo nome è usato in zone lontane dalle coste, e viene ripetuto in un territorio ancora più interno della Basilicata, a Laurenzana, ove molto fiorente fu la colonizzazione monastica basiliana.

In particolare è stato anche notato (11) che mentre la grecità della Calabria e della Terra d’Otranto si può attribuire soprattutto all’influsso dei soldati e delle persone che li seguivano durante le campagne militari; la grecità ai confini calabro-lucano-campani è certamente dovuta ai monaci, perché alcune di queste zone non sono mai state sotto il diretto dominio bizantino.

C’è, però, da ricordare, ancora una volta, che con i monaci si movevano “dei nuclei di popolazioni greche, che, per opera degli stessi monaci, vennero immessi nei territori longobardi… Questi nuclei, mentre propagavano direttamente la razza greca con le loro famiglie originarie e con quelle nuove sorte nello stesso ambito delle immigrate o, indirettamente, per mezzo dei matrimoni misti con la gente del luogo, servirono come veicolo e vivente mezzo di diffusione di nuove idee e lingua, di nuovi e diversi costumi…” (12).

Ciò che contribuì a conservare più a lungo la civiltà bizantina nell’Italia meridionale fu la liturgia. Non solo nei monasteri basiliani ove, ovviamente, si officiava e si pregava in lingua greca, ma anche in alcune diocesi del meridione si conservò a lungo la liturgia bizantina e, quindi, almeno in chiesa, la lingua greca.

A questo proposito è interessante notare come, ancora nel 1572, Ferdinando Spinelli, vescovo di Policastro, si preoccupasse della rilatinizzazione della sua diocesi (13), e, cosa ancora più importante e significativa, il Vescovo di Capaccio, secondo quanto riferisce l’Antonini (14), recatosi nell’abitato , di Cuccaro Vetere, “credendosi di far qualche gran servizio alla Chiesa di Dio, tolse (alla parrocchia di S. Nicola che era “assolutamente greca”) tutti i Menologi, ed i sacri libri di quel rito, e pubblicamente, quasi fossero tante bestemmie, brugiar li fece con un sacco di greche scritture, che forse a qualche cosa eran buone per uno, che avesse saputo l’Abici, e non avesse tali monumenti aborrito”.

Naturalmente, in queste chiese, oltre a officiarsi in lingua greca, si doveva predicare nella medesima lingua o, anche a voler usare i linguaggi delle varie zone, doveva essere comune, fra i predicatori, l’uso di vocaboli greci, come a loro più naturali e più consoni con i riti che, nelle stesse chiese, ogni giorno si svolgevano. Cose tutte che contribuirono, in maniera decisiva, a immettere, nei linguaggi locali, vocaboli greci di ogni tipo.

Il greco, dunque, che ancora si parla in qualche zona della Calabria e del Salento e i tanti vocaboli greci che sussistono in tutti i dialetti del Meridione d’Italia non derivano dal greco illustre dei classici antichi, ma da quello parlato nel periodo della dominazione bizantina nell’Italia meridionale; perciò, considerando le parole di origine greca dei dialetti meridionali, solo relativamente si può guardare al così detto greco classico; bisogna guardare, invece, al greco medioevale, quello, appunto, del periodo bizantino (molto diverso, anche nella pronuncia, dal greco classico) e alla parlata viva del popolo, la quale non sempre coincideva non solo con la lingua greca antica, ma nemmeno con la lingua scritta del periodo in questione.

C’è anche da notare che nel periodo bizantino, oltre che nell’Italia meridionale, molte parole greche si diffondono anche in altre zone dell’Italia, sia per motivi politici che per motivi economici e commerciali; così si è, da alcuni, parlato di “bizantinismi di arrivo” alle città marinare dell’Italia, come Genova e Venezia (15). Riferendo, perciò, le parole greche sopravvissute nei nostri linguaggi alle corrispondenti parole della lingua greca del periodo classico, bisogna tener presenti tutti i fenomeni che normalmente si notano nell’evoluzione di una lingua. 

I fenomeni linguistici più frequenti che si possono osservare nell’evoluzione dei vocaboli greci presenti nei dialetti meridionali si notano, abitualmente, nell’evoluzione di tutte le lingue indoeuropee. Quando, perciò, si considera un qualsiasi termine dialettale e si dice che deriva da un dato vocabolo greco, non bisogna pretendere di trovare sempre, fra le due parole, identità di suono, perché nell’evoluzione della lingua e nel suo uso vivo e quotidiano si sono, spesso, avuti dei mutamenti linguistici che hanno potuto portare, nella parola importanti trasformazioni di suoni.

Forse, fra questi fenomeni linguistici, il più comune nei dialetti meridionali, e non solo in essi, è la “metatesi” cioè lo scambio di due suoni nel corpo di una stessa parola. Così, per dare un esempio, dal greco bátrachos (rana) si ha, a Sant’Arcangelo, la parola “vrótaka” in cui il suono “r” viene spostato dalla penultima alla terz’ultima sillaba (16). In questa stessa parola si può osservare anche un altro fenomeno, comune in tutte le parlate indoeuropee: il mutamento della labiale “b” nella labiodentale “v”.

Altri fenomeni, abbastanza comuni nei dialetti meridionali, sono: la “protesi”, cioè l’aggiunta di un suono all’inizio della parola (“naspro” da aspros = bianco), l'”epentesi”, cioè l’aggiunta di un suono nel corpo della parola (salavrón$ da sáura = lucertola) (17) e l'”epitesi” o “paragoge”, cioè l’aggiunta di un suono alla fine della parola (pipirite da péperi = pepe).

Ci sono anche altri fenomeni linguistici che, essendo meno frequenti, saranno notati, volta per volta, quando ne capiterà l’occasione.

C’è da notare ancora un’ultima cosa: nei dialetti meridionali, in cui, come già si è detto, non si deve pretendere di trovare intatti i vocaboli del greco classico, le parole hanno conservato, a volte, una forma più arcaica rispetto ai vocaboli che si usano nel greco moderno: fenomeno, questo, comune a tutte le zone periferiche.
Ancora un’ultima osservazione: ovviamente i vocaboli greci dei dialetti meridionali hanno forma diversa da zona a zona. 

Fonte: Luigi Branco, Ricordi Bizantini in un dialetto di Basilicata – Sant’Arcangelo

NOTE:

1 F. TRINCHERA, op. cit., pp. 394-395

2 R BIGALKE, op. cit., introduzione.

3 G. ROHLFS, Scavi linguistici della Magna Grecia, Halle-Roma, 1933. – “Le due Calabrie” in “Almanacco calabrese”, 1962, pp. 53 sg. 

4 G. GAY, Op. cit., pg. 10.

5 C. BATTISTI, Nuove osservazioni sulla grecità in provincia di Reggio Calabria, in “L’Italia dialettale”, 1930, pp. 57 sg. e “Ancora sulla genesi della grecità in Calabria”, in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, 1933, pp. 67-95.

6 G. ALESSIO, Saggio di toponomastica calabrese, Firenze, 1939. – La stratificazione linguistica del Bruzio Tivoli, 1956. – La Calabria preistorica e storica alla luce dei suoi aspetti linguistici, Napoli, 1956.

7 O. PARLANGELI, Storia linguistica e storia politica nell’Italia meridionale, Firenze, 1960, pp. 59 sg.
Anche il RACIOPPI (op. cit., II, pp. 91 sg.) sostiene, con molto vigore, la stessa opinione, notando, fra l’altro, che non si potrebbe spiegare, se si riferisse il greco dell’Italia meridionale al greco dell’antica Magna Grecia, perché mai solo in poche zone di montagna, ben delimitate e minuscole, si sarebbe conservato quell’antico idioma che sarebbe, invece, morto in tutte le altre zone circostanti.

8 Strabone (63 a.C. – 19 d.C.) ci fa sapere (Geographica, VI, 253) che al suo tempo il greco era parlato, ancora, solo a Taranto, a Reggio e a Napoli, mentre le altre antiche colonie elleniche erano, ormai, tutte “barbarizzate”.

9 Il termine è usato già da Omero, Od., 10, 515: petre te xinesis te duo potamòn eridúpon … (roccia, confluenza di due fiumi sonanti).

10 È strano che nessuno abbia pensato a questa etimologia che pure è così semplice e congrua. Il RACIOPPI (op. cit., II, pg. 73, n. 111) fa derivare il nome di Senise “dal basso latino “sentia” che fu luogo di spine, sentibus refertus. Da sentia o sensia è sen-i-sia”!
P. DE GRAZIA (cit. da F. BASTANZIO, Senise nella luce della storia, Palo del Colle, Bari, 1950, pg. 4) fa derivare il nome dal Sinni. Questa è l’opinione più comune; anche ISABELLA MORRA (A. ULIANO, Rime di 1. Morra e di Diego Sandoval de Castro, Francavilla, 1982, pg. 65) la pensava allo stesso modo; parlando, infatti, di Senise e rivolgendosi al Sinni, dice: “…la terra che da te deriva il nome…”.
Sulle origini di Senise cfr. ciò che dice F. BASTANZIO, op. cit., pp. 2-3.

11 B. CAPPELLI, op. cit., pp. 14-15. 

12 B. CAPPELLI, op. cit., pg. 24.

13 Paleocastren Dioceseos historico-cronologica synopsis… N. M. Laudisii… iussu confecta, Napoli, 1831, pg. 42. cit. da B. CAPPELLI, OP. cit., pg. 14.

14 G. ANTONINI, op. cit., vol. I, pp. 339-340. 

15 G. DEVOTO, Il linguaggio d’Italia, Milano (BUR), 1977, pp. 215-216. 

16 Qualche volta lo scambio avviene anche fra due parole; così, ad esempio, nel dialetto di Senise, c’è l’espressione “…ar’Amélica” per “…all’America” ove la “l” della prima parola ha cambiato posto con la “r” della seconda, e viceversa. 

17 Nota, in questa parola, un altro fenomeno linguistico molto frequente: il mutamento fra i suoni “u” e “v”.

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