EMIGRANTI – L’ultimo saluto

Giunti sopra il ponte della Fontanella si voltarono tutti a guardare e salutare ancora una volta il paese, quel mucchietto di case sopra un poggio in mezzo agli orti e agli olivi, nello sfondo della montagna azzurra e candida. Ognuno ricercò e ritrovò la sua, rivide le piccole finestre aperte a metà, con un vaso di origano, o una pianta di zenzero sopra il davanzale, una pala di ficodindia con i frutti invernali, appesa ai lati, una brocca di terracotta attaccata a un chiodo, nel vano d’un balcone. Ah le loro povere case, come le avrebbero ricordate anche in capo al mondo!…

A Guidace la Strada Nuova faceva un lungo giro intorno ai poggi di Bony. Gli emigranti presero una scorciatoia e si disposero a salutare i parenti.

Fu una scena pietosa! Le donne si attaccavano A collo dei mariti, singhiozzando; altre coi bambini in braccio, inondate di lacrime, li porgevano continuamente al bacio dei loro uomini che avevano gli occhi gonfi e rossi. Alcuni ragazzetti si attaccavano alle gambe dei genitori e strillavano perdutamente. La moglie di Cosenza si era seduta sopra un paracarro, e si lamentava con una cantilena funebre, come se piangesse un morto.

« Addio… », « Scrivete… », « Date notizie… », « Caro mio… », « Figlio mio… » erano le parole che si udivano tra i singhiozzi.

Giusa Blèfari abbracciò i suoi fratelli e cercò con gli occhi il Liano. Quello, era già lontano suonando la sua armonica. La povera ragazza si sentì mancare le gambe.

« Disgraziata me, che cuore ha quell’uomo, — disse tra sé — che cuore!… ».

All’ultimo momento giunse correndo il figlio della vedova Rocca, un ragazzetto addirittura, magro, con due occhi dolci e un bel viso ardito, sparso di piccoli nei bruni, come quello di sua madre. Seguivano, ansando, la vedova col piccolo in braccio, e due altri bambini, uno sui sette e l’altro sui cinque anni. Il maggiore dei due aveva addosso una grossa giacca del padre che gli sventolava intorno, tutta a toppe e a sbrendoli.

— Aspettatemi, aspettatemi — diceva il piccolo emigrante, tenendo stretto sotto il braccio il suo fagotto di robe entro una fodera di cuscino. Dalla tasca della giacca gli spuntava un mezzo pane bianco.

Gli emigranti si fermarono.

— Avanti, reboia, — faceva Nino Sperii — in America bisogna essere svelti.

Quando il ragazzo abbracciò la madre si mise a piangere come un bimbo, e le cacciò la testa disperatamente sul petto, come quando si ha tanta paura.

—- Figlio mio, figlio mio benedetto!… — andava ripetendo la vedova baciandolo e carezzandolo su gli occhi, sul viso, sulla bocca, e bagnandolo di lacrime, — che l’anima di tuo padre ti accompagni. Compare Nino, voi che siete pratico dell’America, ve lo raccomando, per l’anima dei vostri morti. Voi, compare Gesù, scrivetegli le lettere…

Povero orfanello mio… Benedetto figlio, benedetto per quante gocce di latte ti ho dato… Il Signore e la Madonna ti accompagnino.

— Su, su…, — facevano gli emigranti — avanti, rcboia, coraggio. Voi, comare, state tranquilla, sarà come un figliolo per noi… non ci pensate…

I fratellini non si volevano staccare.

— Vieni presto, Nando… — diceva il più grandicello, agitando la sua enorme giacca sbrindellata — torna presto a casa… per Natale…

— Sì, sì, — rispondeva il piccolo emigrante — ti porterò le nocciole e il torrone.

Andarono.

Quando entrarono nell’olivetodi Guidace, si levò una canzone. Si udivano nel coro la voce robusta di Peppe Liano, quella agra ed esile di mastro Genio, e quella più dolce di Gèsu Blèfari. Era una canzone d’amore :

O chi spartenza dolurusa e amara,

chi pianginu li petri di la via.

Da EMIGRANTI, di Francesco Perri, Garzanti

Foto RETE

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