ALVARO: “Donne di Chiaravalle”

Sì, tutto si muove in Calabria, tutto fugge, tutto cerca; tutto bussa energicamente alla porta d’una vita più clemente; ma c’è un personaggio che aspetta, e a dire del quale bisognerebbe intingere la penna nel colore dei più freschi fiori che qui formano siepi allo stato selvatico, i gerani e i garofani e gli oleandri, fiori popolari, fiori suoi, di lei, della donna, con quei colori vibrati come una nota musicale lungo tempo tenuta in una continua rinascente limpidezza.

Non voglio dire della donna della piccola borghesia e della borghesia. Questa, lo si sente, è contenta d’essere libera, almeno nella veste e nell’acconciatura, dai bisogni che opprimono ora per ora l’umanità che l’attornia; divora i molti giornali gonfi d’amore per tutti e di bellezza per tutti che la città di Milano rovescia sulla Penisola, e che qui trovano una clientela enorme. Questa donna, diciamo così cittadina, è, basta guardarla, piena d’una continua trepidazione e ansia, d’una vibrazione continua, d’una mobilità, d’una vivacità, d’un bisogno d’attenzione come se fosse sfuggita da poco miracolosamente a una grave disavventura. E la disavventura da cui è scampata è la condizione popolare, quella del costume, dell’andare scalza, del portare pesi.

Da piccina, chi nasce qui donna del popolo, è abituata ad andare a piedi nudi. Da piccina, e quasi per gioco, le si impone un peso da portare sulla testa, e senza l’aiuto delle mani; il canestrino piccolo, il paniere, l’orcetto per l’acqua da tre a cinque litri. È l’iniziazione a quella che sarà la sua vita; portare al torrente la cesta della biancheria da lavare, a una o due ore dall’abitato, al mulino il sacco dei cinquanta chili di grano da macinare, dalla fonte la giara di cinquanta litri d’acqua, dal bosco il fascio della legna, dal prato l’enorme carico di fieno sotto cui non si vede il viso trafelato, ma le braccia che reggono, il busto che si torce. È una simile consuetudine coi pesi da portare in equilibrio e senza l’aiuto delle mani, se non coi pesi schiaccianti o troppo voluminosi, che dà alla donna calabrese quel contegno, quella presenza, quell’andatura diritta sulla schiena, quel passo di cui si può avere l’idea guardando qualche statua greca in movimento o l’Apollo di Veio; quel volgere del capo come se temesse di lasciar cadere un’aureola, insomma quel contegno unico al mondo, da far invidia a una sovrana.

Possedere un’asina per queste cose non è da tutti. Grondano sudore sotto il peso, e un movimento sbagliato per le strade difficili comprometterebbe tutto l’equilibrio; il viso stirato, la bocca ansante; una cocca del fazzoletto a volte fra le labbra pare aiuti lo sforzo: forse aiuta a non lasciare scorgere la bocca socchiusa. Quando il peso è enorme, il passo si fa piccolo, saltellante, mentre il piede nudo avverte la più piccola scabrosità del terreno, la spina o il chiodo, e le evita con le dita sensibili. Ma quando il peso è meno greve, allora è quel passo uguale, largo, le braccia distese sui fianchi, tra il fruscio delle gonne, quel passo che ella serberà sempre, e che basta vederlo sulla strada asfaltata delle marine, dove incede come un’apparizione, per ricordare i tenaci paesi aggrappati alla montagna, tra la frana e il torrente, dove è la Calabria dura e cruda e piena di amore taciuto.

Ma, sul principio, una tale fatica è un giucco. Attraversare uno di questi paesi la mattina, sulla piana della Sila o dell’Aspromonte o delle Serre, pare venga avanti una compagnia di giocolieri; le grandi giare di creta, vuote, alte un metro e più, dritte sulla testa, le grandi ceste vuote che la sera torneranno cariche, ma che ora permettono di volgere volubilmente la testa sull’asse del collo. La memoria fa strani scherzi, e può capitare di scordare molti fatti importanti, ma non quella bimba di otto anni a Chiaravalle, alle sette di mattina, che andava con la sua cesta vuota sul capo, coi suoi ancora teneri piedi scalzi, imbronciata nel visino bruno per cui è già arrivata l’età di non sorridere; e quella gran cesta: come un formichino che trasporti un seme grande il triplo del suo corpo. Girava di qua e di là il capo, e girava torno torno la cesta. E il suo passo aveva sì quella maestà che si acquista sotto la continua impressione dei pesi, che in qualche scuola di ginnastica si adottano per dare alla signorina di buona famiglia un contegno eretto; ma la maestà della bimba era in tono minore, come un tema musicale molto serio riportato su una andatura scherzosa, E le due donne che discorrevano sulla porta avevano in mano un sacchetto vuoto, e ripiegatolo se lo mettevano sulla testa per avere le mani libere al gesto. Il gesto è largo, e non delle mani, ma tutto sul gomito, come fanno gli attori dei drammi storici nell’atto di porgere un messaggio al sovrano.

L’umile via quotidiana della Calabria ha il suo modello nel Presepe. Quel tanto che vi turba inconsultamente e rimescola in voi non si sa quali mondi puerili dimenticati o addirittura non conosciuti ma almeno una volta intravisti, è quel peregrinare, trasportare i beni della terra; e quando avrete capito di che si tratta, che è il presepe vivente, che tutte le figurine del presepe sono qui, e quella che porta l’agnello, e quella del sacco, quella del formaggio e quella col bimbo, allora la vostra emozione sarà piena. Avrete capito la poesia umana del presepe, e quella della Calabria.

Il mattino e la sera sono le grandi ore di questa terra. Il luogo per tali ore è là dove, all’ingresso di ogni paese dell’interno, sono erette le tre croci del Calvario, e che calvario si chiama. In alcuni le croci sono cinque, e anche sette. La croce del mezzo ha quasi sempre qualcosa di araldico, con tutte le insegne della Passione: il velo, la spugna, la lancia, i chiodi, le tenaglie, il martello, e su tutto il gallo col becco aperto. Di qua si scorge il mare, più vicini i colli, un paese diruto e abbandonato con le finestre vuote sul colle franoso con la scorticatura bianca della frana, e le siepi di gerani e di agavi e di cacti lungo la strada; il letto del torrente su cui la primavera e l’estate lasciano fiorire gli oleandri; i lontani paesi sui colli a picco, o raccolti tra le cuspidi dei monti corrose dal vento, come tra le dita d’una mano. Lontano, il mare, da un capo all’altro, dallo Spartivento a Punta Stilo, da Squillace a Crotone, deserto.

E questo fruscio è il rumore delle sue vesti, quest’ansare è il suo; è la donna che arriva col suo corteo, e questa volta porta un carico schiacciante di tegole nuove. L’uomo libero della fatica dietro. E i bambini che hanno ancora voglia di saltellare. Qualche volta, c’è anche la capra, il maiale, i polli. Tutti in fila, una dietro l’altro, ai margini della strada, ognuno solo. Vi salutano chiunque siate: «Felice sera». Non parlano. Ed ella porta un mazzetto di fiori di campi, come ella sa fare, stretti e densi come una pigna.

Si sposano presto. È il tempo in cui fioriscono, e il tenero della giovinezza si spande in un incarnato di miele a onta di tutte le fatiche. Così fiorisce anche lo spino, anche il rovo. Sulla ferrovia calabro-lucana, una di queste donne ha preso posto accanto a me. Era vestita di verde. Aveva un bimbo in braccio, di non più di tre mesi. Se ho mai abbassato gli occhi davanti a una donna fu davanti a lei: aveva uno sguardo pieno di stupore come se avesse subita una violenza. Vedevo che ella non poteva avere più di sedici anni. Quando si levò per scendere, mi accorsi che era nuovamente incinta.

Da “UN UOMO NEL TRENO”, di Corrado Alvaro – Rubbettino

FOTO: Rete

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