Un libro per amico – UN TRENO NEL SUD

Ci sono libri che conservi sparsi e spersi qui e là, che non apri mai o che non trovi quando li cerchi. Ce ne sono pochi altri, invece, che occupano posti segreti e speciali, dove vai a colpo sicuro, consapevole di trovare ogni volta qualcosa di nuovo. Un treno nel Sud di Corrado Alvaro appartiene per me a questa seconda lista: un testo con cui mi ritrovo spesso a dialogare.

Un treno nel Sud è, innanzitutto, un viaggio di ritorno, racconta un nostos nell’universo di origine da cui Alvaro era andato via definitivamente nell’ottobre 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, per poi compiere rari e brevi ritorni per trovare i familiari, per la morte del padre, per fare visita alla madre, che abitava con il fratello Massimo. Ritorni concreti che si sommano ai costanti ritorni letterari: nei suoi racconti, nelle sue Memorie di un mondo sommerso e anche in opere più apparentemente lontane da quel mondo, come ne L’uomo è forte e in Belmoro, le atmosfere e i motivi del mondo di origine di Alvaro affiorano di continuo.

Di viaggi, del resto, Alvaro è stato un protagonista e narratore formidabile: Viaggio in Turchia, Terra nuova (Prima cronaca dell’Agro Pontino), I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica (poi Viaggio in Russia) aiutano a comprendere la struttura e il senso di un Treno nel Sud, ultimo, a sua volta, di una trilogia di viaggio di cui Itinerario Italiano e Roma vestita di nuovo costituiscono i primi due volumi.

Resoconti sentimentali, letterari, etnografici scritti (la datazione è sempre difficile) tra la fine degli anni Quaranta (soprattutto 1948) e i primi anni Cinquanta del secolo scorso (ma Stagione sullo Jonio era apparso già ne L’amata alla finestra) e relativi a Napoli e alla Campania, alla Puglia, alla Sicilia e soprattutto alla Calabria, non solo perché è la sua terra di origine e quella che meglio conosce, ma perché la regione assurge a metafora dei contrasti, degli eccessi, dei problemi, dell’arretratezza, delle bellezze del Sud.

II Sud, al pari di altri Sud del mondo, è un luogo geografico, ma allo stesso tempo un problema e una questione sociale che va spiegato con riferimento alla geografia e una storia lontana e vicina. Il Sud, in genere di economia agricola e con una cultura tradizionale agropastorale, appare un luogo altro e diverso pure all’interno della nazione di cui fa parte. L’alterità del Sud consiste però anche nelle immagini e nelle narrazioni che gli altri ne hanno offerto e anche nelle forme di rappresentazione che i suoi abitanti ne hanno costruito per rispondere allo sguardo esterno, ora assumendolo ora negandolo, comunque restandone condizionati. Alvaro, che conosce benissimo la letteratura di viaggio sul Sud e la letteratura meridionalistica, non si sottrae al topos letterario e antropologico, alla necessità, di fare i conti con le leggende e i pregiudizi esterni, di confutarli, attenuarli, rovesciarli. Non è un caso che, affrontando la leggenda del dolce «far niente», riprenda uno dei motivi canonici della letteratura sul Sud e sui meridionali: quello dell’ozio attribuito dai visitatori del Nord, almeno fin dal Seicento, a tutte le popolazioni d’Italia. Un attributo che diventa quasi un modo naturale dei meridionali per tutti gli europei che si riconoscevano in una posizione antiborbonica, e poi, dopo l’unificazione italiana, un emblema della presunta arretratezza e inferiorità razziale dei meridionali teorizzata dagli antropologi positivisti. Alvaro non nega la parte che ha la pigrizia in alcune manifestazioni della vita meridionale, ma mostra la parzialità di questa rappresentazione: c’è una «fatica meridionale di vivere pressappoco nelle forme di mille o duemila anni fa», che significa attingere l’acqua a chilometri di distanza e trasportarla sulla testa; percorrere dieci o quindici chilometri per raggiungere il posto di lavoro; strappare ai boschi e ai torrenti la legna per accendere il focolare; tutto uno strato di difficoltà e pena che si aggiunge a quello che consideriamo il lavoro vero e proprio, nei campi, nei boschi, nei cantieri.

In questo contesto, il dolce far niente è solo un momento della giornata, uno stato di riposo, o di rilassamento dopo la fatica, in cui l’individuo ritrova se stesso, il «suo passato, il suo avvenire, la sua sorte, la sua giornata, i suoi affetti e pensieri», e la «coscienza diventa padrona di sé, e matura oscuramente, come il seme che germoglia, il suo divenire e la sua azione, il suo orientamento nell’impegno degli affetti e dei doveri quotidiani».

Una lettura raffinata, mai banale del Sud, che Alvaro può e sa guardare dall’interno, riconoscendone l’alterità. La sua comprensione del mondo di appartenenza gli consente, per esempio, quando parla dei napoletani, di mostrare come ciò che gli altri considerano «servilità» altro non è che «rassegnazione e tolleranza», o anche un senso di intima superiorità spirituale, che si regge sul fatto di capire. E così l’osservato ribalta il punto di vista dell’osservatore. «Il più povero monello napoletano vi potrà reputare uno guastato dalla fortuna e dalla vita facile, un ingenuo, e crederà di potervi illudere secondando la vostra stessa follia e mania». Le abitudini che agli altri sembrano inverosimili e proprie di un pazzo scatenato a lui paiono naturalissime. Quel mondo istintivo sembra parte dell’organizzazione di un regno della natura che «confina con l’immagine di una società utopistica». Il Sud d’Italia, con i suoi problemi complicati e fastidiosi diventa una sorta di specchio della cattiva coscienza nazionale, di una società che si considera evoluta, che compie una specie di «refoulage psicanalitico» e rovescia sul Sud i suoi rimorsi, i suoi dubbi sul suo stesso modo di vivere, sulle sue responsabilità. E così il Sud è trasformato in luogo esotico e, anche con le sua istintività, la sua sessualità, la sua stessa degradazione, offre lo spettacolo «d’una vita ingegnosa, che respinge da sé tutto quanto l’uomo civilizzato cova e non riesce a espellere e non ardisce esprimere».

Sembrano considerazioni scritte oggi, che hanno il dono di mostrare lo sguardo lucido e profetico di Alvaro. E del tutto attuali sembrano i suggerimenti per affermare un altro modo di accostarsi al Sud e ai meridionali. Si prenda II calabrese «vuole essere parlato» che è diventata un’espressione quasi leggendaria e spesso male interpretata. Non è che Alvaro immaginasse i calabresi in attesa di una parola dall’esterno o dall’alto, anche perché di parole ne avevano ascoltate e come. Ma desiderosi di un dialogo vero, di uno scambio umano e profondo. A questa aspettativa va ricondotto il consiglio del vecchio calabrese all’imprenditore lombardo: «Voi non avete capito un fatto: che il calabrese “vuole  essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». E Alvaro, che certo non è comunista, ma resta sempre interno a una tradizione democratica e risorgimentale liberale, riconosce che l’applicazione più utile di questa espressione è stata fatta, con successo politico, proprio dai comunisti che nei paesi girano casa per casa e si informano delle condizioni di vita, «dei bisogni, degli affetti, delle aspirazioni di ognuno». E persone silenziose si abbandonavano a confidenze e si affidavano a chi li ascoltava perché, dice Alvaro, «sembrava di essere uomini».

Gente che per secoli si è vista trattare come ignorante e zotica, mentre ha invece un senso classico della personalità umana, che può passare dal fascismo al comunismo perché le viene adombrata, nelle forme più viete di retorica nazionale, anche la dignità umana. «I poveri vogliono ancora qualcosa in cui credere» e la classe media, quasi indifferente e spettatrice di uno spettacolo, non sa e non può rappresentarli. Vale, di nuovo, oggi. E così chi per secoli è stato disprezzato, adesso disprezza, chi ha subito la prepotenza dei grandi e dei potenti, chi è stato umiliato per anni, per tanta discendenza, e ancora si vede umiliare e a sua volta umilia quanti non gli fanno più paura. Chi ha conosciuto prepotenze, cattiverie, vendette, e teme di essere umiliato, reagisce con un senso prepotente di sé, con l’abilità, l’intrigo, e in mancanza d’altro, con il brusco riserbo.

Il problema, i mali, i vizi del Sud erano frutto anche di un irrisolto e inadeguato modo di considerare e guardare gli altri, di trattarli e giudicarli. Il doppio statuto di interno ed esterno, di chi è andato via e di chi torna, di chi è rimasto ed è sempre fuggito, consente ad Alvaro di ricondurre i tanti stereotipi sul Sud, non tanto confutandoli o rigettandoli, quanto riportandoli a una storia e un’antropologia che egli conosce profondamente e segnalando anzi, come in un universo mondanizzato, quei modi di essere e quei valori che potrebbero trovare una nuova udienza e un nuovo senso:

 «Sazia di quello che si dice civilizzazione, vita moderna, l’umanità d’oggi gravita con la fantasia, la nostalgia, le fughe, sul Sud, su quello che serba una pur vaga memoria del mondo antico. È una involontaria vendetta del Sud su un mondo troppo sicuro della sua evoluzione, del suo progresso, dei suoi sensi».

Dall’Introduzione di Vito Teti

  • Copertina flessibile: 201 pagine
  • Editore: Rubbettino (1 dicembre 2016)
  • Collana: Che ci faccio qui
  • Prezzo: Euro 11.90
  • ISBN-10: 8849849052
  • ISBN-13: 978-884984905

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