IL CIBO – Le «pance vuote» di ieri e quelle sazie di oggi

Dall’alto della collinetta arrivavano le voci delle donne andate a prendere l’acqua per abbeverare le «rasule» negli orti vicini. Il canto di qualche gallo, appena percepito, mi rivelò che il mondo, mentre io dormivo, era sveglio. Passavano contadini con l’asino e donne con il cesto in testa. C’erano anche bambini più grandi di me – avevo quattro, forse cinque anni – che camminavano vicino ai genitori, con un paniere o una zappa in mano. La gente si alzava presto, allora, soprattutto le donne che avevano lontani i mariti, a Toronto, a lavorare nelle costruzioni e nelle fabbriche.

Mi sedetti ad aspettare le due donne: il nonno era già andato alla cantina perché i camionisti passavano presto dalla «Viaregia», la strada principale che collegava Tirreno e Ionio, e mio padre era lontano, in Canada, a cercare pane per la famiglia e per farmi studiare in un luogo che mi sembrava fosse poco più in là, oltre il paese. Mi abbracciarono, la mamma e la nonna, quando tornarono, come per farsi perdonare qualcosa. Mamma disse: «Siamo andate a prendere l’acqua per abbeverare l’orto e fare crescere fagiolini e broccoli, lattughe e pomodori, patate e peperoni».

Mi pare, ma forse invento, che per la prima volta mi accorsi di un qualche legame tra stelle, natura, acqua, uomini, animali e la produzione, la raccolta del cibo e la fatica per ottenerlo. Oggi, almeno in questa parte di mondo, sembriamo avere smarrito tutti l’esperienza e la consapevolezza di questo legame. Certo, la relazione tra natura e individui non era del tutto armonica e idilliaca, non era affatto pacificata, e conosceva piccole e grandi violenze, anche se necessarie per la sopravvivenza. L’agricoltura preindustriale era anche fonte di privazioni, ristrettezze economiche, staticità culturali, gerarchie familiari. La distinzione di classe e di genere stabiliva differenze profonde nell’accesso al cibo.

Bisogna ricordare bene, provando a pensare con le «pance vuote» di ieri e non con quelle sazie di oggi, per avere consapevolezza della bellezza e della limitatezza del mondo passato; per comprenderlo e ascoltarne gli insegnamenti fondanti, senza mitizzarlo e senza rinnegarlo. Bisogna aver cognizione del dolore di un’umanità errante per il cibo per non demonizzare la libertà e la felicità che l’arrivo della modernità alimentare (confusa, ambigua, a volte capace di scompaginare economie, culture e saperi) provocava in popolazioni che, fino agli anni cinquanta, avevano vissuto in condizioni di costante povertà e, non di rado, patendo la fame. Bisogna avere contezza della penuria del passato per poter criticare l’esasperata, ostentata, superflua abbondanza degli individui di oggi, che vivono nei paesi dell’Occidente, obesi e infelici, paghi e spaventati. Occorre conoscere le malattie da fame di un tempo, i disagi fisici e psicologici, le patologie e la mortalità connessi a regimi alimentari insufficienti e inadeguati, per poter comprendere i nuovi malesseri e disagi, i rischi legati a eccessi di nutrizione, le morti dipendenti da consumi sfrenati o da cibi avvelenati. Bisogna decifrare l’inestricabile nesso tra necessità e sacralità del cibo per poter affermare, dopo una lunga rottura, dopo stravolgimenti epocali, un nuovo, possibile e condivisibile senso del mangiare per vivere.

Da FINE PASTO, di Vito Teti – Einaudi

Un libro che ragiona sul cibo, che parla del mondo della fame e di quello dell’abbondanza.

Da leggere.

FOTO: Rete

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