CALABRIA – Popolazione ed emigrazione dopo l’Unità.

All’indomani dell’Unità nazionale venne effettuato il primo censimento generale della popolazione italiana. In Calabria nel 1861 furono complessivamente registrati 1.140.396 abitanti, pari al 4,4% dell’intera popolazione nazionale, con una densità media di 76 persone per kmq. La provincia più popolosa era quella di Cosenza, dove vennero censiti 431.691 individui, seguita da quella di Catanzaro (384.159) e di Reggio (324.456), che era però al primo posto per densità abitativa.

Oltre ai tre capoluoghi provinciali, soltanto sei centri urbani avevano una popolazione superiore ai 10.000 abitanti: Acri, Rossano e Corigliano in provincia di Cosenza, Nicastro e Montelone (Vibo Valentia) in quella di Catanzaro e Casalnuovo (Cittanova) in quella di Reggio. Circa il 90% dei calabresi viveva in piccoli centri rurali per lo più collinari e montani e solo poco più di un quarto della popolazione abitava in agglomerati posti al di sotto dei 250 metri di altitudine. Nel primo quarantennio post-unitario furono effettuate 4 rilevazioni demografiche – nel 1891 il previsto censimento non fu attuato a causa di problemi finanziari che oberavano il bilancio statale – che nelle 3 province calabresi diedero i seguenti risultati:

Dalla precedente tabella si nota pertanto che nei 40 anni considerati la popolazione calabrese ebbe una crescita totale del 20%, inferiore quindi a quella dell’intero Mezzogiorno, che nel medesimo periodo aumentò del 34%, e al di sotto dell’incremento della complessiva popolazione italiana, salita del 29%. In ciascuno dei due ventenni, 1861-81 e 1881-1901, l’aumento demografico fu quasi uguale (+ 117.487 abitanti nel primo e + 112.325 nel secondo ventennio) e tuttavia diverso fu nella regione il saldo naturale, cioè la differenza tra nati e morti.

Nell’ultimo ventennio del secolo, a fronte di una natalità che continuò a mantenersi a livelli più alti della media nazionale, si ebbe nella estrema regione meridionale della penisola una diminuzione della mortalità e quindi una crescita naturale superiore a quella del ventennio precedente. Se a tale aumento non corrispose un analogo incremento del numero degli abitanti ciò è da attribuire al fenomeno dell’emigrazione che proprio a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento interessò in maniera rilevante la Calabria, come si può desumere dalla seguente tabella dove è indicata la quantità annua degli emigrati.

Accanto alla forte crescita dell’emigrazione – passata da 902 unità del 1861 (pari all’0,08% della popolazione residente in quell’anno) a 34.437 del 1901 (pari al 2,5%) – che fu costantemente per oltre i 9/10 transoceanica, nel venticinquennio esaminato si riscontra il diverso contributo in termini quantitativi che a tale fenomeno diedero le tre province calabresi.

Dal 1876, anno dal quale iniziano i rilevamenti, al 1885, dalla provincia di Cosenza partirono annualmente oltre i 3/4 degli emigrati calabresi, con punte che nei primi 6 anni del decennio considerato superarono addirittura i 9/10. Viceversa la provincia reggina rimase per un lungo periodo ai margini del processo migratorio regionale, sia in cifre assolute (solo a decorrere dal 1893 gli emigrati del Reggino superarono le mille unità annue) che in termini percentuali, dal momento che bisognerà aspettare il 1898 perché l’incidenza degli emigranti della più meridionale delle province calabresi superi un quinto delle partenze annue regionali.

Cause dell’esodo

Data la stretta connessione esistente, come è noto, tra flussi migratori e realtà economico-sociale delle aree di provenienza, è a tale ambito che vanno principalmente ricondotte le cause del crescente esodo dalla regione.[…]

A frenare le potenzialità di sviluppo dell’economia calabrese e a relegarla in una permanente condizione di subalternità e di mera sussistenza intervenne tuttavia una serie di fattori negativi. Alla diffusione di malattie come la crittogama e la pebrina, che ridussero drasticamente la produzione del vino e dei bozzoli per la seta, con un ridimensionamento del già modesto apparato produttivo, si aggiunse la mancanza di innovazioni tecnologiche nelle attività manifatturiere da parte di un ceto imprenditoriale locale incapace di effettuare oculati investimenti, indispensabili per superare le difficoltà congiunturali. Sulla già gracile realtà economica regionale si avvertirono pesantemente, sul finire degli anni Settanta dell’Ottocento, gli effetti di una politica governativa protezionistica, che colpì duramente quei prodotti agricoli, ed in particolare il vino, fino ad allora competitivi e che non trovarono più sbocchi all’estero ed ebbero notevoli difficoltà ad essere collocati nel mercato interno. Del mutamento di politica economica del governo della Sinistra non trasse profitto in Calabria neanche il settore industriale poiché, durante la fase liberista, la fine della protezione dell’industria metallurgica, priva del precedente sostegno delle commesse statali, aveva portato sin dal 1863 alla chiusura degli stabilimenti di Mongiana e Stilo.

Se con il ritorno al protezionismo la Calabria subiva le ritorsioni commerciali di altri Paesi europei soprattutto nel settore vinicolo, la grande crisi che colpì l’economia regionale fu tuttavia quella cerealicola degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando, in seguito all’arrivo in Europa occidentale di enormi quantità di grano russo e americano, il prezzo del frumento crollò, con pesanti contraccolpi sui proprietari terrieri grandi e piccoli e conseguente crisi delle loro aziende agricole. Di qui la necessità di salari più bassi o di più alti canoni di affitto delle terre, eccedenza di manodopera rurale, per il parallelo incremento demografico, e aumento quindi del tasso di disoccupazione.

Tra il 1881 e il 1901 la popolazione inattiva calabrese salì infatti dall’11 al 19,2%, nonostante l’intensificarsi del fenomeno migratorio, che proprio dalle difficoltà in cui si dibatteva l’agricoltura, settore dove nel 1901 era impiegato oltre il 60% della popolazione attiva calabrese, trasse il principale alimento. Se l’esodo riguardò dapprima soprattutto la provincia di Cosenza fu perché in essa più che altrove si avvertirono precocemente in termini occupazionali le ripercussioni della crisi cerealicola, che spinse ai margini della sussistenza fasce crescenti di popolazione rurale. Esse trovarono in gran parte sfogo nell’emigrazione transoceanica e in misura minore alimentarono invece la piaga del brigantaggio, represso in larga parte già alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento dal governo con il ricorso a leggi eccezionali.

Il brigantaggio, osserva Cingari, fu infatti un fenomeno «strettamente legato alla condizione contadina di talune aree regionali e al problema demaniale e, più specificamente, silano», che interessò solo in misura marginale la provincia reggina e i versanti tirrenici di quella catanzarese e cosentina, dove tuttavia abbastanza diffusa era la delinquenza rurale. «Nel circondario di Paola – nota Vincenzo Padula, che distingue tra i due fenomeni – dicemmo poi che i briganti vi sono e non vi sono: e questo è verissimo. Gli abitanti di quei luoghi sono pezzenti ed imbelli; manca loro l’ardire di avventurarsi alla vita brigantesca, ed, avendone anche voglia, mancano loro l’estese foreste, dove possano a lungo annidarsi. Colà dunque vi furono, vi sono, e vi saranno sempre ladri, ma briganti non mai».

Una destrutturazione economica e sociale si venne quindi a determinare alla fine dell’Ottocento nella regione più meridionale della penisola, dove altri indicatori negativi, dall’analfabetismo alla mortalità infantile, denunciano una situazione di grave sottosviluppo rispetto alla sezione centro-settentrionale del Paese. Fu in questo periodo che si definirono pertanto i tratti essenziali del sottosviluppo calabrese nel quadro della questione meridionale, che avrebbe a lungo alimentato il dibattito politico e storiografico nel secolo successivo.

Da LA CALABRIA, di Giuseppe Caridi – Falzea Editore

FOTO: Rete

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