LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

II […] 2 novembre la Chiesa commemora tutti i defunti secondo un’usanza universale che si riscontra in ogni tradizione e non ha mai avuto, se non nell’Occidente moderno, carattere triste e funebre.

Vi è però un paese europeo dove la commemorazione assomiglia a una festa familiare durante la quale i morti sembrano confondersi con i vivi. «In Irlanda» scriveva Yeats «il mondo dei morti non è tanto distante da quello dei vivi. Essi sono a volte così prossimi che le cose del mondo paiono soltanto ombre dell’aldilà.» Per questo motivo il luogo dove si riunivano i clan irlandesi era un vecchio cimitero ancora utilizzato oppure fuori servizio, dove si amministrava la giustizia.

Ancora oggi nelle notti di Ognissanti e dei Morti i cimiteri irlandesi sono un mare di lumini, quasi a continuare la tradizione celtica del Samain, quando si aprivano le tombe e i morti si mescolavano ai vivi: il sentimento di vicinanza era tale che ogni vivente, si diceva, poteva scendere con loro nel mondo infero all’unica condizione di rimanervi fino al Samain successivo.

In quei giorni di freddo autunno i Celti portavano nei cimiteri fiori a profusione, forse secchi, forse coltivati in serre, per alludere all’aldilà come paradiso. Usavano anche accatastare teschi perché si pensava che il morto appartenesse, per un certo tempo, a entrambi i regni: per quanto, nessuno poteva dirlo. «Il che gli consentiva, e consentiva in particolare al suo cranio di profetare a beneficio dei rimasti in vita» spiega Margarethe Riemschneider. «Egli poteva inoltre, se riverito, irradiare su di loro certe energie paradisiache [… ] L’ossario con i suoi teschi accatastati è più che una forma di sepoltura. La vicinanza dei teschi – che non sono necessariamente di antenati noti – è tale, come dice Yeats, che la loro ombra dall’aldilà cade sui vivi.» Si sono ritrovate «case di ossa» in Bretagna, Boemia e Carinzia, tutti paesi celtici nell’antichità.

Durante la veglia funebre si dipingevano i teschi custoditi nell’ossario e si trascorreva la notte bevendo, suonando e cantando in compagnia dei morti.

In una diversa area culturale, in Messico, le feste di Todos los Santos, che comprendono anche il giorno dei Morti, riflettono tradizioni azteche non dissimili da quelle celtiche. I cimiteri sembrano un prato fiorito a primavera, non c’è tristezza ma gioia nella rievocazione dei parenti e degli amici. Per la festa si confezionano dolci di pane in forma di teschi e scheletri a significare che dai morti, dai «semi sotterrati» rinasce la vita, ovvero che i morti «ci nutrono».

D’altronde, anche nel nostro paese al 2 novembre si mangiano ancora le «ossa dei morti»; così si chiamano in Sicilia quei dolci di pasta di mandorle che le pasticcerie vendono dalla vigilia fino a tutto il 2 novembre. Ma l’usanza non è limitata a quella regione: in molte altre, dalla Sardegna all’Umbria, si vendono per l’occasione i dolci dei morti. In Sicilia si mangiano in questi giorni anche i frutti di martorana, che imitano perfettamente quelli veri, ma sono anch’essi di pasta di mandorle.

La zuppa dei morti

Che i morti portino la vita è dunque una credenza anche italiana: d’altronde, nella stessa Sicilia si dice che i defunti, nella notte a loro consacrata, rechino doni ai bambini, come la Befana; le mamme raccontano ai figli che i parenti defunti abbandonano in quelle ore magiche le loro dimore e scendono a frotte verso le case dei vivi portando loro regalini detti li cosi dei morti.

Anche gli Etruschi credevano che i defunti sedessero accanto a loro sul bordo dei sepolcri partecipando al pasto funebre: nelle necropoli vivi e morti erano sempre gli uni alla presenza degli altri, quasi non esistesse un confine tra i due mondi per un tempo determinato.

Se i Celti festeggiavano i morti ai primi di novembre, gli antichi Romani dedicavano loro nove giorni a febbraio, durante il passaggio dall’inverno alla primavera, dal vecchio al nuovo anno; e anche  quando le calende di gennaio s’imposero come unico Capodanno si continuò a onorare gli antenati durante i Parentalia, che duravano dal 13 al 21 febbraio.

Le cerimonie consistevano nella parentatio tumulorum, che indicava un servizio funebre prestato alle tombe. Si offrivano sul sepolcro familiare corone di fiori, viole sparse, farina di farro con un grano di sale, pane inzuppato nel vino: parva petunt Manes, i Mani si contentano di poco, scriveva Ovidio.

Il giorno culminante e finale dei Parentalia erano i Feralia (il 21 febbraio) che anticamente cadevano nell’ultimo quarto di luna. Secondo Varrone «Feralia deriva da inferi, morti, e ferre, portare, perché in quel giorno si portavano i funerei cibi al sepolcro della famiglia da chi aveva il diritto di farlo». Festo invece faceva derivare il nome da ferio, ovvero «ferire» le vittime; ma questa interpretazione non sembra giustificata da nessun sacrificio ricordato in quel giorno.

I parentes erano anche ricordati singolarmente nel loro dies natalis, ovvero nel compleanno. I familiari si radunavano intorno al sepolcro del defunto per offrire libagioni o presentare alimenti ai suoi manes e per partecipare al refrigerium, al banchetto funebre.

Anche i cristiani cominciarono a onorare i loro defunti che seppellivano nelle necropoli costruite lungo le vie consolari: ogni morto aveva un loculo scavato nel tufo, dove nella ricorrenza non della nascita, ma della morte, che come si è spiegato rappresentava il vero dies natalis, gli si offriva una messa. Ai tempi di sant’Ignazio di Antiochia e di san Policarpo, nella seconda metà del I secolo, l’usanza era ormai diffusa. La Chiesa, volendo frenare quelli che considerava abusi, stabilì che la messa fosse celebrata solo sui sepolcri dei martiri; successivamente, nel IV secolo, proibì anche i banchetti funebri, forse per distinguere la commemorazione cristiana da quella pagana.

Ma alcune usanze sopravvissero a lungo: Prudenzio, che visse a cavallo fra il IV e il V secolo, ricorda le viole e i fiori che si spargevano sui sepolcri, come le libagioni sulle tombe dei cari. Talvolta, attraverso fori praticati sui coperchi dei sarcofagi si facevano gocciolare latte e miele oppure unguenti preziosi direttamente sulla salma.

Poi, con le scorrerie dei barbari, le catacombe, che si trovavano fuori della cinta delle mura aureliane, divennero insicure e si cominciò a tumulare i morti all’interno delle città, nelle chiese e lungo i narteci.

La Commemorazione di tutti i defunti nacque invece più tardi, nel cuore del Medioevo, a imitazione dei bizantini che celebravano un ufficio in suffragio di tutti i morti al sabato prima della domenica di Sessagesima, ovvero l’ottava prima di Pasqua, nel periodo compreso tra la fine di gennaio e quella di febbraio: furono i monasteri benedettini a introdurre questa pratica nella Chiesa latina durante il X secolo.

Pochi decenni dopo, nel 998, sant’Odilone di Cluny ordinò ai cenobi dipendenti dall’abbazia francese di far risuonare le campane con i tradizionali rintocchi funebri dopo i vespri solenni del 1° novembre, annunziando ai monaci che dovevano celebrare in coro l’ufficio dei defunti. Il giorno seguente tutti i sacerdoti avrebbero offerto al Signore l’eucaristia prò requie omnium defunctorum. E evidente la preoccupazione di cristianizzare le cerimonie celtiche che probabilmente sopravvivevano ancora nelle zone rurali non del tutto evangelizzate.

Il rito si diffuse a poco a poco nei rituali diocesani e in quelli di altri ordini religiosi fino al Trecento, prima che Roma lo accogliesse: l’Anniversarium omnium animarum, così si chiamava, appare per la prima volta al 2 novembre nell’Orda romanus del XIV secolo. In quel giorno non si celebrava il concistoro né si predicava durante la messa.

La quale aveva e ha la funzione di impetrare la misericordia per i defunti, sottolineando la comunione dei santi che unisce la Chiesa orante e militante a quella penante ed espiante nel purgatorio: corpo mistico dove dimorano i beati del cielo, i «viatori» della terra e le anime purganti.

Oggi, dopo la messa, ci si reca nei cimiteri per adornare le tombe di fiori, soprattutto crisantemi (simboli in Oriente, da dove sono giunti, di solarità e dunque di immortalità), e per ricordare con tutta la famiglia i parenti scomparsi. Ma diversamente dagli antichi, viviamo questa giornata all’insegna della mestizia e consideriamo i cimiteri come luoghi lugubri, da non frequentarsi se non nelle occasioni tristemente necessarie. E invece i camposanti dovrebbero tornare a essere luoghi familiari e ridenti perché contengono le nostre radici, tutti coloro che ci hanno preceduto trasmettendoci non solo la vita, ma anche il patrimonio di tradizioni, di cultura e di regole morali su cui è fondata la nostra comunità. Per questo motivo la Commemorazione dei defunti non è solo una ricorrenza religiosa o un’occasione per rievocare i nostri defunti, ma una vera festa della città. E giustamente nel 1987 il Comune di Torino invitò i cittadini a adornare con i fiori, che l’amministrazione metteva a disposizione gratuitamente, tutte le tombe e mandò nei cimiteri la banda dei Vigili urbani perché con le sue note gioiose sottolineasse anche la valenza civile della Commemorazione. Infine, per spingere i torinesi a passeggiare nei camposanti al di fuori della ricorrenza, distribuì gratuitamente una guida del cimitero monumentale, intitolata significativamente Le nostre radici.

Da CALENDARIO, di Alfredo Cattabiani – Mondadori

FOTO: Rete

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