L’ANTICO ARATRO

Laratro-preistorico-si-componeva-di-un-ramo-biforcuto-che-costituiva-la-bure, il vomere e la stiva

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L’origine dell’aratro è connessa col sorgere e col formarsi degli aggregati sociali che hanno portato l’uomo alla vita sedentaria, non solo, ma che hanno pure reso possibile la coltivazione di grandi estensioni di terreno e l’allevamento del bestiame grosso, necessario al duro lavoro dei campi. È probabile quindi che l’invenzione abbia avuto luogo negli stessi paesi in cui fu primamente praticata l’agricoltura superiore. Ora, poiché è dimostrato che nell’Oriente e nell’Egitto già nel Neolitico esistevano delle grandi piantagioni di orzo e di frumento e di miglio, mentre le nostre popolazioni palafitticole conducevano ancora una vita grama, soddisfacendo talora le imperiose esigenze del loro stomaco eon ghiande, non è improbabile che in questa età e da quei popoli ricchi e civili ci sia venuto l’utile strumento.

Aratro dell’età del bronzo trovato a Lavagnone (Desenzano del Garda)

Che l’aratro sia un’invenzione dell’Oriente porterebbe a crederlo anche la grande quantità di ossa di bue uscite dagli strati neolitici di Megiddo, Gerico, Gezer (Palestina), che testimoniano della diffusione di questo animale da trazione. L’aratro neolitico dev’essere stato un semplice bastone piegato ad un’estremità, che poteva tracciare i solchi leggieri necessarî ai piccoli semi dei nostri cereali, mentre quello dell’età del bronzo, il primo che conosciamo, testimonia di un grado già abbastanza alto di perfezione. Due interessanti incisioni rupestri di Val Fontanalba nella Liguria, poste dall’Issel nell’età del bronzo, e un’altra di Tegneby nel Bohuslän (Svezia) offrono un’idea abbastanza chiara dello strumento di quell’età.

L’aratro nell’Antico Egitto

Tanto nelle prime quanto nella seconda esso appare formato di un lungo bastone sinuoso, che all’una estremità porta il giogo (forse tenuto fermo da un cavicchio), al quale sono aggiogati i buoi, e all’altra due rami trasversali di cui il superiore forma la stiva e l’inferiore la bure e il ceppo. Di questa forma era anche l’aratro delle prime dinastie egiziane e così doveva essere l’αὐτόγυον ἄροτρον (l’aratro naturale) di Esiodo (Opere Giorni, 427-436, 467-469), la cui invenzione era attribuita dai Greci all’eroe “che aggiogò i buoi”, Buzige, oppure all'”eroe della stiva”, Echetlo, rappresentato in alcuni rilievi di urne etrusche, derivati da modelli greci, come un giovane che impugna un tronco d’albero il quale porta ad un’estremità un ramo, il timone cioè col suo ceppo.

Componenti dell’aratro

Né diverso dal primitivo aratro disegnato sulle rupi della Liguria era l’aratro usato dai prisci Latini, che i tardi nipoti ricordavano nelle monete commemorative delle fondazioni delle colonie (v. colonia): sempre il timone, la bure, il ceppo e la stiva sono uniti in un solo tronco. In nessuno di questi monumenti è visibile il vomere, ma è certo che esso ha costituito una delle parti dell’aratro sin dai primordî, in forma di grossa pietra appuntita dapprima o come lama o punta di bronzo nell’età posteriore. Un bronzetto etrusco di Arezzo, dove (a parte la figura di Atena ch’è un’aggiunta moderna) è rappresentato con vivezza naturalistica un agricoltore che dirige una coppia di buoi aggiogati a un aratro di forma primitiva, mostra appunto come esso fosse legato al ceppo per mezzo di un doppio laccio probabilmente di cuoio (Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia).

Sugli aratri di età classica ci istruiscono abbastanza gli antichi scrittori e le rappresentazioni figurate, specie di vasi, di monete e di gemme. In Grecia oltre all’aratro naturale Esiodo ricorda anche l’aratro composto (πηχτὸν), che in sostanza è l’aratro naturale formato con pezzi staccati. Essi portavano i seguenti nomi: ἱστοβοεύς, il timone, γύης, la bure, ἔλυμα, il ceppo, ὕννις, il vomere, ἐχέτλη, la stiva. Il giogo era fissato al timone per mezzo di un cavicchio.

Per nulla diverso dall’aratro composto di Esiodo era l’aratro italico. Ne è prova l’esemplare rappresentato su una situla bronzea uscita dal sepolcreto etrusco della Certosa di Bologna.

I nomi delle parti dell’aratro romano conservatici principalmente attraverso i testi di Virgilio (Georg., V, 169 segg.), Varrone (De linglat., V, 135) e Columella (Res rust., II, 4) sono: temo, il timone, buris, la bure, dentale, il ceppo (che poteva avere un duplex dorsum oppure si biforcava in due rami [dentalia] che si riunivano in punta e a cui si attaccava il vomere), stiva, la stiva, munita di una manovella (manibula manicula), le aures, che erano due tavole inchiodate sul ceppo e avevano il compito di ricoprire i solchi seminati e di farne degli altri per lo scolo delle acque, e infine il vomis, il vomere. Quest’ultimo, chiamato anche dens, era di bronzo nei tempi più antichi e più tardi di ferro. V’erano più modi di fissarlo al ceppo; il più antico, come si è visto, consisteva in una semplice legatura, ma il più sicuro era quello d’incastrarlo “come un dente nel suo alveolo” (Varrone, De linglat., IV, 131). Variavano le sue forme a seconda dei terreni; alcune ci sono note attraverso esemplari usciti dagli scavi, altri sono stati descritti da Plinio (NatHist., XVIII, 48, 2). La più diffusa era a forma di sottile losanga coi bordi alzati e ripiegati. Oltre al vomere usarono gli antichi anche il coltro (culter) che serviva per tagliare verticalmente i terreni.

L’aratro su ruote, plaustraratrum, inventato, secondo Plinio, dai Galli retici, era diffuso in tutta l’Italia superiore, dove la terra grassa e compatta richiede gran forza di buoi per essere rotta. Nel plaustraratrum la bure poggiava sul castello del carro.

Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/aratro_(Enciclopedia-Italiana)/

Foto: Rete

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