LA CALABRIA RACCONTATA DA PERRI

M’ha preso la mente ed il cuore “Emigranti” di Perri. Un’opera straordinaria, ricca di umanità. M’ha restituito il mondo contadino nel quale sono nato. Pensieri, preoccupazioni, tribolazioni, stenti, che occupano la vita dei protagonisti del romanzo, sono gli stessi che ho visto ad Orsomarso negli anni Cinquanta: la lotta per la vita, l’emigrazione come lacerazione, la morte a sancire una sconfitta.

In questo brano un emigrante, tornato dall’America, parla della Calabria, che le scoppiava nel cuore, quando era lontano. Emozioni che hanno provato in tanti. Troppi.

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Cosa volete che vi dica?

Io quando sono qui vorrei essere in America, e quando ero in America tutte le notti sognavo la mia casa. Questa terra bruciata ci perseguita e non ci lascia dormire fino in capo al mondo. Cosa avevo lasciato qui io? miseria! eppure queste brutte strade sporche, queste case, questi orti li avevo sempre davanti agli occhi. Mangiavo maccheroni e bevevo birra, e intanto pensavo alla bottega di Porzia Papandrea. Mi pareva che senza di me l’odore dello stoccafisso andasse perduto. Quando ero a Billesbille [lllesville] dormivo in una baracca, e siccome facevo il reboia mi alzavo un po’ più tardi la mattina. Quando mi svegliavo e mi guardavo intorno, e non vedevo che quelle pareti di tavole affumicate, e non udivo che il brontolare e lo scalpiccio degli uomini che andavano al lavoro, o rissavano davanti al lavatoio, mi veniva da piangere come un bambino. Mi ricordavo del tempo in cui dormivo nella mia vigna, a Mirto, sopra un letto di ginestre. La mattina mi svegliavano le allodole, o il mio gallo che veniva a gorgogliarmi davanti, battendo i suoi speroni arcuati, come fosse un cavaliere dei Reali di Francia. Io aprivo gli occhi e vedevo il mare, e le nuvole sull’acqua, tutte screpolate dall’alba; e intanto le cicale cominciavano a cantare. Ah! vi dico ch’è una cosa seria dimenticarlo questo paese!

Diventarono tutti pensierosi, conquistati da una strana malinconia.

La notte era dolcissima. La luna pendeva sugli orti e sulle case limpida, luminosa, come una grande patèna d’argento. Dalla campagna, insieme allo stridere delle cavallette, veniva un cantare malinconico di rospi, come ripercosso da un’eco multipla ai quattro angoli dell’orizzonte; una specie di voce astrale, che discendesse dai gorghi profondi del ciclo. Sul mare che brulicava, tutto barbagli, si delineava, col suo profilo nero, il bel campanile di Bovalino, che sembrava un cipresso, in mezzo alla selva di olivi che circondavano il paese. Bony sembrava emergere nel lume lunare come un’isola.

Un contadino alle Gabelle accordava la zampogna.

Che cosa aveva, dunque, in sé quella terra per conquistare il cuore, per essere ricordata e rimpianta in ogni angolo del mondo, dove si trovavano errabondi i suoi figli in cerca di lavoro e di pane?

Nessuno l’avrebbe saputo dire, se non forse il cuore.

Paese strano e diverso, tutto accidentato, a balzi e burroni, dove la costa arida e scoscesa si alternava con il pantano e l’oliveto; la sodaglia invasa dal ginerio e dal lentisco si stendeva accanto al canneto, circondato dal giunco e dal capelvenere; l’agave e la marruca fiorivano accanto al frassino montano. Sembrava tanto secco e pietroso, eppure ogni acquazzone faceva germogliare l’erbe in tutti gli angoli, su tutti i sentieri. La sua vegetazione era scarsa, eppure portava le ricchezze di tutte le stagioni; i suoi frutti avevano tutti i profumi e tutti i sapori, e vi erano tutti i frutti come nel paradiso terrestre. E c’era il mare a pochi passi, e la montagna di contro, l’alta montagna col castagno, l’abete, il pino : le selve in cui meriggiava il lupo e grugniva il cinghiale.

Su ognuno di quei poggi si vedevano vecchie mura diroccate, navate di antiche chiese abbandonate.  Erano ruderi di paesi distrutti dal terremoto in diverse epoche. Eppure accanto a quelle rovine altre case erano sorte, altre chiese, altri campanili: i superstiti, seppelliti i loro morti, avevano riedificato, come le formiche, quasi sulle tombe; avevano riassettati i terreni sconvolti, li avevano riscattati dalle frane e dalle alluvioni, ed avevano fondato su esse le loro fatiche e le loro speranze.

In quella terra così varia e pittoresca, piena di contrasti, apparentemente povera e intimamente ricca, saporosa, grave e soave, c’era una certa rispondenza con la vita e l’anima dei suoi abitanti.

Anch’essa, l’anima calabrese, è piena di contrasti. Profondamente, e quasi direi violentemente buona, ha delle singolari aridità. Tutti i buoni frutti del cuore, dalla ospitalità alla fedeltà, dalla devozione al sentimento della famiglia, dalla resistenza al dolore all’abnegazione, all’eroismo, in essa fioriscono spesso con un profumo di poesia soavissimo. Eppure la vita dei Calabresi è triste, dolorosa, angusta, come il paesaggio che, pur avendo tanti elementi di bellezza, non sembra bello, o la sua grazia vela di una profonda e dolorosa malinconia.

Da EMIGRANTI, di Francesco Perri,  Jaca-Book

FOTO: Rete

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