Dalla solitudine del mangiare alla solitudine di vivere

Il segno della “festa” nel tempo contadino era significato dal vestito un po’ più presentabile, dal ritrovarsi con gli amici in piazza, dalla processione accompagnata dalla Banda, dalle bancarelle degli ambulanti con i loro altoparlanti; ma soprattutto dal cibo condiviso con la famiglia allargata. Fusilli al sugo con carne di capra, polpette e vino: era il pranzo della festa, era la festa.

In questo brano Vito Teti ragiona sui cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi tempi che hanno portato ad un diverso rapporto col cibo. Dalla solitudine del mangiare alla solitudine di vivere.

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Le situazioni eccezionali, i passaggi, le soglie prevedono sempre una sottolineatura, una «benedizione» attraverso il cibo. Per la sua essenzialità, necessità e sacralità, il mangiare contraddistingue le forme di rappresentazione degli individui delle società tradizionali. Per questo, la scomparsa della fame, le diverse disponibilità alimentari, il progressivo distacco dal mondo della produzione, l’erosione dei riti e delle feste, non potevano che determinare anche la fine di un «mangiare insieme» che si spiegava in quel tipo di società dipendente dal pane quotidiano. L’abbondanza e la disponibilità alimentare non solo prefigurano, come abbiamo visto, nuovi rischi, nuove paure e nuove ansie, ma hanno prodotto la nascita di nuove abitudini che hanno disperso il carattere simbolico e la dimensione conviviale e rituale del mangiare.

Ne La fine del mondo, Ernesto de Martino (1977) ricorda come il passaggio dalla «fame» alle nuove e a più diffuse possibilità alimentari non debba essere considerato in maniera unidirezionale come miglioramento, ma sia denso di inedite minacce per le società moderne. L’etnologo nota che, se la fame è un pericolo, una minaccia ancora più radicale è mangiare da soli. Il pane come cibo che «nutre si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune». E’ necessario «mangiare insieme, ritrovare il pane del banchetto, e comunicare, attraverso il suo diretto significato umano che accenna a contadini e a fornai, con la comunità intera da trasformare edavanti a cui testimoniare». Dobbiamo a Jean Baudrillard una delle più incisive descrizioni della «solitudine alimentare» come segno della «solitudine esistenziale» che caratterizza gli abitanti di New York, capitale di una modernità simile, sotto certi profili, a un’inedita primitività: per Baudrillard, una solitudine che non assomiglia a nessun’altra è quella

dell’uomo che si prepara pubblicamente il pasto, su un muretto, sul cofano di un’automobile, lungo una cancellata, solo. E uno spettacolo che si vede dappertutto, qui, ed è la cosa più triste del mondo, più triste della miseria; più triste del mendicante è l’uomo che mangia solo in pubblico. Niente di pili contraddittorio rispetto alle leggi dell’uomo o dell’animale, perché le bestie hanno sempre la dignità di spartire o di contendersi il cibo. Colui che mangia solo è già morto [Baudrillard, 1987].

Le abitudini alimentari degli americani visti con gli occhi di Baudrillard sembrano narrare di una catastrofe già avvenuta e di cui non ci siamo ancora accorti. L’America diventa la sola società primitiva attuale, anche perché qui ritroviamo il selvaggio che pensa e vive da solo, da solo divora la sua preda. Una specie di solitudine del tutto nuova nell’esperienza umana, come scrive Wendell Berry (2009), uno dei maggiori esponenti dell’ambientalismo mondiale, nasce dal fatto che «mangiatore e mangiato  sono esiliati dalla realtà biologica, e il risultato è una specie di solitudine del tutto nuova nell’esperienza umana»: non parte dalla fabbrica e dalla contraddizione tra lavoro salariato e capitale, ma dai campi, dalla terra coltivata, dal trauma identitario che l’uomo patisce quando si ritrova separato dalla «gestione responsabile» del proprio spazio e del proprio tempo. L’alienazione dal proprio prodotto esisteva già nelle società tradizionali, dove i pescatori fornivano ai ricchi il pescato e gli agricoltori non mangiavano il pane di grano, ma ora, in più, c’è la progressiva perdita di senso di attività umane sempre più eterodirette, dettate da leggi economiche che non sanno che obbedire a se stesse.

Certo è necessario interrogare e decifrare le nuove forme di socialità e di convivialità che si sono affermate nelle metropoli, nelle città, nei piccoli centri, quelle legate, per esempio, al consumo di cibo di strada e alla funzione decisiva dei mercati rionali. Nei miei precedenti lavori ho scritto che l’esposizione del cibo nei mercati, il teatro alimentare messo in atto da venditori e avventori, e anche l’uso di cucinare e mangiare

all’aperto, in piazza, per strada, in campagna, sono tratti unificanti di tutto il mondo mediterraneo. E non si tratta solo di una questione di clima. I nuovi mercati e i punti vendita rionali, nei quartieri, nelle periferie, in realtà sono ciò che rende possibile la trasformazione dei nonluoghi in luoghi. Un aspetto, questo, essenziale, come di recente ha fatto notare Franco La Cecla (2015), in cui l’“urbanità” emerge e attraverso il quale le città resistono alle logiche asettiche e spesso disumane della pianificazione urbanistica. Già a metà degli anni novanta, d’altronde, Piero Camporesi, nel suo La terra e la luna, aveva interpretato in chiave oppositiva la persistenza dei mercati nell’epoca della disumanizzazione del cibo. Vale la pena leggerne l’analisi:

La piazza, il mercato, l’incontro, lo scambio, l’acquisto sopravvivono vigorosi in un’età che – a rigore – dovrebbe aver decretato la loro fine: permangono vitali in paesi «moderni», altamente industrializzati. Forse la loro intramontabile vitalità può essere collegata ex contrario con l’estendersi del mercato «scientifico», programmato al calcolatore, del mercato-obitorio dei generi alimentari nel quale, protetti dalla contaminazione e dall’«impuro» tocco delle mani […] attendono di essere afferrati e buttati dentro un carrello. Il toccare abolito, l’odorare annullato, nature morte che niente comunicano ai sensi più raffinati (il tatto e l’olfatto), risvegliando se mai gli istinti primitivi, elementari, immediati della sopravvivenza e insieme i sensi più superficiali e distratti, l’occhio e l’orecchio [Camporesi, 1995].

Sandro Onofri ne Le magnifiche sorti (1997) ha ricordato le figure femminili del Sud o della Little Italy con «quell’ abbandonare la mano in grembo stringendo una pera o un pezzo di pane nel pugno», e con l’inconfondibile e antico «modo di masticare lento e lungo, che è tutto un fantasticare insieme sul mondo e sulle sue questioni eterne».

Oggi, invece, sono sempre di più le persone che mangiano da sole. Ci si preoccupa di promuovere prodotti e pasti per singoli. Si legge anche della bellezza e della comodità di mangiare da soli. Davvero la scelta di vivere da single deve tradursi in scelta di mangiare in solitudine ed escludere la condivisione del pasto e del mangiare come segno di nuovi legami e di rapporti che si sono affermati nelle nostre società? Certo da attori e produttori gli individui sono diventati consumatori e spettatori passivi, stupiti, creduli e increduli. Lungo il palo della Cuccagna, su cui si arrampicavano gli affamati, si incontravano cibi e prodotti di cui si conosceva la provenienza e si aspettava la bontà. La Cuccagna delle televisioni in realtà nasconde tutti i processi produttivi e annulla gli aspetti rituali e conviviali del mangiare.

Da “FINE PASTO”, di Vito Teti – Einaudi

FOTO: Rete

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