Le “NAVI DI LAZZARO”, i viaggi della speranza tra Ottocento e Novecento

Emigranti in partenza

Che il viaggio dei nostri emigranti fra Otto e Novecento fosse cosa assai diversa dalle attuali odissee dei disperati nel Mediterraneo, bastano tre numeri a dimostrarlo: la Libia dista dalla Sicilia circa 500 km, Napoli dista da New York circa 7000 km, e 11 mila da Buenos Aires. Nessun barcone di quelli che quasi ogni giorno affondano nel nostro mare potrebbe mai mettersi in viaggio per varcare l’Atlantico. E va detto che i nostri emigranti, nella stragrande maggioranza, non erano clandestini. Avevano i documenti a posto e una meta — Stati Uniti, Brasile, Argentina — che li attendeva, se non proprio a braccia aperte, quasi come una specie di toccasana per l’economia. Di «respingimenti» non si parlava, se non di quelli ispirati dalle teorie eugenetiche. Così, c’erano non pochi italiani che, dopo essere arrivati in America a prezzo di enormi sacrifici, a Ellis Island, stazione di quarantena di New York, venivano rimpatriati perché affetti da tracoma.

A parte queste fondamentali differenze, ci sono tuttavia molte cose in comune tra i viaggi di ieri e quelli di oggi. Fino alla fine degli anni Dieci, le navi transoceaniche non erano modelli di efficienza. E anche nelle migliori le terze classi erano un inferno stipato all’inverosimile, spesso col doppio del carico umano consentito. Le cosiddette «navi di Lazzaro» (definizione della studiosa Augusta Molinari), velieri prima e vapori poi, entrambi obsoleti, andavano lente, offrivano pessime condizioni igieniche, pessimo vitto, spazi personali ridottissimi, niente aria, un tanfo e una sporcizia indescrivibili, una promiscuità che spesso sfociava in esplosioni di violenza. L’Italia già contadina e ora migrante vi si adattava senza troppi indugi: era un popolo abituato a vivere in condizioni miserevoli. Ma sulla nave era troppo: nausee, malanni intestinali, malori di ogni tipo erano in agguato. Specie sulle tratte più lunghe (Sudamerica) erano frequenti le epidemie. Dal «Matteo Bruzzo», in navigazione per tre mesi, si dovette procedere all’espulsione di centinaia di cadaveri, e nel 1896 sul «Carlo Raggio» partito da Genova si contarono duecento morti di colera. Le condizioni dei migranti peggioravano quando sulla rotta s’incontrava una tempesta (accadeva quasi sempre). E non era così raro che qualche nave colasse a picco: il caso più famoso è quello del piroscafo «Sirio», affondato nel 1906 a Palos (Spagna) dopo essere incappato negli scogli. Morirono qualcosa come 500 nostri emigranti.

Migranti-a-Ellis-Island-1892

I barconi degli scafisti in partenza dalla Libia sono stati paragonati alle navi negriere dell’Ottocento, benché persino su queste ultime le persone avessero un pochino di spazio in più. I vapori transoceanici non erano così, benché poi, in terza classe, molto spesso viaggiassero dei veri e propri schiavi che non sapevano di essere tali. Erano gli indentured workers caduti nelle grinfie del cosiddetto padrone system, una rete di complicità tra imprese americane, mediatori italiani, personale delle compagnie di navigazione e funzionari dell’emigrazione sulle due sponde dell’oceano. La più disperata manovalanza del nostro Mezzogiorno veniva attratta con la promessa di rapidi guadagni in America, e si affidava a questi aguzzini che, reclutati in squadre di decine e centinaia di soggetti, venivano poi smistati sul suolo americano per attendere ai lavori più duri nel vasto nulla continentale. Una volta giunti a destinazione scoprivano che quasi tutto quel che guadagnavano serviva a rimborsare il «padrone» («boss») che aveva provveduto a farli viaggiare, ad alloggiarli, a rifornirli di cibo e generi varii. A quella sanguisuga che parlava il loro stesso dialetto e pregava lo stesso Dio, dovevano anche versare una speciale tassa supplementare – la «bossatura» – e insomma si ritrovavano nella condizione di non potersi più liberare dalla sua morsa. Negli anni ’80 dell’800 lo scandalo del padrone system esplose sui giornali statunitensi, e la politica si mise al lavoro. La prima legge (1885) fu la «Alien Contract Labor Law», ovvero «Foran Act», dal nome del congressman dell’Ohio Martin Foran che ne era il firmatario. Si prevedevano pesanti multe per gli impresari e per i capitani delle navi su cui si fossero trovati a viaggiare i lavoratori, e si dava agli ispettori dell’immigrazione il potere di respingere gli immigrati sospettati di aver sottoscritto un contratto di lavoro prima della partenza. Anche se il contratto di cui parliamo era evidentemente un contratto-capestro, questa circostanza può suonare un po’ strana per chi, come noi, è abituato a pensare che sarebbe meglio se gli immigrati di oggi avessero un lavoro vero e non improvvisato. Ma nell’America di cent’anni fa il cuore del problema era il rischio che la nuova forza lavoro, pronta a impegnarsi per salari di molto inferiori a quelli sindacali, determinasse un tracollo delle condizioni di vita dei lavoratori americani.

Infine, in questo rapido excursus, resta da vedere quali affinità ci siano tra i punti d’imbarco di ieri e quelli di oggi. È possibile che in Italia ci fossero situazioni paragonabili a quelle oggi rilevabili a Tripoli o a Misurata? A Napoli, all’Immacolatella Vecchia, si concentravano tutti gli emigranti per le Americhe. Raffaele Viviani, nell’atto unico Scalo marittimo, intitolato anche ’Nterra ’a Maculatella, li definì «carne ’e maciello». Stavano accampati vicino al molo, a centinaia, a migliaia, in attesa dell’imbarco anche per giorni, mentre l’economia informale di un’intera città ronzava loro intorno per riuscire a succhiare anche gli ultimi spiccioli da tasche che s’erano già svuotate di tutto per poter compiere il gran passo dell’ultima speranza. Una vivida e, devo dire, assai disturbante descrizione degli abusi, delle truffe, dei raggiri e dei furti che quotidianamente si consumavano all’Immacolatella ai danni dei più poveri e sprovveduti si legge nel libro «Imported Americans» (1904), opera del missionario e giornalista americano Broughton Brandenburg. Uno che aveva voluto andare a vedere di persona com’era il mondo terribile da cui partivano gli italiani.

Di Francesco Durante

FONTE: https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/15_aprile_23/tempo-nostri-migranti-c-erano-navi-lazzaro-f962a3ba-e998-11e4-adf4-8136fff573eb.shtml

FOTO: Rete

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