Le leggi suntuarie nel Medioevo: il lusso spetta a pochi

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Le classi dominanti hanno da sempre cercato di tenere sotto controllo i possibili elementi sovversivi stroncando sul nascere i movimenti di dissenso, spesso in maniera violenta. Quel che non tutti sanno è che la repressione agì per lungo tempo anche ai danni delle classi benestanti che volevano elevarsi ed emulare le élite del potere. In questi casi venne usata una tecnica molto più sottile: l’applicazione di regolamenti il cui obiettivo era quello di limitare stili di vita sfarzosi, in competizione con quelli della corte. Le leggi suntuarie (dal latino sumptuarĭum, cioè “relativo alle spese”) fecero la loro comparsa già in epoca classica, ma fu nel XIII secolo che divennero pratica ricorrente da parte dei comuni italiani.

Una signora della nobiltà con le accompagnatrici che suonano strumenti musicali. Illustrazione tratta da De claris mulieribus di Giovanni Boccaccio (inizio XV secolo)

Chiesa e pudicizia

In prima linea nella lotta per il decoro c’era la chiesa cattolica la quale, rifacendosi agli antichi valori di austerità e sobrietà, auspicava comportamenti e costumi morigerati da parte dei fedeli, facendo così il gioco delle élite politiche. Ad esempio, nel 1279 il cardinal Latino Malabranca Orsini intervenne nel De habitu mulierum (Sull’abito delle donne) sulla lunghezza dello strascico che non doveva superare il palmo. Non solo: in Lombardia, Emilia Romagna e Toscana veniva intimato ai sacerdoti di non assolvere durante la confessione le dame che trasgredivano a questo principio di umiltà, dal momento che disobbedendo dimostravano di preferire il plauso del mondo all’approvazione di Dio. Lo stesso Latino Malabranca Orsini favorì la pratica del velo sul capo delle donne per coprire le acconciature elaborate e dare un’immagine di moderazione, ma il tentativo fallì, in quanto le signore della buona società presto sostituirono veli semplici con tessuti ricercati e pizzi di grande valore.

Nelle intenzioni della chiesa cattolica, gli stessi vescovi avrebbero dovuto vigilare sulla sobrietà dei costumi, ma spesso la situazione sfuggiva loro di mano, e gli atti di devozione diventavano occasione per fare sfoggio d’eleganza. Anche altri accessori legati alla pratica religiosa come i rosari e le catenine che si regalavano ai bambini in occasione del battesimo diventarono oggetto di disquisizione, e si stabilì che potessero essere decorati al massimo con qualche corallo o cristallo, ma non con pietre preziose o perle.

Latino_Malabranca

Moda e divieti

Le prime a doversi destreggiare fra i rigori delle leggi suntuarie erano certamente le donne: le acconciature non dovevano risultare troppo appariscenti, gli strascichi non troppo lunghi e i monili non troppo preziosi. E chi contravveniva doveva versare al comune una multa salata. A Siena nel 1413 venne adottato un escamotage: chi pagava in anticipo la multa poteva sfoggiare quel che in altre circostanze sarebbe stato vietato. Le regole cambiavano da città a città: nei grandi centri come Firenze, Bologna o Pisa, si applicava una disciplina maggiore mentre a Venezia, a causa del forte transito di merci, spesso si chiudeva un occhio. Nel 1299, per esempio, venne varata una prima legislazione redatta da un collegio di ventisette membri che, fra le altre cose, proibì di fissare le perle alle trecce e di fare ricorso a bottoni d’ambra o d’oro; venne inoltre vietato di possedere più di due pellicce ciascuno e di fare sfoggio di uno strascico più lungo di un braccio. Sei anni dopo queste regole vennero revocate.

Anche nelle città minori come Gubbio, Pinerolo o Savona vigeva la disciplina delle leggi suntuarie, ma qui l’applicazione riguardava soprattutto la ricca borghesia o la piccola nobiltà, risparmiando invece la corte. V’erano poi delle restrizioni dedicate a particolari categorie di persone: gli ebrei – presenti in ricche città come Ferrara e Venezia – dovevano portare un segno di riconoscimento come un cappello a punta o un segno (fascia o toppa) sul braccio. Oppure le prostitute, le quali non dovevano eccedere in segnali “di richiamo” come tacchi troppo alti o lunghi nastri. Questi ultimi a Bologna non dovevano superare un braccio e mezzo.

I banchetti

Se l’abbigliamento era importante, era però a tavola che il lustro dell’anfitrione raggiungeva il suo apice. Il numero d’invitati, la ricercatezza del menù, le attrazioni offerte nel corso del banchetto fungevano da rappresentazione del potere. Ed è per questo che le leggi suntuarie si accanivano per tenere a bada la magnificenza di nobili e ricchi borghesi che sgomitavano per emergere mettendosi in concorrenza col potere costituito. Per offrire pranzi sempre più sbalorditivi si ricorreva spesso a ingenti investimenti, nell’ottica di un ritorno in termini di lustro, favori e relazioni d’affari. Perché se la legge non fosse intervenuta a contenere il tutto, gli sprechi sarebbero stati inesauribili.

Dal XIII secolo si cominciò dunque a legiferare un po’ ovunque per limitare il numero d’invitati e dal secolo successivo si cominciò ad intervenire anche sui cibi. A Venezia si proibì di ricoprire la selvaggina e le altre carni in foglia d’oro, mentre a Bologna le restrizioni divennero sempre più numerose: non più di due pernici e un fagiano ogni due persone, il divieto di offrire il biancomangiare – una preparazione a base d’ingredienti bianchi e raffinati che simboleggiava la purezza e la nobiltà –, niente più costruzioni di zucchero e canditi, non più di una torta. E il menù doveva attenersi ad una linea soltanto: carne o pesce. Le legge colpiva tutti i trasgressori, sia che si trattasse di committenti sia che si trattasse di cuochi. A Bologna, per esempio, qualora i cuochi non fossero stati in grado di pagare, venivano addirittura sottoposti sulla pubblica piazza alla pena corporale dei «tre giri di corda»: legate le mani dietro la schiena, venivano issati per mezzo di una carrucola rompendosi così i legamenti delle spalle.

L’applicazione della pena corporale per questo tipo di reato fu rara, ma la sua esistenza ci fa capire quanto fosse grave infrangere le leggi suntuarie. Guai, infatti, a eccellere superando in fasto i banchetti di nobili di rango superiore. Insidiare il potere, anche solo a tavola, era uno sgarro che non sarebbe stato dimenticato facilmente, e che avrebbe portato a nefaste conseguenze. A Venezia v’erano degli ispettori che compivano (spesso su segnalazione anonima) delle vere e proprie incursioni in cucina per verificare che le cose venissero fatte secondo la legge. Per i trasgressori si poteva arrivare alla prigione e alla reclusione nelle galee, le navi da guerra dove i prigionieri incatenati erano obbligati a remare. I cuochi non erano gli unici a finire nel mirino degli ispettori: anche gli scalchi o maestri di cerimonie avevano la responsabilità di eseguire l’allestimento dei ricevimenti a regola d’arte e senza infrangere la legge. Per questo dovevano fornire delle relazioni dettagliate entro tre giorni dall’evento, riferendo alle istituzioni l’elenco completo degli ospiti, delle portate, delle bevande e degli intrattenimenti offerti. Insomma, la magnanimità diventava occasione di scalata sociale, ma il potere costituito era pronto ad impedire la mobilità sociale con ogni mezzo.

Martina Tommasi

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