LA CALABRIA DI ALVARO – Il fascino della cultura


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Questo brano è preso da “Un treno nel Sud”, pubblicato per la prima volta nel 1958. Contiene testi scritti tra la fine degli anni Quaranta ed i primi anni Cinquanta. Sono “resoconti sentimentali, letterari etnografici”. Racconta il come eravamo, che serve per capire chi siamo. Alvaro, da grande scrittore, “ci fa vedere quanto d’indecifrabile, d’inesplorato, di mitologico si nasconde sotto la patina delle tradizioni e dei pregiudizi”.

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In treno sulla linea del Mar Jonio, ho riveduto i giovani che vanno a scuola all’Università di Messina, dalla costa della Calabria, in un raggio di un centinaio di chilometri. Li avevo veduti allo sbarco a Messina, alle otto del mattino, ragazzi e ragazze, l’aria stordita per le quattro ore passate in treno e in traghetto. Era una strana compagnia che sfilava sulla passerella di sbarco, i libri sottobraccio, e, così giovani, con qualcosa d’appassito. Li rivedevo dunque al ritorno, nei treni lungo il mare Jonio. In quel paesaggio di agavi e di colli cretosi da una parte, il mare deserto dall’altra, i treni acquistano un’aria sempre nuova di mostri della meccanica. Il legno dei vagoni di vecchio tipo emana ancora, in quell’aria pulita, l’essenza antica dell’albero originario. E la stanchezza e il tedio sono in questi ragazzi, che trascorrono quasi l’intera giornata in viaggio. Ne ho veduti all’altezza di Roccella, cioè a cinque ore di viaggio da Messina. Mi misi a parlare con uno, intriso di sonno, partito dal suo paese la mattina alle tre per arrivare a Messina alle otto, e tornato nella stessa mattinata perché il professore, che doveva arrivare da una città dell’Italia centrale settentrionale, non si era presentato alla lezione. Gli chiesi che cosa facessero lui e i suoi compagni a Messina, nelle ore in cui aspettavano il professore. Le risposte furono vaghe, ma non tanto da non lasciare intendere che si trattava di una vita brada, e senza neppure il denaro per sedersi a un caffè. Mi chiese qualche libro. Gli domandai che genere di libri. Disse che qualunque libro sarebbe stato buono. Di fatto, non disponeva neppure della somma per l’acquisto dei testi scolastici. Ma aveva curiosità e voglia di sapere.

Il Mezzogiorno gode ancora, presso qualcuno, la fama di contrada che, pur al culmine della sua crisi economica e sociale, ha una tradizionale disposizione alla cultura. Fino alla generazione dei nonni, esiste una generazione di classi colte, nel limite della cultura umanistica, quasi in ogni più oscuro paese dell’Italia meridionale. Quella tradizione è quasi spenta; qualche raro esemplare lo si può incontrare ancor oggi, certo, dove meno lo si aspetterebbe. E questa era la cultura per la cultura, bisogno d’una regola morale e di contatto con una civiltà superiore e universale. Ma da quando la crisi del Mezzogiorno divenne più acuta, dal tempo in cui si profilò il fenomeno della sovrappopolazione, che è degli ultimi quarant’anni, la cultura divenne una manifestazione, e la prima, della lotta di classe. Vale a dire che, chiuse le strade dell’emigrazione, impoverite le economie regionali, non restando aperte altre strade che quelle della burocrazia e delle professioni liberali, una massa ingente di giovani di ogni condizione, ma prevalentemente degli strati più poveri della classe media, e dello stesso proletariato, accettando qualunque condizione di vita la più disagiata, si rovesciò sulle scuole. Naturalmente, il concetto di cultura si andò sempre più immiserendo, e il famoso umanesimo meridionale non cercò altro nella scuola che il mezzo per ottenere un diploma.

Nelle famiglie, che mandavano i figli agli studi, il problema era di resistere fino alla licenza o al diploma o alla laurea; ma si trattava di resistere anche per i ragazzi, attraverso indicibili sacrifici e privazioni; non soltanto; spesso, tra difficoltà frapposte dalla stessa natura. Non è facile misurare lo sforzo che subisce una natura umana passando da un ambiente familiare senza tradizioni di cultura, e da un ambiente paesano ridotto alla pura necessità, a quella astrazione che è la cultura, a quel disinteresse, a quella somma di nozioni. E in condizioni di vita tutt’altro che facili. Ricordo che molti di questi ragazzi, nei tempi in cui s’iniziò la fuga verso la scuola, abitavano nelle città in stanze d’affitto trasformate in dormitori, e molti si nutrivano dei cibi che arrivavano loro settimanalmente dal paese, e col pensiero che se li fosse tolti di bocca la famiglia. Secondo il potere di resistenza dei ragazzi edelle famiglie, si mirava a un titolo più o meno alto, che impegnava più o meno anni. Le scuole classiche si moltiplicarono.

Si domanda perché una società simile non avviasse i suoi figli a carriere tecniche, a un perfezionamento di mestieri e di artigianato, a scuole agrarie. S’è sentito dire che fu la società locale, la borghesia dominante, a reclamare dallo Stato le scuole classiche, come un privilegio. Ciò non è nel vero, anche se è vero che la domanda fu di scuole classiche. La borghesia locale disponeva di mezzi, e se avviava i figli al titolo di studio d’una scuola umanistica, non si serviva del ginnasio-liceo del capoluogo di circondario, e neppure di quello del capoluogo di provincia; mandava i suoi rampolli a Napoli, a Roma, a Firenze, a Milano. Furono la piccola borghesia e lo stesso proletariato a reclamare le scuole classiche nei piccoli centri, più vicini e meno costosi; essi vollero mettersi al livello della classe dominante, attraverso le professioni liberali, o entrare nella burocrazia col titolo di avvocato.

Non è questione, questa volta, di classe dominante, ma di struttura d’una società. Con una agricoltura arretrata, con un’industria primitiva che non richiede tecnici, non avendo capitali per sognare di poter creare una propria azienda, senza affidamento di crediti bancari, la piccola e media borghesia mirarono al titolo di studio buono per i concorsi. Anzi, negli ultimi tempi, è stata la borghesia più progredita ad avviare i giovani verso professioni tecniche, prospettandosi un’iniziativa industriale, o un avviamento nelle industrie del Nord. Soltanto di questi tempi la piccola borghesia meridionale, assistendo a una trasformazione della vita che coi suoi mezzi meccanici arriva fin nei paesi più remoti, e assistendo al fenomeno della disoccupazione intellettuale, comincia a intuire che un mestiere qualificato è nel mondo d’oggi un migliore partito. Basta l’esempio dei molti laureati o quasi che si sono dovuti adattare negli ultimi anni ai lavori di cantiere istituiti per combattere la disoccupazione. Ma altri formano una categoria particolare, che non trova posto né torna al mestiere paterno.

In Italia si discute periodicamente dei problemi della cultura, salvo poi a farne oggetto di facile ironia, il giorno in cui si arriva a parlarne concretamente. E quasi si prova un ritegno a porre di questi problemi, che pure esistono e che per l’Italia meridionale sono lo stesso problema sociale. Dovrò ricordare a questo proposito alcuni dei miei incontri con giovani meridionali formati dalla cultura comunista, e ne ho incontrati fin nei più remoti paesi della Calabria, e fra gli studenti che alle cinque ore di treno per arrivare a Messina aggiungono un’ora di autobus per raggiungere la stazione dall’interno. La sola cultura attiva, bisogna che lo dica, è qui la cultura promossa dai comunisti. Questi giovani sono un prodotto abbastanza curioso dell’ingegno meridionale, di interessi assai larghi, e danno l’impressione che il loro comunismo sia il vecchio liberalismo meridionale che più volte affiorò nei momenti di crisi, come alla vigilia dell’unità, per poi declinare senza la forza di creare una realtà sociale, pur intuendo esattamente tutti i problemi di convivenza. Questi giovani non invocano libri, ma li hanno; hanno fonti d’informazioni, contatti assidui coi professori delle loro stesse opinioni, dispongono di buone riviste, la loro conoscenza del mondo non è quella dei giornaletti illustrati. Poiché sono preparati, nei paesi hanno prestigio, e lo hanno nelle loro famiglie, in quelle famiglie in cui la cultura è ancora guardata come un potente strumento per mutare condizione.

Si ha attraverso costoro l’impressione di una società particolare che agisce attentamente in una società rimasta a un modulo retorico o a una totale dispersione dei più alti valori. In questa società i focolai di cultura locale furono distrutti nei famosi ventidue anni, da un regime che tendeva all’accentramento della cultura come all’accentramento d’ogni altra attività, per ragioni di prestigio della Capitale nonché per il sospetto che centri di cultura regionale fossero incontrollabili o diventassero pericolosi per la formazione non ortodossa dei giovani. La lotta contro i dialetti fu uno dei fenomeni di questo genere. L’umanesimo meridionale ebbe in quegli anni il colpo di grazia; e la cultura provinciale, intendo quella dei centri minori e non Napoli o Bari, la quale un tempo contava uomini anche insigni intenti allo studio delle tradizioni, della storia, della società regionale, da cui nacquero anche opere importanti per la stessa cultura nazionale, quella cultura si esaurì con la fine degli ultimi vecchi studiosi. Cessò anche ogni occasione di ascoltare nelle più lontane città di provincia gli uomini più rappresentativi della nazione, come era stata cura del professionismo e della borghesia e dell’aristocrazia locali, ciò che per i giovani costituiva un incontro formativo. Non dimenticherò facilmente certi tipi di erudito come Vincenzo Vivaldi a Catanzaro, stimato dagli studiosi più qualificati per le sue opere, eche terminò la sua carriera come insegnante di liceo; o le dimostrazioni in piazza, in onore di un personaggio della cultura arrivato da Milano o da Roma, e gli applausi calorosi dei giovani, come oggi si tributerebbero a un campione sportivo. Ma quel tempo è passato, e una biblioteca di città di provincia meridionale raramente ha da offrire a un giovane il materiale di studio per la ricerca, letteraria o scientifica, tecnica.

Possiamo pure schernire alla cultura e alla sua importanza sociale, formativa, creatrice di un rapporto ideale e di comuni interessi tra l’estremo Sud e la coscienza viva del Paese. Questa facile demagogia incontra sempre un favore facile, che varrebbe la pena di definire un giorno nella sua intima viltà. Ma vi sono migliaia di giovani meridionali che di questa cultura hanno bisogno, cioè hanno bisogno di un rapporto per battere all’unisono con la coscienza del mondo moderno. Non trovano di che soddisfarsi; nel peggiore dei casi si presentano alla vita disordinati e impreparati, e con un fondamentale scetticismo; nel migliore dei casi subiscono l’influenza di quei giovani altrimenti istruiti, pronti, senza pregiudizi, i giovani di formazione comunista. Non intendo qui soltanto cultura umanistica, ma tecnica, sociale, coscienza storica e dei problemi della regione. Il posto della vecchia società di trent’anni fa, che teneva l’occhio sui giovani, che ne divideva gl’interessi, è stato preso dai comunisti. E bisogna tenere nel dovuto conto il prestigio e il fascino che esercita, in un paese povero ma non rassegnato, la presenza di un giovane colto. Per aiutarlo a seguitare i suoi studi, parenti lontani e vicini si leverebbero il pane di bocca.

Il problema meridionale non èsoltanto di povertà e di disgregazione sociale. È anche un problema di cultura. Ridiamo pure della cultura, screditiamola e opponiamole sempre, all’occasione, cose che crediamo più serie, più positive e pratiche. Presso le plebi del Sud, la cultura ha un fascino. In un villaggio del centro della Sicilia, fermandomi a bere un caffè, fui assalito da una ventina di giovani studenti che mi chiedevano notizie del mondo, e del mondo dei libri, delle idee, della cultura. Si sa, è gente semplice. I raffinati se ne accorgeranno?

Da UN TRENO NEL SUD, di Corrado Alvaro – Rubbettino

FOTO: Rete

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