LA CARTA DEI DIRITTI DELLE PIANTE

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[…] Scrive Darwin: quali animali potreste immaginare più distanti fra di loro che un gatto ed un bombo? Eppure, le relazioni che legano questi due animali, anche se a prima vista inesistenti, sono, al contrario, talmente strette che, qualora venissero modificate, le conseguenze sarebbero così tante e profonde da non poter essere neanche immaginate. I topi, argomenta Darwin, sono fra i principali nemici dei bombi, di cui mangiano le larve e distruggono i nidi. D’altronde i topi, lo sanno tutti, sono la preda preferita dei gatti. Ne deriva che in prossimità dei villaggi – dove ci sono più gatti – si trovano meno topi e di conseguenza più bombi. Chiaro finora? Bene, proseguiamo. I bombi rappresentano i principali impollinatori di molte specie vegetali ed è risaputo che maggiore e migliore è l’impollinazione, massimo sarà il numero di semi prodotti dalle piante. Dal numero e dalla qualità dei semi dipende la presenza più o meno grande di insetti, i quali, come è noto, sono il nutrimento principale dal quale dipendono numerose popolazioni di uccelli.

Potremmo seguitare a lungo, unendo un gruppo di viventi ad un altro, per ore e ore: batteri, funghi, insetti, pesci, molluschi, mammiferi, palme, uccelli, cereali, rettili, orchidee si succederebbero senza pausa gli uni agli altri, fino a perdere il fiato, come in quelle filastrocche che senza interruzione legano un evento a un altro. Le relazioni ecologiche che Darwin porta alla nostra attenzione raccontano di un mondo di legami molto più complessi e inafferrabili di quanto si fosse mai prima supposto. Rapporti così complessi da connettere in un’unica rete dei viventi, tutto con tutto.

È famosa la storiella proposta per la prima volta dai biologi tedeschi Ernst Haeckel e Carl Vogt, sulla scorta delle relazioni indicate da Darwin, secondo la quale le fortune dell’Inghilterra dipenderebbero dai gatti. Questi, infatti, nutrendosi dei topi, aumenterebbero la possibilità di sopravvivenza dei bombi, che impollinando i trifogli, di cui si nutrono i manzi da cui dipende la carne che nutre i marinai inglesi, permetterebbero alla marina britannica – che com’è noto rappresenta la vera forza su cui si basa la potenza dell’impero – di sviluppare tutta la propria forza. Thomas Huxley, spingendo oltre lo scherzo, aggiunse che non erano i gatti, quanto il perseverante amore delle zitelle inglesi per gli stessi, la vera forza dell’impero. Uno scherzo dietro al quale, tuttavia, si cela la semplice verità che tutte le specie viventi sono connesse in qualche maniera le une con le altre da relazioni palesi o nascoste e che agire su una specie direttamente o semplicemente alterandone l’ambiente può avere conseguenze del tutto inaspettate. Cercare di immaginare le conseguenze finali di un’alterazione qualunque di queste relazioni, scrive Darwin, «sarebbe senza speranza come gettare una manciata di segatura o di piume in una giornata di vento e tentare di prevedere dove ogni singola particella cadrà». La storia è piena dei tentativi, quasi sempre andati a finire male, di modificare la presenza o l’attività di singole specie.

Prendiamo ad esempio l’affare del colore rosso. Quando Cortes e i suoi conquistadores, nel 1519, entrarono per la prima volta nella capitale azteca Tenochtitlàn (l’attuale Città del Messico) trovarono una città popolosa (in Europa soltanto Napoli, Parigi e Costantinopoli avevano una popolazione maggiore) e molto ricca. Nella enorme piazza del mercato, una quantità di prodotti mai visti prima, molti dei quali di grande valore, attendeva soltanto di essere trasportata sui mercati europei. Fra questi, balle di cotone finemente intessuto e filati delicati di uno strepitoso colore rosso carminio. La tinta utilizzata dagli aztechi per produrre questa incredibile tonalità di rosso era ottenuta a partire da un insettino, la cocciniglia, che viveva sulle piante di fico d’India (diverse specie appartenenti al genere Opuntia). Si trattava di un colore così bello e pregiato, che gli Stati assoggettati agli aztechi erano tenuti a fornire annualmente all’imperatore, come tributo, anche un certo numero di sacchi pieni di cocciniglia. Dai corpi essiccati di questi insetti si otteneva – e si ottiene ancora – una finissima tintura di un bel colore carminio brillante.

La produzione di questa tintura rimase, per almeno due secoli e mezzo, un monopolio della Spagna, che ne custodì gelosamente il segreto e ne fece un ampio e lucroso commercio in Europa, vendendola un po’ a chiunque potesse permettersela, ma soprattutto agli inglesi, che diventarono in breve i più entusiasti e appassionati acquirenti. Innamoratisi del carminio spagnolo, che utilizzavano per colorare le proprie divise (le famose red coats, “giubbe rosse”), trovavano il modo per acquistarla a caro prezzo anche durante le frequenti guerre contro la Spagna, in cui quelle stesse divise erano utilizzate. Al cuor non si comanda. Quello speciale punto di carminio fornito dalle tinture spagnole era fondamentale per l’esercito britannico. Ogni altro rosso avrebbe reso le loro giubbe meno rosse, svilendo la gloriosa nobiltà della divisa. Insomma, che figura ci avrebbero fatto in battaglia con delle divise sbiadite? I nemici sarebbero morti dalle risate; e non era il modo giusto di vincere una guerra.

Giubbe rosse

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Con il monopolio della tintura saldamente in mano, gli spagnoli ebbero in pugno l’intero mercato e per due secoli e mezzo, nonostante i tanti sforzi inglesi per liberarsi da questo giogo mercantile, il segreto di quella prodigiosa tintura rimase sconosciuto a tutti tranne che a pochissimi fortunati produttori spagnoli. Ma nessun segreto di produzione può rimanere tale per sempre, e così alla fine del XVIII secolo le spie britanniche riuscirono, infine, a carpire la notizia tanto anelata: per ottenere il desiderato carminio erano necessarie le cocciniglie e per avere le cocciniglie erano indispensabili i fichi d’India. Con in mano l’informazione giusta, non rimaneva che trovare il posto dove iniziare la produzione. I luoghi non mancavano: l’impero era enorme e diffuso su tutti i continenti. La scelta cadde sulla fortunata Australia. Qui, dove il fico d’India non era mai cresciuto, ma con un clima perfetto per una sua veloce crescita, vennero importate sia le piante sia le cocciniglie.

I risultati non furono quelli attesi. Le cocciniglie morirono subito dopo essere arrivate in Australia, mentre i fichi d’India, a questo punto inutili, vennero abbandonati al loro destino australiano. Un destino da conquistatori. A differenza delle cocciniglie, i fichi d’India, infatti, trovarono l’ambiente australiano perfetto per la loro diffusione. Senza alcun ostacolo o nemico naturale e con tanti uccelli che ne diffondevano i semi dappertutto, in pochi anni la pianta si diffuse su un territorio enorme. Arrivato in Australia nel 1788 dal Brasile, si stima che nel 1920 il fico d’India fosse diffuso su oltre 30 milioni di ettari e la sua espansione non si era affatto arrestata, continuando a conquistare nuovi territori alla velocità impressionante di mezzo milione di ettari all’anno. Così moltissime zone coltivate, fattorie, pascoli, aree agricole del Queensland e del New South Wales furono invasi dalle piante, scacciando i coloni e impedendo ogni tipo di attività produttiva. In breve, il problema divenne molto serio, spingendo le autorità, fin dalla seconda metà del XIX secolo, alla ricerca di possibili soluzioni.

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II governo del New South Wales nel 1901 offriva 5000 sterline a chi avesse ideato un modo per arginare l’invasione. Nel 1907, nonostante il premio fosse stato raddoppiato, nessuno ancora sembrava in grado di trovare una risposta adeguata al problema. Ovviamente, le idee strampalate non mancavano. In molti si fecero avanti con trovate, diciamo così, radicali. Fra queste: aumentare il numero di conigli – altra storia interessante di introduzione di specie andata a finire male – come predatori delle piante di fico d’India o, addirittura, evacuare un territorio enorme e spargere con gli aerei l’iprite (il gas che era stato ampiamente utilizzato durante la grande guerra) per sterminare la popolazione animale, responsabile della diffusione dei semi del fico d’India. Per fortuna nessuna di queste idee fu presa in considerazione e per decenni l’unica arma contro la devastante avanzata della specie fu quella di tagliare e bruciare le piante. Poi, nel 1926, finalmente si trovò una soluzione: un lepidottero (una farfalla) argentino noto come Cactoblastis cactorum, parassita di varie specie di Opuntia. Le larve di questa farfalla nutrendosi dei cladodi (così si chiamano le foglie modificate dei fichi d’India) nel giro di una ventina d’anni debellarono il pericolo in molte zone dell’Australia. La soluzione ebbe un successo straordinario e inaspettato. In poco tempo, tranne che nelle regioni australiane più fresche, dove la farfalla non si diffondeva efficacemente, la minaccia del fico d’India era stata annientata.

Tutto bene, quindi? In parte. Nonostante l’introduzione della Cactoblastis in Australia sia citata come una operazione di successo e addirittura, nella città di Chinchilla, in Queensland, sia stata dedicata a questa farfalla Cactoblastis Memorial Hall, la natura vuole sempre l’ultima parola. Col tempo in Australia si sono evolute popolazioni di fico d’India resistenti al parassita, e questa è una prima complicazione, non grave, che richiederà, tuttavia, negli anni a venire un controllo più attento delle popolazioni di cactus. Ma la seconda e più importante difficoltà è che il successo australiano nell’uso del lepidottero ha indotto molte altre nazioni con problemi analoghi di diffusione del fico d’India a seguire la stessa strada, con risultati del tutto inaspettati.

Come ci ricordava Darwin, cercare di prevedere cosa può accadere in una situazione del genere è come cercare di prevedere dove andrà a cadere una piuma in una giornata di vento. Negli anni ’60 la Cactoblastis fu introdotta a Montserrat e Antigua come agente di controllo delle locali popolazioni di cactus. In Australia la piuma era andata a cadere nel posto giusto, in America Centrale no. Dai Caraibi, infatti, la farfalla, utilizzando ogni tipo di vettore, si diffuse velocemente a Porto Rico, Barbados, Isole Cayman, Cuba, Haiti e Repubblica Dominicana. Con l’importazione di fichi d’India dalla Repubblica Dominicana è arrivata per la prima volta in Florida nel 1989, e da qui ha iniziato a spostarsi ad una velocità stimata di circa 150 km all’anno lungo le coste del golfo del Messico. Durante il suo cammino, ormai completamente fuori controllo, questo parassita ha messo in pericolo molte popolazioni di cactus degli Stati Uniti, minacciando interi ecosistemi, alcuni dei quali unici. Un esempio classico è l’attacco ai fichi d’India di San Salvador nelle Bahamas, una delle principali fonti di cibo per le ultime popolazioni esistenti di iguane Cyclura.

E se non bastasse, uragani, trasporti involontari o commercio hanno recentemente trasportato la Cactoblastis in Messico, dove è stata avvistata per la prima volta sull’Isla Mujeres, al largo della penisola dello Yucatàn. In Messico, il fico d’India, al contrario che in Australia, è una pianta vitale. Addirittura, appare sullo stemma e sulla bandiera; i suoi frutti e il cladodio sono un alimento base per la popolazione; è utilizzato per nutrire il bestiame in periodi di siccità e alcune specie di Opuntia ancora sono utilizzate per l’industria della tintura della cocciniglia. Se dovesse diffondersi in Messico, i danni sarebbero enormi.

Ma nessun disastro naturale, fra quelli provocati dall’uomo a seguito di decisioni avventate basate su una scarsa conoscenza delle relazioni naturali, potrà mai rivaleggiare con quanto combinato da Mao alla fine degli anni ’50. Tra il 1958 e il 1962, il partito comunista cinese guidò un movimento economico e sociale in tutto il paese, che divenne noto come il Grande Balzo in Avanti. Si trattava di un enorme sforzo collettivo che avrebbe dovuto trasformare in pochi anni la Cina da nazione agricola a grande potenza industriale i cui risultati finirono, purtroppo, per essere drammaticamente lontani da quanto sperato. Le riforme attraverso le quali il partito pensava di attuare questo cambiamento radicale della nazione interessarono ogni campo della vita cinese e alcune di queste ebbero effetti drammatici per il paese.

Nel 1958, Mao era giustamente convinto che alcune piaghe che affliggevano i cinesi da secoli dovessero essere debellate subito e in maniera radicale. Teniamo presente che quando i comunisti presero il potere nell’autunno del 1949 trovarono una nazione gravemente menomata dall’altissima incidenza di malattie infettive: la peste, il colera, il vaiolo, la tubercolosi, la polio, la malaria, erano endemici in gran parte del paese; le epidemie di colera erano frequentissime e la mortalità infantile arrivava al 30%.

La creazione di un Servizio sanitario nazionale ed una massiccia campagna di vaccinazioni contro peste e vaiolo furono fra le prime, benemerite, azioni intraprese per migliorare la situazione. Si crearono dappertutto infrastrutture per la depurazione delle acque e il trattamento dei rifiuti e, imitando quanto già fatto dall’Unione Sovietica, si formò del personale medico che, inviato nelle aree rurali del paese, servì da vero e proprio amministratore della salute, educando la popolazione alle pratiche fondamentali igienico-sanitarie e curando le malattie presenti con le risorse disponibili. Ma, ovviamente, non poteva bastare; bisognava limitare la diffusione dei vettori che diffondevano le malattie: le zanzare, responsabili della malaria; i topi, responsabili della peste e, infine, le mosche, dovevano essere sterminati. A questi primi tre «flagelli» di cui ci si doveva liberare, si aggiunse presto un quarto: i passeri, che mangiando la frutta e il riso, coltivato con fatica nei campi, rappresentavano uno dei più terribili nemici del popolo. Gli scienziati cinesi avevano calcolato che ogni passero consumava 4,5 kg di grano ogni anno. Così, per ogni milione di passeri uccisi, si sarebbe risparmiato cibo per 60.000 persone.

Sulla base di queste informazioni, nacque la campagna dei quattro flagelli e i passeri rappresentarono il primo dei nemici da abbattere. Oggi, qualunque iniziativa di cambiamento dell’ecosistema così radicale come quella di eliminare ben quattro specie da un territorio vasto come la Cina, sarebbe ovviamente considerata sconsiderata, ma nel 1958 a molti sembrò un’ottima idea. In breve, la campagna del partito che chiamava a raccolta la cittadinanza per combattere questi quattro flagelli iniziò. Vennero stampati milioni di manifesti che illustravano la necessaria eradicazione e i mezzi con i quali attuarla. Per quanto riguarda i passeri, la lotta doveva essere senza quartiere e condotta con qualunque strumento a disposizione. Una delle direttive in tal senso era di spaventare i passeri con rumori, prodotti con qualsiasi mezzo, in modo che non si posassero mai e fossero costretti a volare fino a stramazzare a terra privi di forza. Pentole, casseruole, gong, fucili, trombe, corni, piatti, tamburi, ogni possibile fonte di rumore venne utilizzata. Sentiamo come ci racconta quanto accadde un testimone russo, Mikhail A. Klochko, che lavorava, come consulente a Pechino, quando la grande campagna contro i quattro flagelli ebbe inizio:

Sono stato svegliato al mattino presto dalle grida di una donna. Precipitatomi verso la finestra, ho visto una giovane donna che correva avanti e indietro sul tetto dell’edificio vicino, agitando freneticamente un palo di bambù con un grande lenzuolo legato. All’improvviso, la donna ha smesso di urlare, apparentemente per riprendere fiato, ma un attimo dopo, giù in fondo alla strada, un tamburo ha iniziato a battere, e la donna ha ripreso le sue spaventose urla e il folle agitarsi della sua particolare bandiera. Questo è andato avanti per diversi minuti; poi i tamburi si sono fermati e la donna ha taciuto. Mi sono reso conto che a tutti i piani superiori dell’hotel, le donne vestite di bianco stavano sventolando lenzuola e asciugamani che avrebbero dovuto impedire ai passeri di atterrare sull’edificio. Questa è stata l’apertura della campagna anti-passero. Durante l’intera giornata si sono sentiti tamburi, spari, urla e viste lenzuola ondeggianti, ma in nessun momento ho visto un singolo passero. Non posso dire se i poveri uccelli avessero percepito il pericolo mortale e se ne fossero andati in anticipo su un terreno più sicuro, o se non ci fossero mai stati passeri in quel luogo. Ma la battaglia proseguì senza alcun abbattimento fino a mezzogiorno, con tutta la forza lavoro dell’hotel mobilitata e partecipante: fattorini, direttori di banco, interpreti, cameriere e tutto il resto.

Anche se nel resoconto di Klochko l’attività sembra non avere una grande efficacia, i risultati furono, purtroppo, drammatici. Il governo acclamava le scuole, i gruppi di lavoro e le agenzie governative che raggiungevano i risultati migliori in termini di flagelli uccisi. Le stime fornite dal governo cinese, totalmente inattendibili nella loro enormità, parlavano di un miliardo e mezzo di topi e un miliardo di passeri uccisi. Anche se enormemente esagerate, queste cifre ci raccontano comunque di un massacro le cui conseguenze drammatiche non avrebbero tardato a manifestarsi. Il passero, infatti, non si nutre solo di granaglie, anzi, il suo alimento principale sono gli insetti. Nel 1959 Mao, accorgendosi dell’errore, sostituiva al passero, come flagello, la cimice, ma ormai il danno era fatto. La quasi assoluta mancanza non solo di passeri (che vennero reintrodotti dall’URSS) ma di praticamente qualunque altro uccello in Cina fece aumentare a dismisura le popolazioni di insetti. Il numero di locuste cominciò a crescere esponenzialmente e sciami immensi di insetti spostandosi per i campi della Cina distrussero la maggior parte delle colture. Fra il 1959 e il 1961, una serie di disgraziati avvenimenti in parte legati a disastri naturali, in parte conseguenza delle errate riforme del Grande Balzo in Avanti, fra le quali l’idea di sterminare i passeri fu senz’altro una delle peggiori, portò a tre anni di carestia talmente dura da essere stata ritenuta la causa di morte di un numero di persone, mai chiarito del tutto, ma che si ritiene essere stato fra i 20 e i 40 milioni.

Giocare con qualcosa di cui non si conoscono bene i meccanismi di funzionamento è ovviamente pericoloso: le conseguenze possono essere del tutto imprevedibili. La forza delle comunità ecologiche è uno dei motori della vita sulla Terra. A qualsiasi livello, dal microscopico al macroscopico, sono le comunità, intese come relazioni fra viventi, che permettono la persistenza della vita. […]

Da LA NAZIONE DELLE PIANTE, di Stefano Mancuso – Larteza

Un libro da leggere e meditare

FOTO: Rete

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