LA SOPRAVVIVENZA DELL’ANIMA PER I ROMANI

Franz Nadorp – Le anime beate nei Campi Elisi 

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Per i Romani, come per gli Etruschi, la sopravvivenza dell’anima era una credenza antica e profondamente radicata. E’ vero però che tra il I sc. a.C. e il I d. C. Roma, come del resto altre aree di influenza romana, subì l’atteggiamento scettico, vedi stoicismo ed epicureismo, nei confronti dell’immortalità. Queste correnti insegnavano che I’ anima, essendo materiale si disperde totalmente all’atto della morte e che essa perde ogni forma di individualità e coscienza, venendo assorbita dal tutto. Nella maggior parte dei Romani comunque, come ci attestano letteratura, epigrafi, struttura e arredo delle tombe, era radicata la convinzione che, dopo la morte, I’ anima vivesse un’esistenza conscia e che i vivi ed i morti potessero esercitare una reciproca influenza gli uni sugli altri. La vita umana non è quindi un intermezzo tra un nulla ed un altro nulla. Il radicale cambiamento nel metodo di sepoltura funeraria dalla cremazione all’ inumazione, che fa la sua comparsa a Roma intorno al I a al II sec. d. C., troverebbe spiegazione proprio in questi due modi diversi di concepire la condizione dell’anima del defunto.

 Per quanto riguarda la localizzazione del regno dei morti, trascurando la tradizionale e poetica visione virgiliana dell’Ade, la concezione corrente era che, dopo aver ricevuto sepoltura, i morti dimorassero sottoterra, oppure vicino al luogo della tomba, dove potevano ottenere nutrimento. Era consuetudine infatti di mantenere “vívi” i defunti mediante offerte di cibo e bevande, di olio e persino di sangue, chiamandoli a partecipare ai banchetti funerari, consumati presso la tomba. A questo scopo erano praticati fori ed inserite tubature nei sepolcri affinché le offerte potessero penetrare al loro interno.

Secondo un altro concetto proprio la tomba era il luogo in cui i morti risiedevano. Questa è la ragione per cui l’ architettura dei mausolei, la forma dei monumenti funerari spesso imitavano le case dei vivi, nel tentativo di far sentire il morto a casa sua, riproducendo al suo interno, come già facevano gli Etruschi, in pittura, marmo, pietra o stucco, gli oggetti di uso comune utilizzati in vita.

Dalle informazioni riguardanti le concezioni dell’oltretomba, che ovviamente non si limitano a queste esposte, ma che per motivi di spazio non possiamo approfondire, possiamo evidenziare due aspetti fondamentali. Il primo è che la concezione della sopravvivenza dell’individualità personale oltre la morte era di gran lunga prevalente. Il secondo che la visione dei tipo di vita che attendeva I’ anima nell’ oltretomba era, in genere, ottimistica. Tanto la letteratura quanto I’ arte funeraria ci mostrano infatti che il terrore e il potere della morte potevano essere vinti e che le  anime dei defunti potevano godere nell’aldilà di un’ esistenza più ricca, felice e simile a quella degli dei, a patto di rispettare determinate regole. Queste consistevano in una vita utile, improntata alle virtù e all’ordine sulla terra, oppure nella partecipazione ad uno dei culti misterici che Roma aveva ereditato dalla Grecia classica ed ellenistica o dall’Oriente. Non meno importanti erano le forme di culto alle divinità salvatrici, tra le quali quella di Dioniso era considerata la più potente e riceveva la massima venerazione.

FONTE: https://gruppiarcheologici.org/

FOTO: Rete

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